Hun Sen, primo ministro della Cambogia. Foto: Reuters
Secondo gli Stati Uniti, e non soltanto, in Cambogia c’è un profondo e crescente deficit di democrazia, di manifesta intolleranza verso il dissenso, che sempre più spesso viene punito con l’intimidazione, con la violenza, nei casi più gravi con l’arresto. Al punto che la locale ambasciata americana ha rilasciato pochi giorni fa una nota ufficiale nella quale si esorta il paese del sud-est asiatico «a rafforzare la democrazia in vista delle elezioni nazionali», che si terranno il prossimo luglio. La nota, che ha scatenato l’ira delle autorità di Phnom Penh, seguiva di poche ore l’arresto di Thach Setha, vicepresidente dell’unico partito di opposizione, il Candlelight Party, portato in carcere il 16 gennaio scorso e formalmente accusato per aver emesso assegni a vuoto. Ma il suo partito è convinto che sia solo un pretesto, che la ragione sia altrove: «Riteniamo che l’arresto e la detenzione di Thach Setha siano un gesto politico, una minaccia reale al fine di intimidire il popolo cambogiano, a pochi mesi dalle elezioni generali», ha sostenuto un altro leader del Candlelight Party, Son Chhay. Del resto non è la prima volta che il Partito Popolare Cambogiano (CPP) usa il pugno di ferro contro i suoi oppositori. Nel 2018 il principale partito di opposizione, il popolarissimo Cambodia National Rescue Party (CNRP), venne sciolto d’ufficio dalla Corte Suprema a pochi mesi dalle elezioni perché accusato di “pianificare il rovesciamento illegale del governo”. Una strategia, chiamiamola così, che ha consentito al presidente del Partito Popolare, Hun Sen, 72 anni, di mantenere il ruolo di primo ministro ininterrottamente dal 1985 a oggi (alle elezioni del 2018, in assenza di reali competitor, il Partito Popolare ha conquistato tutti i 125 seggi dell’Assemblea Nazionale in palio). C’è chi lo definisce “uomo forte”, chi apertamente “dittatore”. Pochi giorni fa il primo ministro è arrivato a minacciare pubblicamente un altro leader del Candlelight Party (che ha raccolto l’eredità del disciolto CNRP): «Vorrei avvertirvi: non vi permetteremo di accusarci di essere ladri a vita. Voglio dirvi che dobbiamo porre fine alla cultura della protesta dopo le elezioni. Il CPP non può più accettare il termine “frode elettorale”. Chiunque osi dire questo, dobbiamo fare causa. E ci sono due possibilità. Una è usare la legge, l’altra è usare il bastone: scegliete voi quale preferite». Dunque o una causa legale, con accuse fabbricate ad hoc, o la violenza fisica. Hun Sen, che sembra avere la fobia dell’insulto via social, ha anche minacciato di sequestrare le proprietà appartenenti ai leader dell’opposizione.
Il labile confine tra affari e diritti umani
La situazione è assai più grave di come la descrive l’ambasciata americana, molto attenta, com’è ovvio, a preservare i buoni rapporti, soprattutto commerciali, tra i due paesi (l’export cambogiano negli Usa nel 2022 ha raggiunto volumi da record, oltre gli 8 miliardi di dollari). Lo stesso presidente americano, Joe Biden, in occasione della sua ultima visita a Phnom Penh, lo scorso novembre, per partecipare al vertice dell’Asean (Association of South-East Asian Nations), aveva definito la partnership degli Stati Uniti come «…il cuore della strategia indo-pacifica della mia amministrazione», come argine alla crescente influenza della Cina nella regione. Insomma, buoni e solidi rapporti. Ma il governo cambogiano non ha preso bene l’intervento dell’ambasciatore americano, quella generica richiesta di un “rafforzamento della democrazia in vista delle elezioni”. Questa la risposta piccata del ministero degli Esteri: «Il modo migliore per garantire l’indipendenza di un piccolo paese come la Cambogia è impedire a una potenza straniera di interferire nei suoi affari interni o sostenere una parte contro l’altra». Non siamo ancora all’incidente diplomatico, ma un filo di tensione è stato certamente scoperto. Secondo Kin Phea, direttore dell’Istituto per le relazioni internazionali presso la Royal Academy of Cambodia, intervistato dal Phnom Penh Post, l’intervento americano ha una precisa rilevanza, e un rischio connesso: «La sovranità, l’indipendenza, l’integrità territoriale, la pace e la stabilità della Cambogia sono tutte linee rosse quando si tratta della sua interazione con altre potenze. Se gli Stati Uniti suggeriscono che l’arresto di Setha è stato una violazione dei diritti umani, allora sembra che si stiano allontanando dal controllo dei fatti e sembrano tentare di interferire con il giusto processo legale di uno stato indipendente».
