Con lo scoccare del nuovo anno comincerà il terzo mandato di Luiz Inácio Lula da Silva come presidente del Brasile. E sarà un insediamento pieno d’insidie, come testimonia il camion cisterna carico di carburante, scoperto a Santo Stefano vicino all’aeroporto di Brasilia, all’interno del quale un seguace di Bolsonaro aveva piazzato un ordigno rudimentale. Per Lula, e per il governo che presiederà, la prima parola d’ordine sarà “ricucire”. Perché di strappi, alcuni drammaticamente profondi e dolorosi, l’ex presidente Bolsonaro ne aveva prodotti in abbondanza, e in diversi ambiti. A partire dai rapporti internazionali, come ha recentemente ricordato il futuro ministro degli esteri, Mauro Vieira, presentando il suo programma: «Il presidente eletto ha deciso che il Brasile ritorna nel mondo e supera l’isolamento in cui era immerso durante la precedente amministrazione. Ricostruiremo ponti con i vicini sudamericani, con l’America Latina in generale, e riprenderemo tutti i programmi di cooperazione con l’Africa». Primo passo: sarà riaperta l’ambasciata brasiliana a Caracas (Bolsonaro aveva interrotto le relazioni diplomatiche con il Venezuela di Nicolas Maduro). Poi, il 24 gennaio, Lula riporterà il Brasile al vertice della Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (CELAC), che si terrà a Buenos Aires, in Argentina (organismo che era stato abbandonato nel 2020 dall’ex presidente). infine, sempre entro il primo trimestre, sono previsti in agenda due viaggi diplomatici (e strategici) di primaria importanza, negli Stati Uniti e in Cina, per definire le nuove linee di condotta.
Drammaticamente importanti saranno poi le riforme sociali: la lotta alla fame, la difesa dei più poveri, il lavoro e il rispetto di un salario minimo. Secondo le ultime stime quasi un terzo degli oltre 212 milioni di abitanti (per l’esattezza 62,5 milioni di persone, soprattutto nelle regioni a nord-est del paese) vive sotto la soglia di povertà: e di questi, 17,9 milioni sono considerati “estremamente poveri”. E qui l’obiettivo di Lula sarà necessariamente trovare un (non semplice) punto d’equilibrio: «Generare ricchezza senza devastare l’ambiente e senza ampliare le disuguaglianze», come lui stesso aveva promesso in campagna elettorale». Il futuro ministro delle Finanze, Fernando Haddad, ha parlato di “responsabilità fiscale con impegno sociale” come una delle priorità economiche del governo: «La legge sulla responsabilità fiscale sostiene i conti pubblici e garantisce il finanziamento dei programmi sociali, che restano prioritari per il governo. Queste due linee guida non possono essere in antagonismo». Lo stesso Lula ha promesso: «Aumenterò il salario minimo nazionale, creerò di nuovo posti di lavoro». Un altro punto di discontinuità, per definirlo così, sarà il tema dei vaccini. Bolsonaro è stato un presidente negazionista («Il Covid? È solo una piccola crisi, tutta isteria collettiva», sosteneva): un rapporto del Senato brasiliano dello scorso anno è arrivato ad accusare l’ex presidente di “strategia istituzionale di propagazione del virus, promossa dal governo brasiliano per fare ripartire a qualsiasi prezzo le attività economiche”, parlando non soltanto di “cattiva leadership, ma atti di follia deliberati e letali”, di fatto addossando a Bolsonaro la responsabilità di centinaia di migliaia di vittime (il conto attuale sfiora i 700mila morti), soprattutto tra le popolazioni indigene. Oggi quella pagina, per fortuna, sta per essere voltata. Il vice di Lula, Geraldo Alckmin, ha sottolineato «l’importanza della prevenzione, dei vaccini», annunciando «un programma di immunizzazione attraverso una grande campagna nazionale».
