Manifestanti pro Lula e pro Bolsonaro in piazza. Foto: Reuters
Testa a testa sul traguardo, come centometristi lanciati verso il fotofinish. Lula da Silva conserva un leggero vantaggio, appena un’incollatura davanti al suo rivale e presidente uscente del Brasile, Jair Bolsonaro, che non ha alcuna intenzione di mollare una rincorsa che fino al mese scorso sembrava impossibile. Gli ultimi sondaggi, ormai a poche ore dal voto (il ballottaggio per le presidenziali sarà domenica prossima, 30 ottobre), dicono che Lula è ancora avanti di 6 punti, 53% contro il 47%, un margine appena più ampio del primo turno, quando Lula vinse di 5 lunghezze (49 contro 44), a dispetto dei sondaggi che prevedevano un divario ben più consistente. Ragion per cui anche questi ultimi numeri devono essere valutati con estrema prudenza. Ma un dato resta inequivocabile: il più grande paese del Sud America è trasversalmente spaccato in due, praticamente a metà. Con i progressisti da un lato e i reazionari di estrema destra dall’altro, con due “visioni” del Brasile di domani diametralmente opposte e inconciliabili. Una spaccatura profonda con cui, a prescindere dall’esito del ballottaggio, il futuro presidente dovrà fare i conti. «Noi brasiliani non stiamo semplicemente decidendo tra piattaforme politiche alternative o votando per i nostri candidati preferiti», scrive Felipe Antunes de Oliveira, diplomatico, docente presso la School of Politics and International Relations alla Queen Mary University di Londra. «Stiamo scegliendo tra due modi inconciliabili di fare politica. Stiamo decidendo cosa aspettarci dallo Stato. E, soprattutto, stiamo votando su opinioni contrastanti sull’identità brasiliana. Questa è un’elezione costituzionale sotto mentite spoglie».
Più distanti, i due candidati, non potrebbero essere. L’unico punto in comune, in quest’ultima fase di campagna elettorale, è nel tentativo di denigrare a tutti costi l’avversario, anche a costo di inventare accuse surreali (Lula ha dato del “cannibale e pedofilo” a Bolsonaro, che ha replicato dicendo che Lula “è in contatto con il Diavolo”). Strategie di bassissimo profilo nell’illusione di convincere, o trarre in inganno, quella piccola porzione di indecisi che domenica potrebbe “pesare” sul risultato finale. Un giudice della Corte Elettorale ha disposto pochi giorni fa la rimozione di un video sui social nel quale un deputato federale bolsonarista sosteneva che Lula, in caso di vittoria al ballottaggio, avrebbe incoraggiato l’uso di droghe da parte di bambini e adolescenti, perseguitando i cristiani, impedendo ai cittadini di manifestare in piazza e chiudendo i social network. Il magistrato ha ricordato che è vietata la propaganda elettorale che "calunnia, diffama o ferisce qualsiasi persona", né la divulgazione di "fatti notoriamente non veritieri o gravemente decontestualizzati che ledano l’integrità del processo elettorale".
