SOCIETÀ

Accettabilità sociale: la dimensione umana della transizione energetica

Secondo il Global Risk Report 2022 del World Economic Forum, 5 dei 10 più severi rischi globali sono di natura ambientale e 3 occupano l’intero podio: fallimento dell’azione climatica, eventi meteorologici estremi e perdita di biodiversità.

La posta in gioco è alta e la transizione a un sistema energetico più sostenibile e alimentato da fonti rinnovabili è una delle più grandi sfide che le società e le economie devono affrontare. A questa consapevolezza ormai diffusa tuttavia spesso nella cittadinanza non sembra accompagnarsi una disponibilità, o forse una capacità, a cambiare le proprie abitudini.

Ad esempio, come rileva l’Annuario Scienza Tecnologia e Società 2023 di Observa, oltre un italiano su due continua a usare l’automobile come principale mezzo di spostamento, a volte anche per assenza di un’offerta alternativa altrettanto valida da parte del trasporto pubblico.

Un sondaggio condotto sulla popolazione tedesca mostra invece che il 78% degli intervistati ritiene che la transizione energetica non sia veloce a sufficienza, ma allo stesso tempo più della metà non si dice d’accordo con lo stop alla vendita delle auto a diesel e benzina o delle caldaie a gas. Una simile contraddizione è nota come dissonanza cognitiva.

In altri casi, comunità locali esprimono un netto rifiuto nei confronti di nuove infrastrutture di energie rinnovabili, dalle pale eoliche agli impianti fotovoltaici a terra. I mezzi di informazione di massa oggi consentono a chiunque di avere accesso a conoscenze, a volte anche in maniera disordinata o inaccurata, che forniscono al cittadino il diritto, o per lo meno la convinzione, di prendere parte al processo decisionale.

L’accettazione sociale di una novità tecnologica è un fenomeno complesso, costituito da almeno tre componenti: il mercato, la politica e la comunità in cui si innesta. Troppo spesso proprio le dimensioni sociologiche, psicologiche e di governabilità dei progetti energetici vengono trascurate, o addirittura dimenticate, in favore di valutazioni sulla fattibilità tecnica, economica o politica di iniziative che così spesso risultano calate dall’alto.

Un incontro organizzato dal Centro Levi Cases dell’università di Padova, centro di ricerca interdisciplinare sull’energia, giovedì 27 aprile ha tentato di valorizzare proprio gli aspetti più umani e sociali della transizione, addentrandosi nelle complessità del rapporto tra la realizzazione degli obiettivi energetici indispensabili alla lotta al cambiamento climatico e le diverse istanze della cittadinanza.

Governabilità

“Una distinzione importante è quella tra accettabilità e accettazione” spiega Maria Stella Righettini del dipartimento di scienze politiche, giuridiche e studi internazionali (SPGI) ed esperta della valutazione dell’impatto delle politiche pubbliche, con un focus sulla transizione energetica. “L’accettabilità è una predisposizione a essere favorevoli o meno all’introduzione di una novità, come un impianto energetico. L’accettazione è un dato di fatto che avviene a posteriori”. Secondo Righettini, le politiche pubbliche devono puntare a costruire l’accettabilità, che è un processo, per arrivare all’accettazione e questo si fa con un lavoro a monte: “Le valutazioni vanno fatte non per analizzare il fallimento di una politica, ma ex ante per capire la potenzialità della misura che si intende introdurre”.

Esistono diversi strumenti per effettuare tali valutazioni, come l’analisi di impatto sociale o la valutazione multicriteri, quest’ultima spesso utilizzata nei bandi o quando si rinnovano le concessioni.

Le analisi costi benefici poi, che spesso si pensano essere oggettive, possono in realtà variare “a seconda dell’esperto chiamato in causa e delle tecniche utilizzate: lo abbiamo visto con la TAV, in quel caso non ha risolto il conflitto sociale. Non dev’essere intesa quindi come una bacchetta magica, ma come uno strumento che assiste il decisore nella progettazione”. Nessuna soluzione poi è in assoluto meglio di un’altra, spiega Righettini, va sempre calata nel contesto specifico: “conta l’analisi comparativa, ad esempio il fotovoltaico potrà avere un impatto a terra, ma se in quel contesto l’alternativa è la centrale termoelettrica a carbone o a gas, la soluzione migliore viene individuata in modo comparativo”.

