CULTURA

Gli antichi greci e l'infanticidio: una falsa credenza millenaria

Chiunque abbia studiato al liceo classico, ma anche ogni lettore de Lo scudo di Talos di Valerio Massimo Manfredi, si è scontrato con quella che sembrava proprio una crudele realtà: gli antichi greci, e in particolare gli spartani, uccidevano i bambini con disabilità. Persino i nazisti impegnati in progetti di eugenetica si sono sentiti in qualche modo giustificati da quello che avevano assunto come dato di fatto: secondo loro, se anche uno tra i popoli più illuminati della storia riteneva che determinate azioni crudeli fossero necessarie per lo sviluppo della civiltà, allora ci si poteva fidare. Eppure, a quanto pare, le cose non stanno esattamente così. Facciamo un passo indietro: come si è diffusa quella che sembrerebbe a tutti gli effetti una fake news? Nella biografia di Licurgo, Plutarco aveva scritto che tra gli Spartani i neonati venivano attentamente ispezionati da un consiglio di anziani, e chi non sembrava abbastanza forte per diventare un buon soldato veniva gettato dal monte Taigeto, perché la sua esistenza in vita non avrebbe giovato a nessuno.

“I genitori non avevano diritto di allevare i figli, ma dovevano portarli in un luogo chiamato tesche, dove gli anziani esaminavano il bambino: se lo vedevano sano e robusto ne disponevano l'allevamento e gli assegnavano in anticipo una porzione di terreno demaniale; se invece lo trovavano gracile e malfatto, ordinavano che fosse gettato in una voragine del monte Taigeto, detta Apotete. Non conveniva infatti né alla polis né al bambino stesso che fosse lasciato crescere per restare sempre debole e dal fisico infelice”. (Plutarco, “Le vite”)

Altre fonti sostengono che nel resto della Grecia le cose non andassero meglio, in particolare alle neonate, visto che mettevano i padri nella posizione di pagare una dote al futuro marito: c'era da augurarsi di avere un maschio, possibilmente sano, che si facesse onore in guerra o in politica. Una ricerca pubblicata sul supplemento della rivista Hesperia, però, mette in crisi le certezze della nostra adolescenza: non ci sarebbero infatti prove archeologiche a suffragare la tesi degli infanticidi, e sia gli archeologi che gli storici hanno sempre manifestato qualche dubbio. Per chiarire meglio la questione, abbiamo intervistato Jacopo Bonetto, professore di archeologia classica e direttore del dipartimento dei Beni culturali dell’Università di Padova.

Servizio di Anna Cortelazzo e montaggio di Elisa Speronello

Le parole di Plutarco hanno portato a immaginare una sorta di istituzionalizzazione dell'infanticidio, e qui sta il nodo della questione: un conto è ipotizzare che singoli genitori, probabilmente presi dalla disperazione, uccidessero o abbandonassero i propri figli, ma ben altra cosa è sostenere che la cosa fosse tollerata, quando non incoraggiata, dalle autorità.
"Bisogna anche considerare - spiega Bonetto - che la mortalità infantile nei primissimi mesi di vita era elevatissima, anche attorno al 40%: Plutarco è un'importantissima fonte e quando ci racconta dell'uccisione dei bambini nel mondo spartano sta forse enfatizzando o trasponendo in chiave di leggenda qualcosa che avveniva anche per ragioni fisiologiche e naturali".
Nella ricerca di Maria Liston, Susan Rotroff e Lynn Snyder si parla dei ritrovamenti di scheletri di neonati, ma tutto farebbe pensare che in realtà fossero morti per le malattie o per le malformazioni, non per omicidio. Per fare un esempio, sono stati ritrovati i resti di un bambino gravemente idrocefalo, cioè con il liquido spinale che premeva contro il cervello: anche con le moderne tecniche di oggi sarebbe stato molto difficile curarlo, quindi è plausibile che sia morto per cause naturali attorno ai sei/otto mesi, coerentemente con le analisi archeologiche; se i genitori avessero ritenuto opportuno uccidere un bambino deforme, è lecito pensare che lo avrebbero fatto molto prima.

Questi ritrovamenti, però, non dimostrano senza ombra di dubbio che l'infanticidio selettivo non esistesse: l'assenza di prove in questo senso farebbe pensare a casi più sporadici rispetto a quelli intuiti dopo la lettura di Plutarco, ma è anche possibile che l'infanticidio fosse considerato una pratica vergognosa ma necessaria, e che per questo motivo le fonti fossero reticenti: "Teniamo presente - aggiunge Bonetto - che l'uccisione o l'abbandono dei bambini appena nati con qualche difficoltà o malformazione è una pratica abbastanza diffusa in tutte le civiltà del globo, ed è ben nota anche a livello etnografico". Un altro problema si pone quando ci allontaniamo dal concetto di infanticidio e cominciamo a ragionare sull'abbandono: è molto difficile distinguere, tramite le prove archeologiche, i resti di un bambino morto per cause naturali e quelli di un bambino abbandonato e morto solo dopo per cause naturali.

Non è facile trarre delle conclusioni su un argomento così complesso, ma le fonti suggeriscono che l'abbandono dei bambini con disabilità fosse un fenomeno relativamente frequente, ma comunque non istituzionalizzato. Quello che è certo è che queste fonti letterarie sono sempre un ottimo punto di partenza per le ricerche archeologiche: "Gli storici antichi - conclude Bonetto - vedevano e sapevano molto più di quello che sappiamo noi oggi: ciò che leggiamo nei testi antichi non è verificabile a causa della mancanza di informazioni, quindi le loro parole vanno accettate nella loro interezza. A volte le ricerche archeologiche aggiungono informazioni rispetto ai testi letterari, spessissimo riusciamo a individuare siti, insediamenti, città, modalità di commercio che non sono in alcun modo citati e menzionati dalle fonti: l'archeologia arricchisce il dato delle testimonianze letterarie: ecco perché storici e archeologi lavorano in modo così simbiotico".

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