SOCIETÀ
Nel 2023 il consumo del suolo in Italia è costato oltre 400 milioni di euro
Quando si pensa al nostro “suolo”, lo si immagina come uno spazio vuoto, magari da riempire con attività commerciali, con elementi che apparentemente portano reddito, valore. Ecco, il suolo invece è esso stesso fonte di guadagno, o almeno dovrebbe esserlo. Il rapporto dell’Ispra uscito ad inizio dicembre, parla chiaro: “La perdita dei servizi ecosistemici legata al consumo di suolo non è solo un problema ambientale, ma anche economico.”
In un’epoca di cambiamenti climatici, con conseguenti fenomeni estremi sempre più presenti, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale ha messo in luce come solo nel 2023 la riduzione dell’”effetto spugna”, ossia la capacità del terreno di assorbire e trattenere l’acqua e regolare il ciclo idrologico, secondo le stime, sia costata al Paese oltre 400 milioni di euro.
Dovremmo parlare chiaramente di un “caro suolo”, che si unisce agli altri costi causati dalla perdita dei servizi ecosistemici dovuti alla diminuzione della qualità dell'habitat, alla perdita della produzione agricola, allo stoccaggio di carbonio o alla regolazione del clima.
E di suolo in Italia continuiamo a consumarne troppo. Nonostante lo scorso anno ci sia stato un piccolo rallentamento, il consumo di suolo continua ad avanzare al ritmo di circa 20 ettari al giorno, ricoprendo nuovi 72,5 km2, cioè una superficie estesa come tutti gli edifici di Torino, Bologna e Firenze. Una crescita inferiore rispetto al dato dello scorso anno, ma che risulta sempre al di sopra della media decennale di 68,7 km2 (2012-2022) e solo in piccola parte compensata dal ripristino di aree naturali (poco più di 8 km2 , dovuti in gran parte al recupero di aree di cantiere).
Il rapporto SNPA (Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente) ci dice che nel 2023 risultano cementificati più di 21.500 km2. Le impermeabilizzazioni permanenti poi sono pari a 26 km2 in più rispetto ad un anno fa, e questo è suolo perso in modo oramai irreversibile.
“Il 70% del nuovo consumo di suolo avviene nei comuni classificati come urbani secondo il recente regolamento europeo sul ripristino della natura (Nature Restoration Law) - si legge nel rapporto -. Nelle aree, dove il nuovo regolamento europeo prevede di azzerare la perdita netta di superfici naturali e di copertura arborea a partire dal 2024, si trovano nuovi cantieri (+663 ettari), edifici (+146 ettari) e piazzali asfaltati (+97ettari)”.
In calo costante quindi, è la disponibilità di aree verdi: meno di un terzo della popolazione urbana riesce a raggiungere un’area verde pubblica di almeno mezzo ettaro entro 300 metri a piedi. Oltre a ciò proseguono anche le trasformazioni nelle aree a pericolosità idraulica media, dove la superficie artificiale avanza di oltre 1.100 ettari, mentre si sfiorano i 530 ettari nelle zone a pericolosità da frana, dei quali quasi 38 si trovano in aree a pericolosità molto elevata.
Ci sono infine nove comuni italiani che hanno una percentuale di consumo del proprio suolo superiore al 70%. Con un consumo del 91,65%, la maglia nera va a Casavatore, in provincia di Napoli, provincia che, a ben vedere tutti i primi dieci comuni per consumo del suolo. Tutti sono superiori al 68% e tra questi si inserisce solamente Lissone, in provincia di Monza e Brianza con il 71,43%.
Come abbiamo capito, consumare il suolo non è solamente un fattore ambientale, che sarebbe già abbastanza di questi tempi, bensì ha un forte impatto anche dal punto di vista economico. “Se si considera la perdita del suolo avvenuta non solo nell’ultimo anno - conclude il rapporto dell’Ispra -, ma nel periodo tra il 2006 e il 2023, l’impatto economico viene stimato tra 7 miliardi e 9 miliardi di euro annui. Il valore perso di stock (ossia la perdita assoluta di capitale naturale) dello stesso periodo varia tra 19 e 25 miliardi di euro”.