Una manifestazione palestinese in ricordo della Nakba. Foto: Reuters
Le medaglie hanno sempre due facce. Ignorarne una, sia pure invocando le ragioni più solide o i più radicati rancori, è comunque un errore, uno sviare dalla realtà, un deformare lo specchio della storia. Storia che ci riporta al maggio del 1948, 75 anni fa: quando David Ben Gurion, leader dell’Agenzia ebraica, proclamò la nascita dello Stato d’Israele, diventandone poi il primo premier della storia. La decisione era stata presa l’anno prima, all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale e dell’Olocausto, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che aveva approvato, con un voto non unanime (33 a favore, 13 contrari, 10 astenuti), la divisione della Palestina, all’epoca sotto controllo amministrativo della Gran Bretagna. Un piano di spartizione mai accettato dai paesi arabi limitrofi (Egitto, Siria, Libano, Iraq) che dichiararono immediatamente guerra allo stato ebraico (qui un approfondimento su come i media britannici si occuparono, all’epoca, della vicenda). Quei giorni, e quelle decisioni, hanno segnato un drastico, basilare e doloroso punto di svolta, aggettivi che variano a seconda dell’angolazione dello sguardo. Per alcuni si è trattato di un sogno finalmente diventato realtà: uno stato indipendente in grado di offrire agli ebrei perseguitati una patria, una casa, un rifugio. Per altri fu l’inizio di un drammatico esodo, della “Nakba” (in arabo al-Nakbah, la catastrofe), quella che costrinse circa 750mila palestinesi a fuggire e a lasciare le proprie terre, le loro case. Uno strappo della storia ancora irrisolto, che continua a generare tensione, dentro e fuori l’intero Medio Oriente.
Quindi sono due gli anniversari da celebrare in questo 2023 (quello dei 75 anni d’indipendenza d’Israele è stato festeggiato il 25 aprile, secondo il calendario ebraico), anche se di segno diametralmente opposto: uno di festa, l’altro assai meno. E se n’è resa conto anche l’Onu che lunedì scorso, per la prima volta, ha voluto commemorare ufficialmente l’esodo forzato dei palestinesi del 1948. L'Assemblea Generale, che nel frattempo è cresciuta a 193 membri, aveva approvato lo scorso 30 novembre una risoluzione in tal senso, con 90 voti favorevoli, 30 contrari (tra i quali spiccano i no di Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Germania, Italia, Paesi Bassi, Danimarca, Ungheria, Austria) e 47 astensioni. Riyad Mansour, ambasciatore palestinese alle Nazioni Unite, aveva definito “storica” la decisione dell’Assemblea: «Sta riconoscendo la responsabilità delle Nazioni Unite di non essere in grado di risolvere questa catastrofe per il popolo palestinese per 75 anni: una catastrofe ancora in corso». Mentre il presidente palestinese Mahmoud Abbas, nel suo intervento di lunedì scorso a New York, nella sede dell’Onu, ha esortato le Nazioni Unite a «sospendere l’adesione di Israele all’organismo mondiale a meno che non ponga fine alla sua aggressione contro i palestinesi e attui le risoluzioni delle Nazioni Unite che istituiscono stati separati israeliani e palestinesi, nonché il ritorno dei rifugiati palestinesi». Abbas ha anche mostrato una lettera dell’allora ministro degli Esteri israeliano, Moshe Sharett, successiva alla risoluzione del 1948, nella quale prometteva di creare uno stato palestinese e consentire il ritorno dei rifugiati: «O adempiono a questi obblighi, o devono smettere di essere membri dell’Onu». Il presidente palestinese, che ha inoltre accusato Israele di non aver mai rispettato, né implementato le circa mille risoluzioni relative a Israele adottate negli anni dall’Assemblea generale, dal Consiglio di sicurezza e dal Consiglio dei diritti umani dell’Onu, ha chiesto anche di istituire, il 15 maggio di ogni anno, una giornata internazionale per “commemorare la difficile situazione palestinese”.