Bolsonaro, l’ex militare diventato star dei fazendeiros
Il presidente uscente, 67 anni, è un ex militare nazionalista di estrema destra che ammicca apertamente al ritorno dell’esercito nella gestione del potere statale (durante la sua presidenza ha affidato ai generali alcuni ministeri chiave, come Difesa e Salute, con risultati non eccelsi). Razzista, populista, sfacciatamente neoliberista, teorico della deregulation ambientale (“agrobusiness distruttivo”, l’ha definito l’Ong Global Witness) che l’ha portato a chiudere entrambi gli occhi sulla deforestazione dell’Amazzonia a vantaggio delle multinazionali, tollerando l’invasione violenta delle terre indigene, scatenando una campagna d’odio contro gli attivisti per i diritti umani, incoraggiando i civili all’acquisto di armi, alimentando un clima di paura e di intolleranza. Piace, e molto, ai fazendeiros, i latifondisti delle grandi imprese agrarie (e alle decine di migliaia di famiglie che da quel lavoro dipendono) che hanno generosamente finanziato la sua campagna elettorale. Ha il totale sostegno dalla “rete” delle Chiese pentecostali evangeliche, un torbido impasto tra integralismo religioso, propaganda politica (di estrema destra) e affari sporchi (riciclaggio, corruzione, estorsione). L’esercito, e gran parte della polizia, sono i “guardiani” della sua campagna elettorale (e Bolsonaro continua a essere assai generoso nell’elargire loro enormi somme di fondi pubblici), fondata sulla triade ideologica “Dio, Famiglia, Patria”, o su quella più pragmatica “sicurezza, liberismo economico, conservatorismo sociale”, senza dimenticare il disprezzo ostentato verso le minoranze, gli omosessuali, la comunità LGBT+. Il presidente uscente si presenta come “un soldato cristiano che si pone ad argine del dilagare del marxismo culturale”. Il teologo Fabio Py, docente all’Universidade Estadual do Norte Fluminense (UENF), l’ha definito “cristofascismo bolsonarista”, che «è promosso attraverso una teologia politica autoritaria, basata sull’odio per la pluralità democratica». Del suo sfidante dice che è un corrotto, amico dei trafficanti di droga, che se dovesse vincere chiuderà le chiese evangeliche, che le proprietà private e i diritti ereditari saranno a rischio. Sembrava condannato all’oblio Bolsonaro, da se stesso, e dal bilancio, imbarazzante, dei 5 anni sotto la sua presidenza.
Invece è vivo e vegeto, spavaldo, sprezzante. Incassa il plauso dei più ricchi e famosi, a partire dalla star del calcio Neymar, che in un video pubblicato su TikTok balla il motivetto elettorale del presidente uscente (Lula ha replicato: «lo fai per il fisco»). Bolsonaro, peraltro, si è già da tempo “impossessato” dei colori della nazionale brasiliana, indossando in più occasioni (comizi, voto al primo turno) la tradizionale maglietta verdeoro (e a molti tifosi brasiliani la mossa non è piaciuta). Ma anche dei più poveri, grazie all’ampliamento dei fondi per il programma “Auxilio Brasil”, un piano integrato di sussidi (dall’assistenza sociale e sanitaria, all’istruzione, all’occupazione, al reddito) a beneficio di circa 20 milioni di brasiliani, i più vulnerabili. Nella sua corsa “ideologica” alla presidenza non ha risparmiato attacchi all’autonomia universitaria, nominando presidi suoi “alleati” e diffondendo nelle università un clima di diffidenza, di divisione, sostenendo la sua battaglia contro fantomatici “indottrinamenti di sinistra”.
Lula, dalla difesa degli ultimi alla lotta alla fame
Sull’altro versante c’è Luiz Inácio Lula da Silva, 77 anni, ex sindacalista che ha già governato il Brasile per due mandati tra il 2003 e il 2011, simbolo della sinistra, non soltanto in Sud America. La sua stella s’era offuscata nel 2017 quando finì in carcere, arrestato per diversi casi di corruzione e riciclaggio di denaro, e condannato a 12 anni di prigione in primo grado. Nel 2021 la Corte Suprema del Brasile ha dichiarato nulle le condanne a suo carico (per un vizio di forma), restituendogli la libertà e la possibilità di candidarsi nuovamente alla guida del paese. Al centro del suo programma politico, al solito, ci sono i programmi sociali, la difesa degli ultimi, dei più poveri, con l’obiettivo di “far tornare il Brasile a essere sovrano”. «Un Paese sarà sovrano quando il suo popolo sarà rispettato, avrà un lavoro, avrà un’istruzione, avrà uno stipendio, mangerà, avrà salute, avrà conquistato una cittadinanza dignitosa a cui ogni essere umano ha diritto, che è nella nostra Costituzione, nella Dichiarazione Universale dei diritti umani, nella Bibbia», aveva detto Lula lo scorso giugno, nel presentare la sua candidatura. Tra i temi principali c’è la lotta alla fame, che a causa dell’inflazione, dell’aumento della disoccupazione e del calo dei redditi ha spinto 33 milioni di persone oltre il confine della “sicurezza alimentare”: ma secondo una ricerca pubblicata appena pochi mesi fa dal Brazilian Research Network in Food and Nutrition Sovereignty, il 57,8% dei brasiliani deve fare i conti con il problema della fame, in un arco che va da “lieve” a “grave”. Anche Lula spinge forte sul piano delle sovvenzioni ai più bisognosi: ha già annunciato che, se sarà eletto, chiederà al Congresso un aumento dei fondi per l’Auxilio Brasil, ma modulandolo sulla base del suo precedente programma, la “Bolsa Familia” (che obbligava i destinatari a mandare i figli a scuola e a eseguire le necessarie vaccinazioni).