La vera sfida: fermare il saccheggio della foresta pluviale
Ma c’è una sfida che forse più d’ogni altra sembra rappresentare il vero “mandato internazionale” di Lula, la vera scommessa di questo leader socialista, icona della sinistra, che a 77 anni torna a recitare un ruolo di primo piano sul palcoscenico internazionale: il salvataggio dell’Amazzonia. Capire se avrà la forza e il sostegno necessario per riuscire ad arrestare la sfrenata distruzione della foresta pluviale, incoraggiata dalla precedente amministrazione proprio per favorire gli interessi delle grandi multinazionali e dei cosiddetti “accaparratori di terre”, oltre che dei taglialegna e dei minatori illegali. Un saccheggio sistematico e violento della terra che nei quattro anni della presidenza Bolsonaro ha provocato la distruzione di un’area di oltre 45mila chilometri quadrati, un territorio più grande, tanto per avere un metro di paragone, dell’intera Svizzera. Scrive il Guardian: «La sconfitta dell’ex capitano dell’esercito di estrema destra, che ha scatenato un'ondata di incendi boschivi e avvelenamento dei fiumi nella più grande foresta pluviale del mondo, è stata probabilmente la migliore notizia ambientale del mondo del 2022». E Lula l’ha ribadito, partecipando il mese scorso alla Cop27, in Egitto: «Bisogna fare tutto ciò che è nelle nostre possibilità per proteggere la foresta pluviale, perché non c’è sicurezza climatica se non si mette in sicurezza il polmone del Pianeta». L’obiettivo dichiarato è la “deforestazione zero”, con la lotta a qualsiasi tipo di attività illegale. Carbon Brief, sito giornalistico britannico specializzato nell’analisi dei cambiamenti climatici, ha pubblicato pochi mesi fa un’analisi, realizzata da ricercatori dell’Università di Oxford, dell’International Institute for Applied System Analysis (IIASA) e dell’Istituto nazionale per la ricerca spaziale (INPE), nella quale si sostiene che la vittoria di Lula alle elezioni presidenziali potrebbe far diminuire dell’89% la deforestazione in Amazzonia, soltanto facendo rispettare le norme già vigenti, vale a dire applicando il Codice Forestale, una legge tanto rigorosa quanto scarsamente rispettata, entrata in vigore quasi cinquant’anni fa, nel 1965, che obbliga i proprietari terrieri a preservare una certa percentuale di foresta sulla loro proprietà e ripristinare la terra che è stata deforestata illegalmente.
I guardiani satellitari
Ma chi controlla? Si legge in un articolo pubblicato dalla ong The Nature Conservacy ancora nel 2018: «La foresta pluviale amazzonica è enorme: misura 2,72 milioni di miglia quadrate, grosso modo le dimensioni di Messico, Mongolia, Perù ed Egitto messi insieme. Ora, immaginate i governi federali e locali con poche risorse che cercano di tracciare i confini delle proprietà in questa vasta area di giungla spessa e per lo più invalicabile. Storicamente, il Codice Forestale è stato quasi impossibile da implementare e monitorare. Esistono documenti di proprietà chiari solo per il 10% dei terreni privati in Amazzonia. Ecco perché nel 2010 il governo brasiliano ha reso obbligatorio che tutte le proprietà rurali siano mappate e registrate attraverso un sistema governativo noto come CAR (Cadastro Ambiental Rural)». E sarà sempre più indispensabile l’uso della tecnologia, con il monitoraggio satellitare (le prime registrazioni risalgono al 1988), che negli ultimi anni era finito però sotto il controllo del ministero dell’Agricoltura (con l’ex ministro, Tereza Cristina Diaz, sospettata di essere assai vicina alla lobby degli allevatori). Ora il vento potrebbe e dovrebbe cambiare. E sempre più prezioso sarà il lavoro, ad esempio, di MapBiomas, una rete formata da scienziati, organizzazioni non profit, università e aziende tecnologiche brasiliane, che continua a monitorare l’uso del suolo proprio per smascherare i trasgressori, pubblicando mappe che mostrano la copertura forestale, l'uso dell'acqua, i siti minerari. Il futuro ministero dell’Agricoltura dovrà avere strumenti e risorse (oltre a distribuire multe ambientali più severe ai colpevoli, come Lula ha già promesso in campagna elettorale) per riuscire a contrastare questo trend.
Il problema è che, soprattutto negli ultimi quattro anni, grandi gruppi agroalimentari, allevatori, minatori più o meno improvvisati e taglialegna hanno avuto un sostanziale via libera a saccheggiare la foresta, disboscandola soprattutto per creare nuovi pascoli (il Brasile è leader mondiale nell’esportazione di carni bovine), e nuove opportunità individuali, naturalmente a scapito delle popolazioni indigene, scacciate con violenza dalle loro terre (uno studio del 2021 individuava 43 gruppi indigeni a rischio). Ilona Szabó è una ricercatrice dell’Instituto Igarapé, una ong che si occupa di diritti umani e di sicurezza climatica, mette però in guardia: «Sarà tutt’altro che semplice sradicare il malaffare dalle terre dell’Amazzonia. E la deforestazione è soltanto la punta dell’iceberg. In questi anni si sono consolidate molte economie illecite e molti attori con un livello di organizzazione, sofisticatezza e violenza assai più alto rispetto al passato».