È però fondamentale secondo Righettini che le aziende titolari dei progetti e i decisori politici lavorino sin da principio con la comunità su diversi fronti: prevenire è meglio che gestire il conflitto sociale. Innanzitutto occorre lavorare sull'aspetto della comunicazione, per assicurare una corretta conoscenza del progetto in sé e delle sue fasi amministrative (come la concessione delle autorizzazioni): da questo dipende infatti la percezione da parte della cittadinanza di quella che viene definita giustizia procedurale.

Una buona comunicazione comporta trasparenza e questa sul lungo periodo genera un rapporto di fiducia, da mantenere con un dialogo costante con la cittadinanza. “Più di tutto serve interazione frequente tra azienda e attori della comunità per abbassare il conflitto sociale, permettere conoscenza reciproca, costruire fiducia”.

Il modello di gestione da parte dei decisori deve poi essere quello di una governance veramente collaborativa: “Spesso la partecipazione della cittadinanza vede la produzione di proposte che poi non si sa bene dove vadano a finire”. Serve invece anche quella che viene definita una ownership, ovvero una condivisione reale dei benefici nella comunità, su cui si gioca la percezione della giustizia distributiva.

Psicologia

Tra i maggiori impatti percepiti di un impianto energetico ci sono quelli sull’identità di una comunità, che in una regione come il Veneto possono essere legati alla casa di famiglia, mentre magari in America a luoghi sacri per le popolazioni indigene. C’è poi l’impatto su paesaggio, flora e fauna locali; sul sistema agricolo e idrico (“per via della siccità ad esempio le centrali idroelettriche oggi sono percepite come meno sostenibili rispetto a 10 anni fa” ricorda Righettini). Infine c’è l’impatto in termini di inquinamento, “che nel caso della pala eolica può anche essere acustico, nel caso del biogas invece di odore indesiderato”.

Gli stessi impianti e le stesse tecnologie però in luoghi diversi possono generare conflitti per ragioni diverse: “le pale eoliche in un luogo possono generare una turbativa identitaria, in un altro vengono percepite come deturpazione del paesaggio”.

“Assumere che le comunità siano tutte uguali e omogenee è fuorviante” spiega Marialuisa Menegatto, ricercatrice di psicologia sociale al dipartimento FISPPA che sta portando avanti un progetto di ricerca finanziato dal PNRR sui fattori psico-sociali che sono chiamati in ballo nella formazione delle Comunità Energetiche Rinnovabili (CER). “Ci sono tante diverse istanze all’interno di una stessa comunità, la sola lettura Nimby (Not in my backyard, non nel mio cortile) può essere limitante. Alcuni studi mostrano che i fattori socioeconomici hanno impatto sull’accettabilità. Persino la religione, se ha legami con i valori ambientali”.

Uno dei fattori che più sembra favorire forme aggregative di produzione e consumo dell’energia quali sono le CER, riporta Menegatto, è il senso di appartenenza che le persone hanno nei confronti della comunità di riferimento. “I legami di vicinato a volte sono fragili e non sempre c’è attaccamento a un luogo, magari per ragioni di lavoro che ci fanno spostare di frequente, ma il senso di comunità è un elemento trainante”.

Sociologia

Non sempre però è facile generare questo comune senso di condivisione e ancora meno far nascere delle forme organizzate di cittadini, che siano consumatori o produttori di energia. Questo principalmente perché secondo Giorgio Osti, sociologo dell’ambiente del dipartimento SPGI, “il mondo dell’energia è un grande abbraccio tra Stato e mercato in cui i consumatori sono piuttosto deboli”.

Per supportare questa chiave di lettura, Osti si richiama ad alcune ragioni storiche. “Il referendum del 1987 fu un momento unico nel mondo in cui un movimento di opinione di cittadini ha impresso una svolta al processo energetico di un intero Paese facendo uscire l’Italia dal nucleare, che era associato a una lotta ai grandi impianti e al capitalismo. Poi l’ambientalismo è rimasto tiepido sui temi dell’energia, ma attivo sul fronte della conservazione nei parchi naturali e del benessere nelle fabbriche. Oggi è tornato forte con la lotta al cambiamento climatico, che è una lotta ai combustibili fossili, che sono la causa principale del riscaldamento globale”.