Poi aumento del budget per l’istruzione, riforma del lavoro, una “responsabilità fiscale” basata sul principio che più ha più paga, ma con l’innalzamento della soglia minima di esenzione che potrebbe passare dagli attuali 1.900 reis (pari a circa 350 euro) a 5.000 (circa 930 euro). E controllo del prezzo del carburante sottraendolo alle fluttuazioni del mercato internazionale: «Il Paese ha bisogno di una transizione verso una nuova politica dei prezzi di carburanti e gas, che tenga conto dei costi nazionali per ridurre i prezzi elevati ed espandere la produzione nazionale di derivati, con ampliamento del parco di raffinazione». E lotta alla corruzione, punto debole di Lula viste le accuse a suo carico, che l’inchiesta giudiziaria non ha ancora mai smentito. Oltre, naturalmente, alla difesa dell’Amazzonia, con il programma “deforestazione zero”, e al rispetto degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra: «Dobbiamo muoverci verso un’agricoltura e un allevamento impegnati nella sostenibilità ambientale e sociale. Senza questo perderemo spazio nel mercato estero e non contribuiremo a vincere la fame e l’accesso a cibi sani, dentro e fuori i nostri confini». Durante un recente dibattito televisivo (che si è risolto a suon di insulti e accuse reciproche), Lula ha definito Bolsonaro “un piccolo dittatore” e il “re delle fake news”, di aver chiamato “gripezinha” (influenza) la Covid 19, accusandolo di negligenza nell’affrontare la pandemia, che in Brasile ha provocato finora 688mila morti: «E più della metà di queste persone avrebbe potuto essere salvata», ha accusato Lula.
Un golpe annunciato
Due mondi opposti e inconciliabili. Ma sul voto di domenica prossima, sempre se il lieve vantaggio a favore di Lula sarà confermato, pende l’enorme incognita di Bolsonaro, che in caso di sconfitta ha già dichiarato che non riconoscerà il risultato (modello Donald Trump). O meglio: lo accetterà soltanto “se le elezioni saranno pulite e trasparenti”, dopo aver più volte lanciato il sospetto, senza mai fornire prove concrete, che le macchine per il voto elettronico siano soggette a frodi. E se il risultato non fosse di suo “gradimento”? Due possibilità: una legale, l’altra meno. Il candidato sconfitto potrebbe avviare un'azione legale contro il TSE (Tribunal Superior Eleitoral) sostenendo che il voto è illegale, motivandola come meglio riterrà. Oppure potrebbe tentare la via del colpo di stato schierando ai suoi ordini esercito e polizia (lo scorso agosto alcuni imprenditori legati a Bolsonaro hanno subito perquisizioni perché in un gruppo Whatsapp parlavano apertamente dell’ipotesi di golpe in caso di vittoria di Lula). Scrive in un editoriale Brasil de Fato, quotidiano online: «La destra attacca le istituzioni da essa storicamente create: Stato, Democrazia e libertà. In questo caos completo di attacchi alla politica si crea un quadro di discredito di istituzioni, partiti, organizzazioni e di quello che convenzionalmente viene chiamato il "sistema" politico». Per dire quanto l’ipotesi golpe sia concreta: il mese scorso il Senato degli Stati Uniti ha approvato all'unanimità una risoluzione presentata dal senatore Bernie Sanders per difendere la democrazia in Brasile. La risoluzione prevede la “rottura delle relazioni tra i due paesi in caso di colpo di stato del presidente Jair Bolsonaro”. «Non ci stiamo schierando alle elezioni del Brasile» - ha chiarito Sanders nel suo intervento. «Ma la continuità delle relazioni tra Stati Uniti e Brasile, compresa l’assistenza militare, dipende dall’impegno che il governo brasiliano utilizzerà per garantire il rispetto della democrazia e dei diritti umani». Una mossa formale, e inusuale, da parte del Senato americano, che ha il sapore di un avvertimento.