La sede dell'Accademia della Crusca
Il divario tra cittadini e pubblica amministrazione passa anche attraverso il linguaggio, poco diretto o addirittura incomprensibile.
Fatta questa premessa, tutti gli italiani dovrebbero festeggiare l’accordo quadro tra il ministro per la Pubblica amministrazione Fabiana Dadone e il presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, che prevede dei percorsi di sensibilizzazione all’uso corretto della lingua italiana da parte dei dipendenti delle PA e la conseguente semplificazione di comunicati e circolari, quando è possibile.
È un’operazione fondamentale per incoraggiare il ruolo attivo dei cittadini di fronte a un atto o una comunicazione ufficiale: se il destinatario non riesce a comprendere il contenuto di un testo, la comunicazione è fallita. Sembra intuitivo, eppure per anni gli enti pubblici si sono trincerati dietro una comunicazione poco lineare e talvolta oscura, quando, tramite semplici accorgimenti, si poteva andare dritti al punto senza orpelli inutili.
In realtà questo non è il primo tentativo di semplificazione linguistica: come ci spiega Federigo Bambi, professore di lingua giuridica all'università di Firenze e socio corrispondente dell’Accademia della Crusca, c'erano già accordi dello stesso tipo tra la Crusca e la Scuola nazionale di amministrazione, che forma i dipendenti pubblici e con l'ufficio formazione del Consiglio di stato. Però la storia della semplificazione del linguaggio amministrativo è più lunga "la strada è stata aperta all'inizio degli anni Novanta, quando era ministro Cassese e ha promosso un codice di chiarezza per la pubblica amministrazione. Ora il ministero vuole ricominciare a battere su quel punto".
E allora cos'era andato storto? Perché dopo più di vent'anni si sente ancora il bisogno di sensibilizzare all'uso corretto della lingua? Risponde Bambi: "Si trattava di intervenire su un sistema eccessivamente strutturato: nel momento in cui uno studente entra a giurisprudenza, posa la penna e non si preoccupa dell'efficacia dei suoi testi, perché nessuno lo pone di fronte al problema". Lo studente si trovava insomma a parlare (e scrivere) come i professori e come i codici e i libri di testo, il che va benissimo se ci si deve rivolgere a un collega, ma un po' meno bene quando ci si trova davanti a un altro interlocutore, magari di bassa estrazione sociale. "Oggi le cose stanno un po' cambiando, e le scuole di diritto promuovono a volte corsi di perfezionamento per la scrittura degli atti e si cerca di insegnare lingua giuridica per inculcare la cultura dell'efficace comunicazione". Rimangono resistenze a vari livelli, tanto più che la maggior parte delle volte i neo assunti imparano a scrivere un atto basandosi su quelli precedenti, in un eterno ritorno del burocratese incomprensibile.
In ogni caso l'obiettivo, più che dare delle regole da seguire pedissequamente, è appunto quello di aumentare la sensibilità linguistica: "Noi non vogliamo – dice Bambi – costringere o insegnare a scrivere, ma porre problemi e dare gli strumenti per risolverli: l'importante è instillare il germe del dubbio".
Per chi teme un'eccessiva semplificazione, non c'è questo rischio: "Ovviamente rimarranno i tecnicismi, che non possono essere sostituiti, ma le sentenze sono pronunciate in nome del popolo italiano, quindi dovrebbero essere capaci di parlare anche ai cittadini senza bisogno di troppe intermediazioni. Parte del lessico astruso e scarsamente comprensibile può essere tranquillamente eliminato perché non risponde a esigenze tecniche". Il professore prosegue con un esempio: se i comuni mortali entrano in una casa, l'ufficiale giudiziario "vi accede", ma che bisogno c'è di usare questo termine? Per non parlare di parole come "ultroneo" che potrebbe sembrare un tecnicismo e invece può essere sostituito senza remore con un banale "superfluo": sono i cosiddetti tecnicismi collaterali che, a differenza dei tecnicismi veri e propri come per esempio "usucapione", possono essere eliminati in nome di una comunicazione più scorrevole.
Nella pratica bisogna ancora capire bene come attuare l'accordo: "Probabilmente – ipotizza Bambi – partiremo da una nuova circolare per ribadire alcuni concetti sulla chiarezza del linguaggio amministrativo, ricollegandoci a ciò che abbiamo fatto nel 2002 e nel 2005 e proseguiremo con corsi e incontri come quelli che facciamo già alla scuola di amministrazione".
Anche Nicoletta Maraschio, presidente emerita della Crusca, è soddisfatta dell'accordo: "La Crusca ha sempre cercato di perseguire questi obiettivi, a partire dal lavoro pionieristico di Bice Mortara Garavelli. Nel 2011 con l'attuale Igsg (istituto di informatica giuridica e sistemi giudiziari ndr) abbiamo promosso la pubblicazione di una guida per la redazione degli atti amministrativi, creata da linguisti, giuristi e funzionari delle pubbliche amministrazioni e abbiamo cercato di diffonderla nel modo più capillare possibile. Cito questa collaborazione perché si sfruttava l'informatica: anche adesso creare piattaforme specifiche aiuterebbe molto a superare la fase di stallo del cambiamento del linguaggio burocratico. Rispetto al 2011 si vuole tenere conto di alcune novità, come i linguaggi sui social e il linguaggio di genere".
L'intenzione è quella di coinvolgere il più possibile i dipendenti e i dirigenti delle PA: "Non basta un'azione dall'alto, – continua Maraschio – ci deve essere un'azione dal basso insieme ai funzionari amministrativi ma anche ai dirigenti: soltanto così si potrà superare la fase di stallo che è sotto gli occhi di tutti. La Crusca può svolgere questo lavoro di sintesi, grazie alle competenze che si sono sviluppate in accademia, coordinando assieme al ministero le attività per evitare la dispersione. Questo accordo può essere un punto di partenza, in corso d'opera capiremo più nel dettaglio quali iniziative promuovere".