Il Guardian, quotidiano britannico, ha appena pubblicato un’analisi dettagliata sull’argomento, dal titolo eloquente: “Sette motivi per essere felici per l’Amazzonia nel 2023 e tre per essere terrorizzati”. «Uno dei blitz mediatici nelle prime settimane o mesi del nuovo governo sarà una grande operazione o una serie di operazioni contro i campi minerari illegali all’interno del territorio indigeno Yanomami, Munduruku o Kayapo. Aspettatevi immagini hollywoodiane di agenti della protezione forestale che piombano su elicotteri militari, radunano criminali e poi bruciano tutte le attrezzature in vista. Ancora una volta, si tratterà in gran parte dell’invio di segnali. Una vera soluzione richiederà molto più tempo e sarà molto più complessa perché i campi minerari illegali sono sparsi in tutta l’Amazzonia, spesso cooptano gli indigeni e lasceranno migliaia di persone povere e non addestrate senza lavoro e bisognose di trasferimento e sostegno statale per iniziare una vita diversa. Tutto ciò segnalerà che lo stato è tornato in Amazzonia. E l'Amazzonia sarà più nello stato di prima grazie alla creazione di un ministero indigeno».
Per Lula sarà una sfida “in salita”
Ma non mancano le incognite. Anzitutto perché il Brasile è un paese spaccato a metà: la vittoria di Lula sul filo di lana (meno del 2% di voti di differenza) non garantisce un sostegno sociale pieno e ampio all’azione del prossimo presidente. Come giustamente osserva Jonathan Watts sul Guardian: «L'Amazzonia non sarà mai al sicuro finché gli alberi valgono più morti che vivi. È ancora così. I mercati delle materie prime attribuiscono un valore molto maggiore ai prodotti forestali, come carne bovina, oro, legname, soia e minerale di ferro, rispetto alla foresta stessa». Tutti i gruppi che hanno fatto affari con la foresta in questi anni, tutti coloro che si sono arricchiti, resisteranno con ogni mezzo, lecito o meno (i bolsonaristi più accaniti continuano ancora oggi a invocare il colpo di stato). È impensabile che un cambio di marcia, così come prospettato da Lula, avvenga senza reazioni violente.
Poi c’è il fattore tempo, che gioca decisamente contro, con il 18% dell’intera foresta ormai irrecuperabile e un altro 17% gravemente degradato. Secondo il “Living Amazon Report”, pubblicato il mese scorso dal WWF, il tempo è praticamente scaduto, soprattutto se l’azione del nuovo governo dovesse subire ulteriori ritardi: «L’Amazzonia sta iniziando a mostrare segni di avvicinamento a un punto di non ritorno», sostiene Isabella Pratesi, direttrice del Programma di Conservazione del WWF Italia. «Le stagioni stanno cambiando, l’acqua di superficie si sta perdendo, i fiumi sono sempre più disconnessi e inquinati e le foreste sono sottoposte a un’immensa pressione a causa della deforestazione e degli incendi. Tutto ciò potrebbe portare a cambiamenti irreversibili nel prossimo futuro, con la conseguente perdita di uno dei pilastri della stabilità planetaria in termini di clima e biodiversità, nonché di insostituibili baluardi della diversità culturale e delle conoscenze ancestrali». Lula dovrà muoversi bene e in fretta, anche se il budget a sua disposizione non sarà illimitato. Dovrà riuscire a creare una rete di sostegno internazionale (più semplice) e interna (più complessa). Dovrà far correre i provvedimenti in Parlamento, magari tentando di convincere le grandi aziende che non esiste futuro (e dunque affari) che non tenga conto della sostenibilità delle catene di approvvigionamento. Alla Cop27 del mese scorso Lula, di fronte ai leader mondiali, ha pronunciato una frase che racchiude tutte le aspettative del suo terzo mandato: «Non sono tornato per fare quello che ho già fatto. Sono tornato per fare di più».