Riguardo alla capacità associativa della società civile, Osti ricorda che c’è stato un movimento in favore dei pannelli fotovoltaici, quando c’è stata una forte incentivazione pubblica, “che però non ha prodotto una mobilitazione sociale organizzata ed efficiente”, paragonabile ai sindacati che si sono formati dalla rivoluzione industriale in avanti o alle cooperative di consumatori nella società dei consumi di massa.

“Perché l’energia non ha creato una mobilitazione sociale in senso organizzativo? Perché ci sono qualità intrinseche al fenomeno energetico, del petrolio e del gas soprattutto, che richiedono grandi investimenti e hanno rilievo geopolitico, che li ha resi soprattutto un fenomeno esclusivo di grandi organizzazioni private e pubbliche” sostiene Osti. “Abbiamo un grande abbraccio tra stato e mercato, mentre cittadini e consumatori sono rimasti schiacciati da questo processo”.

Se da una parte le grandi organizzazioni pubblico-private lasciano in disparte i cittadini, dall’altra, ritiene Osti, pesa anche la scarsa iniziativa propositiva dei cittadini stessi. “Ora però c’è fervore, una vera febbre energetica che pervade il Paese. C’è però anche opposizione alle rinnovabili, quella all’eolico è studiata da tempo a livello internazionale. Pur avendo coste abbiamo resistenza delle comunità locali, anche per ragioni turistiche. C’è però anche opposizione a grandi impianti fotovoltaici a terra, e l’agrivoltaico prova a trovare una soluzione tenendo insieme visioni diverse. E se il gigantismo delle grandi opere crea opposizione, c’è opposizione anche al microidroelettrico”.

La situazione oggi rimane complessa e sfaccettata, ma la protesta irriducibile da un lato e qualche iniziativa associativa dall’altro rischiano di mettere in luce “la mancanza di una mediazione interna alla società civile, che rischia di creare una frattura nella società civile stessa”. La via d’uscita secondo Osti starebbe nel puntare anche per l’energia sul terzo settore, che allo sviluppo dell’Italia ha contribuito per anni.

Non è chiaro però quali siano le condizioni che favoriscano il terzo settore in ambito energetico, dato che associativismo e volontariato tipicamente attecchiscono là dove c’è necessità di circolazione di un bene immateriale qual è la relazionalità, ricorda lo stesso Osti, mentre l’energia è un bene quantificabile anche e soprattutto economicamente.

Altri conflitti

In quell'abbraccio tra Stato e mercato che strozza la cittadinanza forse vale la pena menzionare che a volte gioca un ruolo anche un conflitto di interesse che grandi attori pubblico-privati dei combustibili fossili possono avere nel rallentare la diffusione di soluzioni, le rinnovabili, radicalmente alternative al loro modello di business ma che invece si stanno diffondendo sempre più rapidamente e in maniera crescente in tutto il mondo. E oggi questo avviene per una ragione prevalentemente economica, prima che sociale, valoriale o psicologica: il loro costo infatti si è decimato nel corso dell’ultimo decennio (specialmente quello del fotovoltaico) e, l’ultima conferma viene anche dal rapporto dell’IPCC, solare ed eolico risultano le soluzioni che producono energia abbattendo il maggior numero di emissioni a costi minori.

Allo stesso tempo, la crescente diffusione di queste tecnologie rivoluziona lo schema di produzione e distribuzione dell’energia stessa: si sta passando da un modello fatto di pochi grandi impianti produttori che distribuiscono l’energia a tanti piccoli consumatori (distribuzione verticale), a uno fatto di tanti piccoli attori che possono anche consumare l’energia che producono (prosumers) e mettere in rete quella restante (distribuzione orizzontale).

Le comunità energetiche sono quindi un modo per realizzare quella giustizia distributiva (cioè distribuire nella comunità i benefici di un’innovazione) che gioca un ruolo così importante nella percezione dell’impatto delle nuove infrastrutture energetiche. “Tuttavia non c’è da illudersi sulle CER, forse dovremmo essere realisti e renderci conto che il loro modello di funzionamento non è esportabile a tutti i contesti” avverte Righettini. “Non bisogna farne un’ideologia, i meccanismi di diffusione delle comunità energetiche vanno studiati, non riguardano solo le persone ma anche gli strumenti di governance”.

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