Eppure non c’è organizzazione umanitaria che non abbia denunciato a gran voce, anche nel recente passato, l’uso della carcerazione come strumento politico per silenziare gli oppositori. Lo scorso anno Human Rights Watch aveva scattato una fotografia assai nitida e ancora attuale della situazione: «Il precipitoso declino del rispetto dei diritti umani in Cambogia negli ultimi anni è continuato con un’ondata di arresti e detenzioni motivati politicamente. Le autorità hanno arrestato e spesso perseguito persone per aver espresso opinioni critiche nei confronti del governo, aver preso parte all’attivismo pacifico o al lavoro per i diritti umani, o per essersi associate al partito d’opposizione. Una serie di leggi repressive e modifiche alle leggi esistenti adottate negli ultimi anni hanno fornito alle autorità strumenti legali per arrestare e detenere arbitrariamente individui per l'espressione delle loro opinioni, anche online. Con l'aiuto della sua magistratura politicizzata e corrotta, il governo cambogiano ha intensificato le sue vessazioni contro ex funzionari e attivisti del CNRP. Attivisti della società civile, difensori dei diritti umani, giornalisti e cittadini comuni che esprimono opinioni critiche online e offline sono obiettivi regolari del governo. I processi sono condotti in completo disprezzo degli standard internazionali di un processo equo, con giudici controllati dal governo che decidono le sentenze prima dello svolgimento dei processi». Amnesty International, lo scorso dicembre, è tornata a chiedere la liberazione di Chhim Sithar, leader del Sindacato dei Lavoratori dei dipendenti Khmer di NagaWorld (un grande complesso alberghiero). «È detenuta soltanto per il suo lavoro in difesa dei diritti dei lavoratori, in violazione del diritto internazionale dei diritti umani», scriveva Amnesty. Anche gli Stati Unitisi erano detti molto preoccupati per l’arresto. E nel report 2023, pubblicato pochi giorni fa, Phil Robertson, vice direttore per l’Asia di Human Rights Watch, ha denunciato apertamente le pratiche dittatoriali di Hun Sen: «Le autorità cambogiane hanno utilizzato la legge del 2021 sulle misure per prevenire la diffusione di Covid-19 per interferire e interrompere gli scioperi pacifici. A febbraio 2022, durante lo sciopero del Sindacato dei dipendenti Khmer di NagaWorld (LRSU), poliziotti in uniforme e agenti in borghese hanno costretto gli scioperanti a salire sugli autobus urbani e li hanno trasportati in “centri di quarantena”. La leader sindacale Chhim Sithar è stata tenuta in detenzione preventiva per 74 giorni con accuse inventate. Lo scorso novembre, le autorità hanno arrestato nuovamente Sithar mentre stava tornando da un congresso sindacale in Australia: i funzionari dell’aeroporto le hanno detto che aveva violato le condizioni di cauzione di cui né lei né il suo avvocato erano stati informati». E in conclusione: «Le autorità cambogiane hanno eroso ciò che resta delle libertà democratiche nel paese molestando, minacciando e perseguendo politici e attivisti dell’opposizione, in particolare leader locali e membri del Candlelight Party».
Una protesta a suon di rap
Perfino i cantanti sono finiti nel mirino del regime. È diventato virale, in questi ultimi giorni, l’ultimo video del giovanissimo rapper cambogiano Kea Sokun, che canta in lingua Khmer e che già in passato aveva conosciuto il carcere per “colpa” dei testi delle sue canzoni, assai critiche verso il regime di Hun Sen. L’ultima è intitolata Workers Blood (qui il video, in Cambogia non è più visibile): rievoca il drammatico sciopero dei lavoratori tessili del gennaio 2014 a Phnom Penh, che fu represso con violenza dalla polizia militare, provocando 4 morti e decine di feriti. «Voglio commemorare l’eroismo dei lavoratori che hanno sacrificato le loro vite», canta Sokur. «Hanno combattuto per i loro diritti, per la libertà, per la ricerca della giustizia piena di ostacoli». Secondo il ministero della Cultura, in quel video ci sono “contenuti che possono causare insicurezza e disordine sociale”. I leader delle organizzazioni per i diritti umani che hanno commissionato la canzone, la Cambodian League for the Promotion and Defense of Human Rights (LICADHO) e l’ong Center for Alliance of Labor and Human Rights (CENTRAL), sono stati interrogati dalla polizia che ha intimato loro di rimuovere immediatamente il video dai siti web e dalle loro pagine Facebook, pena l’immediata apertura di un’azione legale nei loro confronti. Am Sam Ath, direttore operativo di LICADHO, che già nel 2016 venne picchiato dagli agenti paramilitari durante una marcia pacifica in difesa dell’ambiente, prova comunque a dire no. E, intervistato da Al Jazeera, denuncia: «Ogni anno pubblichiamo qualcosa sull'anniversario delle proteste e non abbiamo mai avuto problemi. E allora perché oggi considerano “incitamento al disordine” vecchie immagini come sfondo di una canzone che racconta un evento realmente accaduto? L’ordine di rimuovere il video è una violazione del nostro diritto di espressione».
