Vince la trentatreesima edizione del prestigioso Premio Calvino, che ogni anno fa la fortuna di un pugno di esordienti (specie di chi, appunto, arriva primo, ma non solo), Maddalena Fingerle, classe 1993, bolzanina di origine italiane ora in Germania per un dottorato in Italianistica.
L’autrice (che “non rie[sce] ancora a definir[si] scrittrice”) è evidentemente incredula, come spesso capita, perché – lo testimoniano in tanti, tra cui Emanuela Canepa, al secondo romanzo per Einaudi dopo il fortunato L’animale femmina che vinse il Calvino tre anni fa – si tratta di un premio in grado di cambiare la vita o, sicuramente, di accelerare la gavetta di ogni aspirante scrittore.
Nomi che adesso popolano l’Olimpo della letteratura italiana, come Marcello Fois (in finale al Comisso quest’anno con Pietro e Paolo), Paola Mastrocola, Mariapia Veladiano e altri esordirono proprio in questo modo.
Fingerle vince con un romanzo breve dal titolo Lingua madre (“ma non è mio il titolo” ammette) che la giuria, composta da Omar di Monopoli, Helena Janeczek, Gino Ruozzi, Flavio Soriga e Nadia Terranova, ha scelto con questa motivazione: "un romanzo compatto di grande maturità che riesce nella sfida di tenere insieme leggerezza e profondità, affrontando con piglio holdeniano e stile impeccabile il complesso tema della parola tra pulizia e ipocrisia nel singolare contesto del bilinguismo altoatesino".
Vi si raccontano infatti le vicende (e la vita, con un flash back all’infanzia) di Paolo Prescher, il cui nome è l’anagramma di “parole sporche” perché – spiega l’autrice – “amo i giochi e qui mi sono sbizzarrita”. Il punto chiave è che Prescher, altoatesino di madrelingua italiana (come Fingerle stessa), decide a un certo punto di smettere l’italiano in favore di un “più pulito tedesco”.
Come se l’uso le contaminasse, l’autrice, in questa sua opera prima ricerca il senso ultimo delle parole nuove, dimostrando, invece, che queste vengono sempre influenzate dalla vita. Sarà Mira, milanese, con cui Prescher avrà una storia d’amore, a riportare il protagonista alla sua lingua d’origine.
Il tutto è raccontato – svela Fingerle – con tono ironico e leggero che però, a tratti, sfiora il grottesco perché – specifica – quella che si racconta è una vera e propria ossessione da cui lei stessa non si sente immune.
La stesura del romanzo è avvenuta in tempi brevi, qualche mese, infatti l’autrice aveva nel cassetto quello che definisce un “romanzo serbatoio” e diversi racconti da cui attingere, ma il suo concepimento e la fase preparatoria sono invece stati più lunghi. Fingerle infatti prima di scrivere legge e rilegge quei titoli che possono in qualche modo esserle d’aiuto nel partorire la storia e i modi; nella fattispecie per Lingua madre è tornata sulle parole di Cartongesso di Francesco Maino (vincitore del Calvino nel 2013), de Il tempo materiale di Giorgio Vasta e alla sua immancabile passione: L’Adone di Giovan Battista Marino.
Non è un caso quindi, forse, che Fingerle si dica attentissima al suono delle parole, a come la frase risulti all’orecchio una volta riletta, se si considera che il linguaggio è il tema chiave del romanzo e se si tengono a mente quali sono le sue passioni letterarie; e non è forse un caso nemmeno che la riflessione che fa esca dalla penna di una donna vissuta in un luogo di frontiera, l’Alto Adige, dove i popoli si mescolano ma le lingue restano ben separate.
“Ho una passione per i dialetti – rivela – ma quello sudtirolese non lo parlo”. Certo non serve a un narratore aver vissuto i fatti di cui dice (pensiamo a come raccontano il Sudtirolo Marco Balzano in Resto qui o Francesca Melandri in Eva dorme, entrambi non altoatesini) ma sarà invece molto interessante leggere quest’opera di Maddalena Fingerle, quando (sicuramente a brevissimo) troverà un editore, perché è probabile che la sensibilità per una tematica così sottile e di fatto pervasiva sia stata acuita in lei dal vivere in un luogo dove le lingue sono unione e barriera allo stesso tempo.