La rabbia israeliana: «Iniziativa spregevole»
Commemorazione che, come prevedibile, s’è immediatamente trasformata in terreno di scontro. Con il rappresentante israeliano alle Nazioni Unite, Gilad Erdan, che nei giorni scorsi aveva definito “spregevole” la scelta di commemorare la Nakba palestinese, scrivendo anche una lettera agli altri ambasciatori invitandoli a non partecipare all’evento: invito raccolto da 32 paesi. Il ministro degli esteri d’Israele, Eli Cohen, ha commentato con durezza: «Combatteremo la menzogna della Nakba con tutte le forze e non permetteremo ai palestinesi di continuare a diffondere menzogne e distorcere la storia». Lunedì scorso il redattore capo dell’agenzia di stampa Jewish News Syndacate, Jonathan S. Tobin, ha scritto un lungo articolo nel quale critica una corrispondenza del New York Times, firmata dalla corrispondente Raja Abdulrahim, sugli ultimi scontri tra Israele e Gaza, ma che restituisce l’esatta dimensione della differenza di sguardo: «Per loro (i palestinesi) il 15 maggio – primo giorno d’indipendenza di Israele, che proclamò la propria indipendenza la sera del 14 maggio 1948 (in conformità a decisioni dell’Onu) – definisce l’esistenza palestinese come “popolo martire” il cui risentimento revanscista deve essere nutrito e alimentato fino a quando lo stato ebraico e la storia del secolo scorso non saranno cancellati. Scopo di questa politica palestinese non è creare uno stato accanto a Israele o qualsiasi altro obiettivo teoricamente costruttivo. È piuttosto quello di creare una serie infinita di eventi che sono in pratica mini-nakbe a ripetizione, in modo da mantenere viva la causa e alimentare all’infinito la rabbia per la capacità di Israele di sopravvivere e addirittura prosperare». Tobin poi prosegue: «Quest’ultimo round di combattimenti non è semplicemente una “spirale di violenza”, che falsamente Abdulrahim afferma essere stata avviata dall’esercito israeliano. È invece parte di una guerra secolare il cui scopo è l’annichilimento di Israele. Quel pezzo sul New York Times è un classico esempio del pregiudizio dei mass-media. Ma indica anche un problema più ampio che domina il discorso sul conflitto: un deliberato esercizio di offuscamento in cui tutti fingono che il conflitto sia riducibile a niente più che un dissidio tra due parti che non riescono a trovare un compromesso. Insistere a etichettare falsamente i veri originari del paese – gli ebrei – come invasori alieni colonialisti, serve a conservare il presunto status palestinese di “vittime del privilegio bianco”. La commemorazione della loro storica sconfitta del 1948 ignora il fatto che vi fu uno scambio di popolazioni di profughi, con centinaia di migliaia di arabi in fuga o costretti a lasciare le loro case in quello che oggi è Israele, mentre un numero ancora maggiore di ebrei veniva cacciato da paesi in cui vivevano da molti secoli in tutto il mondo arabo e musulmano. Coloro che aderiscono alle commemorazioni palestinesi della nakba sembrano convinti che, protestando abbastanza forte e abbastanza a lungo, un giorno gli israeliani si stancheranno di lottare a difesa della loro esistenza e si arrenderanno. Questo semplicemente non accadrà mai».
Gli estremismi di Netanyahu
Condivisibili o meno, sono comunque parole che spiegano. Che tracciano un solco netto, che indicano una “ragione”, peraltro sostenuta dall’attuale governo di estrema destra, ancora una volta guidato da Benjamin Netanyahu. Ma è un periodo tutt’altro che semplice per Israele, che si ritrova ad affrontare una delle più profonde crisi interne, con una società profondamente lacerata, un’economia che comincia a traballare e una maggioranza politica altrettanto instabile che sembra sempre più disponibile a cavalcare le forme più radicali di estremismo, anche religioso (oltre al Likud, il governo comprende due partiti ultra-ortodossi e tre partiti di estrema destra, tra cui il partito sionista religioso, una fazione ultranazionalista affiliata al movimento dei coloni). Anche a costo di mettere in pericolo la tenuta democratica del paese. Fino a sostenere apertamente l’espansione degli insediamenti e legalizzare gli avamposti costruiti illegalmente in Cisgiordania (il mese scorso migliaia di coloni israeliani, accompagnati da sette ministri del governo Netanyahu, hanno marciato in Cisgiordania verso l’avamposto illegale di Eviatar). Inoltre da mesi sono in corso poderose manifestazioni di protesta per contrastare un progetto di riforma della giustizia, che toglierebbe potere e autonomia ai giudici della Corte Suprema, a favore delle decisioni a maggioranza della Knesset, il Parlamento monocamerale israeliano. In una recente “contro-manifestazione” dei sostenitori del governo di estrema destra, alcuni partecipanti hanno calpestato i manifesti dei giudici della Corte Suprema. Una polarizzazione da “con noi o contro di noi” che Israele non aveva mai conosciuto. Al punto che diversi analisti si chiedono se gli ultimi eventi non siano un segnale di una progressiva trasformazione da “stato ebraico” a “teocrazia”. Netanyahu sembra disponibile a muoversi in quella direzione più per interessi personali (è rincorso da quattro processi per frode e corruzione) che per convinzione, ma la sua nuova “traiettoria politica” ha già suscitato più di qualche malumore nell’alleato storico, gli Stati Uniti, e mette a repentaglio la stabilità dell’intera area.