Una difficile transizione
In questo clima la Cambogia si avvia verso le prossime elezioni, che si terranno a luglio e che senza alcun dubbio vedranno prevalere ancora una volta il Partito Popolare Cambogiano, di estrazione marxista-leninista ma che nel tempo, e nel consolidarsi del regime autoritario, ha sempre più abbracciato teorie liberiste. E il primo ministro sarà ancora lui, Hun Sen (così ha deciso il Comitato Centrale del partito), l'ex soldato dei Khmer Rossi fuggito in Vietnam per timore delle purghe di Pol Pot, poi rientrato nel paese dopo la caduta del feroce dittatore cambogiano, nel 1979. E che nel giro di pochi anni riuscì a scalare le gerarchie politiche: primo ministro dal lontano 1985 (aveva 34 anni) e ancora saldamente in sella, nonostante le voci che da anni circolano su un imminente passaggio del potere nelle mani del figlio, Hun Manet, come nelle migliori tradizioni dittatoriali. Scaltro nelle relazioni internazionali, assai vicino al leader cinese Xi Jinping (c’è chi lo accusa di aver consentito a Pechino di installare in Cambogia una base militare segreta), in ottimi rapporti con Putin prima dell’invasione dell’Ucraina (che Hun Sen ha formalmente condannato, ma non vuole apparire nell’elenco dei paesi che sostengono militarmente Kiev), e al tempo stesso attentissimo a preservare floridi corridoi commerciali con l’occidente, e soprattutto con gli Stati Uniti, è riuscito a creare negli anni attorno a sé un cordone militare a difesa del suo potere. Scrive Lorenzo Lamperti, direttore editoriale di China Files: «Hun Sen si è sbarazzato di tutti i nemici, sia esterni sia interni. Nell’ultimo Congresso è riuscito a nominare due nuovi vicepresidenti del Partito: il Ministro della Difesa Tea Banh e il vice Primo Ministro Men Sam An, entrambi suoi stretti alleati. Una mossa utile a rafforzare l'appoggio delle élite militari e ad assestare un duro colpo al Ministro dell’Interno Sar Kheng, l’unico che aveva avuto il coraggio di esprimere perplessità sull'indicazione di Hun Manet come suo successore. Nessuno è in grado di fermarlo se, come pare, vorrà riformare la costituzione per la terza volta in quattro anni. Probabilmente per ridurre i poteri dell’Assemblea Nazionale e aumentare quelli del Primo Ministro».
La sua figura fa discutere anche all’interno dell’Asean. Mercy Barends, membro della Camera dei rappresentanti dell’Indonesia ed esponente dei Parlamentari Asean per i diritti umani, ha recentemente dichiarato: «Mentre si avvicinano le elezioni generali in Cambogia, l’Asean e l’intera comunità internazionale non dovrebbero essere tratte in inganno credendo che possa trattarsi di un processo democratico. Dovrebbero premere maggiormente sul governo cambogiano per il rilascio incondizionato dei prigionieri politici, per la fine della campagna di persecuzione delle opposizioni e affinché agisca secondo quanto stabilito dall’Accodo di pace di Parigi, firmato nel 1991 (che segnò la fine del conflitto tra Cambogia e Vietnam) e pensato per avviare il Paese su un cammino democratico». In sostanza la stessa posizione che sostiene da anni Human Rights Watch. Che già alla fine del 2020 scriveva: «Il governo monopartitico sempre più dittatoriale della Cambogia è sostenuto da generali delle forze di sicurezza responsabili di gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani. Questi generali sono la spina dorsale di un regime politico abusivo e di un governo abusivo guidato dal primo ministro Hun Sen».
L'arrivo di Joe Biden in Cambogia nel novembre del 2022. Foto: Reuters