Esistono tre tipi di persone: da una parte ci sono quelli che buttano via un alimento prima della scadenza perché in fin dei conti "non si sa mai". La loro nemesi è il gruppo di quelli che, invece, prolungano la vita di tutto ciò che trovano in frigo, a prescindere dal livello di deperibilità, perché pensano che in fondo la scadenza degli alimenti sia solo una mera operazione di marketing che dovrebbe spingerci a comprare di più. Tra questi due estremi ci sono le persone di buon senso, che si preoccupano di conservare correttamente il cibo e si affidano alla data indicata sulla confezione quando devono decidere se consumarlo oppure no.
Questa terza categoria, però, non deve costituire la maggior parte della popolazione, visto che in Occidente lo spreco alimentare è all'ordine del giorno: per provare a far fronte a questo problema Morrisons, una catena di supermercati inglese, ha deciso di eliminare la data di scadenza dal latte del suo marchio, sostituendola con un più possibilista "da consumarsi preferibilmente entro". Del resto nel Regno Unito vengono buttate circa 330.000 tonnellate di latte ogni anno, che lo rendono il terzo alimento più sprecato dopo patate e pane (fonte: indagine della Wrap del 2018) e molti di questi sprechi avvengono proprio tra le mura domestiche. Quella di Morrisons, quindi, è una decisione ragionata, che ne segue una analoga su yogurt e formaggi, ma fa un po' sorridere che, in periodo Covid, venga proposto lo sniff test: per capire se il latte è ancora fresco basta annusarlo, come forse in molti hanno sempre fatto quando l'anosmia, più o meno grave, non era diffusa come oggi.
Ma come funziona, in generale, la data di scadenza del latte? E quello che arriva sulle nostre tavole può essere considerato sicuro anche quando viene consumato dopo? Ma soprattutto, facendo i dovuti scongiuri, cosa potrebbe succederci se dovessimo inavvertitamente consumare del latte avariato? Lo abbiamo chiesto a Enrico Novelli professore di Analisi di laboratorio applicate agli alimenti al dipartimento BCA dell'università di Padova.
Servizio di Anna Cortelazzo e montaggio di Elisa Speronello
Indicare una data di durabilità (il "da consumarsi preferibilmente entro", per capirci) o una data di scadenza, spiega Novelli, è uno dei modi per garantire la sicurezza di un alimento deperibile.
Quando siamo di fronte a un prodotto fresco come il latte, è importante non interrompere la catena del freddo, che permette una corretta conservazione dell'alimento, e chiudere bene la bottiglia in modo che i microorganismi presenti nell'ambiente non vadano a contaminare il prodotto. Di solito la data di scadenza è definita dal singolo produttore, ma il caso del latte fresco è diverso: in Italia è stabilita dalla legge n.204 del 3 agosto 2004 ed è fissata sei giorni dopo il trattamento termico che va a eliminare eventuali microrganismi e spore.
C'è poi un altro tipo di latte relativamente nuovo, quello a durabilità allungata. "Si tratta - spiega Novelli - di latte che viene sottoposto a un trattamento termico di intensità superiore rispetto a quello consueto della pastorizzazione che si associa al latte fresco, cioè di circa 72 gradi per 10/15 secondi. Il latte a durabilità allungata, invece, può essere consumato anche fino a 30 giorni grazie all'impiego di temperature superiori ai 72 gradi. A volte si arriva anche ai 100 gradi, ma per un tempo brevissimo, da 1 a 5 secondi in base alla temperatura scelta. In questo modo si esercita sul prodotto una bonifica ella flora microbica superiore a quella che si ottiene con la pastorizzazione. Anche questo prodotto, comunque, va mantenuto all'interno della catena del freddo per conservarlo correttamente. Oltre che dalla data di scadenza, possiamo distinguere questo latte da quello pastorizzato perché sull'etichetta mancherà il termine fresco."
Sia chiaro: l'idea della catena inglese non è così trascendentale: ci sarà ancora una data da utilizzare come indicazione di massima, così anche in caso di anosmia non si dovrà scegliere un altro marchio. Semplicemente questa data non sarà più vincolante come lo era prima. Parliamo, di fatto, solo di un cambiamento di percezione: è, in altre parole, un messaggio per quella categoria di persone che buttava via il latte ancora prima della scadenza perché non si fidava a berlo, mentre è lecito aspettarsi che le altre due tipologie di consumatori che abbiamo citato continueranno a comportarsi esattamente come prima.
"Quello che suggerisce la catena Morrisons - sintetizza Novelli - è che il latte si può consumare anche qualche giorno dopo la scadenza, ma sempre facendo attenzione e procedendo a una valutazione preliminare dell'odore e del sapore, scartando il prodotto se questi sono pungenti o se si nota la formazione di piccoli frustoli o coaguli di caseina".
Ma cosa succederebbe, nella peggiore delle ipotesi, se qualcuno non dovesse accorgersi dell'odore o del sapore acido e nemmeno dei coaguli che si sono formati? "Probabilmente dal punto di vista della sicurezza non succederebbe nulla - spiega Novelli - perché se il trattamento di pastorizzazione è stato fatto correttamente non ci dovrebbero essere germi patogeni. Il problema sorgerebbe semmai se qualcuno avesse aperto la bottiglia con le mani contaminate da uno di questi microrganismi patogeni, e se questo venisse a contatto con il latte, che potrebbe contaminarsi a sua volta. Per questo è consigliabile, una volta aperta la confezione, consumare il latte entro 48 ore, senza tenerlo in frigo aperto per troppo tempo".
Al netto del discorso sicurezza, bisognerebbe anche capire se questo cambiamento avrà effettivamente un impatto sugli sprechi: "Io credo - conclude Novelli - che noi consumatori dovremmo fare una migliore programmazione degli acquisti in funzione dei consumi e fare attenzione a come disponiamo le cose nel frigorifero".
In effetti quello dello spreco alimentare sembra più un problema di mentalità, legato al consumismo come molti dei comportamenti che ci vengono ormai automatici. In molti casi si tratta di ripensare da zero la gestione della dispensa e del frigorifero, ma purtroppo gli sprechi, nella nostra società, non si limitano al settore alimentare (quanti capi indossiamo effettivamente tra quelli del nostro armadio? Un0indagine di Movinga dice che potrebbero essere solo il 20% del totale). Come si può facilmente immaginare, la tendenza allo spreco ha radici molto lontane, e sicuramente non si può risolvere solo con un cambio di etichetta.