Il premier Netanyahu
L’Onu: «Illegale l’occupazione dei territori»
Soprattutto ora che le Nazioni Unite, con una determinazione sicuramente superiore rispetto al più recente passato, mostrano di non voler cedere sul principio del rispetto delle risoluzioni. Come ha fatto l’altro giorno il sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari politici e di costruzione della pace, Rosemary DiCarlo: «In questo giorno di commemorazione, mi rivolgo a voi con profonda preoccupazione, poiché vediamo che le prospettive di riavviare un processo politico verso una soluzione a due stati basata sulle risoluzioni delle Nazioni Unite, sul diritto internazionale e sugli accordi precedenti continuano a diminuire. In tutta la Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme Est, la rapida espansione degli insediamenti – illegali secondo il diritto internazionale – sta alterando drasticamente la terra immaginata per un futuro stato palestinese». DiCarlo che poi non ha esitato a rimarcare, con estrema chiarezza: «L’occupazione israeliana dei territori palestinesi deve finire perché è illegale secondo il diritto internazionale. I palestinesi meritano una vita di giustizia e dignità e la realizzazione del loro diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza. La posizione delle Nazioni Unite è chiara: l’occupazione deve finire». Anche la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha voluto mandare un messaggio chiaro: «La Nakba non è una crisi umanitaria o un disastro naturale; piuttosto è una tragedia creata dall’uomo con responsabilità che non dovrebbero essere negate, non importa quanto tempo sia passato. Nel 75° anniversario della Nakba sarebbe ingiusto trascurare la confermata, complessa e indelebile responsabilità dell’Europa per questa tragedia in corso inflitta al popolo palestinese, la maggior parte del quale è stato sradicato e sfollato dalle proprie terre».
E mentre il governo israeliano dovrà valutare fin dove spingere il braccio di ferro con l’Onu e con i suoi più fedeli alleati, i palestinesi celebrano la loro tragedia nazionale. Anche se una soluzione, stando agli attuali equilibri, non si vede. Con l’inviato delle Nazioni Unite che continua a chiedere maggiori sforzi per la pace in mezzo alla crescente tensione, anche con «scioccanti episodi di violenza nei luoghi santi». Con Amnesty International che pubblica un rapporto nel quale denuncia l’uso, da parte di Israele, di “Apartheid automatizzato” nei territori palestinesi occupati: «Le autorità israeliane sono in grado di utilizzare software di riconoscimento facciale – in particolare ai posti di blocco – per consolidare le pratiche esistenti di polizia discriminatoria, segregazione e limitazione della libertà di movimento, violando i diritti fondamentali dei palestinesi».
Ma nessuno sa davvero cosa accadrà nell’immediato futuro, e soprattutto come fare per superare lo stallo, per arrivare a una qualche soluzione. Moshe Dann, storico, scrittore e giornalista, scriveva pochi mesi fa sul Jerusalem Post: «L’alternativa più pratica e realistica alla soluzione a 2 stati potrebbe essere riconoscere la Giordania come la patria dei palestinesi, per tutti coloro che vogliono vivere in pace. Impegnarsi e sostenere il terrorismo e cercare la distruzione di Israele, semplicemente, non è un'opzione». Lo stesso quotidiano ha poi pubblicato il mese scorso un intervento di Nitsan Joy Gordon, fondatrice e direttrice dell’ong Together Beyond Words, che non perde la speranza: «Il dolore storico, i fardelli ereditati e i traumi qui sono così profondi che nessun quantitativo di pietre o di armi potrà mai esprimerlo pienamente. Se ci provassimo, ci distruggeremmo completamente l’un l’altro. Eppure, sono fiduciosa che ci sia una via d’uscita dal dolore che ha bloccato israeliani e palestinesi in un conflitto perpetuo».