“La domanda che abbiamo provato a porci, da cui nasce questo libro, è stata: quanto è effettivamente profonda e reale la trasformazione a cui stiamo assistendo? Se è un dato di fatto che un nuovo gruppo di donne leader sta facendo passi da gigante, resta ancora da capire se ciò a cui assistiamo è il prodromo di un vero cambiamento sociale ormai inarrestabile o un mutamento superficiale amplificato dal rumore mediatico”. Partono da qui Emanuela Griglié e Guido Romeo nel volume pubblicato recentemente da Codice Edizioni Per soli uomini. Il maschilismo dei dati, dalla ricerca scientifica al design. Entrambi giornalisti, Griglié si occupa principalmente di innovazione, cultura digitale e scienza su La Stampa e Repubblica Salute, Romeo di economia e digitale su Il Sole 24 Ore. Se queste sono le premesse, i due autori esternano in realtà fin dalle prime pagine l’impressione che il cosiddetto “soffitto di cristallo” sia duro a crollare e che quello in cui viviamo sia piuttosto un mondo disegnato a misura d’uomo. Un mondo “a taglia unica”, lo definiscono, in cui la taglia è quella di un maschio standard, caucasico, tra i 20 e i 30 anni, alto un metro e 77 e di 70 chili. “Il mondo è disegnato per lui – scrivono gli autori –. Moderno uomo vitruviano che ha plasmato le nostre automobili, gli uffici in cui lavoriamo, gli oggetti di uso quotidiano e molto altro, con ricadute sulla struttura socio-economica e culturale, e che non solo non rappresenta le donne, ma neanche la maggior parte degli uomini”.
La dimostrazione – puntuale e accessibile anche al lettore che per la prima volta si accosti a tematiche di questo tipo – sta nei capitoli che seguono l’introduzione, sei tappe che vanno dalla medicina alle nuove tecnologie, dal design alla pianificazione urbana, dalla ricerca all’informazione.
I numeri che vengono riferiti sostengono in modo chiaro le premesse. Facciamo qualche esempio. In ambito medico, la ricerca scientifica per lungo tempo non ha tenuto conto delle differenze fisiologiche tra uomo e donna, farmaci e terapie sono stati pensati principalmente per pazienti di sesso maschile, e le conseguenze sono presto dette: le donne hanno dal 50 al 75% di possibilità in più di sviluppare effetti collaterali ai farmaci o di morire di infarto, in questo caso perché i sintomi – differenti da quelli dell’uomo – non vengono riconosciuti come tali. Che dire del cancro al polmone: dagli anni Cinquanta la mortalità è aumentata del 500% nelle donne che sviluppano la malattia 2,5 volte più dell’uomo. Le ragioni sono ancora sconosciute e potrebbero essere legate a fattori ormonali, genetici e metabolici. Ancora, il primo cuore artificiale presentato nel 2014 dall’azienda Carmat era compatibile con l’86% dei pazienti maschi e solo con il 20% delle donne. Infine, molte malattie tipicamente femminili, come l’iperemesi gravidica, l’endometriosi o la sindrome premestruale, sono poco considerate.
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, anche gli algoritmi e i sistemi di intelligenza artificiale possono essere “maschilisti”, dato che involontariamente – nella fase in cui vengono “istruiti” – possono apprendere pregiudizi umani. Il percorso lungo il quale il libro accompagna il lettore è costellato di informazioni e dati, come annunciato fin dal frontespizio: impressiona, continuando con questa veloce carrellata, leggere che una donna vittima di incidente stradale ha il 47% in più di probabilità di restare gravemente ferita, il 71% in più di subire una lesione moderata e il 17% in più di morire. E una volta ancora – tenendo conto che le donne hanno ossa e scheletro più piccoli – ciò dipende dal modo in cui sono progettate e collaudate le automobili. Dato che il modello è il maschio di corporatura media. “Il design – sottolineano gli autori – è un forte agente di cambiamento perché il modo di progettare gli oggetti di uso quotidiano definisce pure chi li utilizza e come”. Stesse considerazioni valgono per gli uffici, gli equipaggiamenti della polizia, per gli smartphone.
Ancora, nelle città – in cui per inciso solo l’8% delle vie è intitolato a donne, almeno in Italia – il trasporto urbano, spiegano gli autori, è progettato per chi deve recarsi a lavoro o a scuola e non deve fare tappe intermedie. Ma le donne (che si fanno carico del 75% del lavoro di care-giving) si muovono anche per portare gli anziani alle visite mediche o i figli a scuola, dato che solo un bambino su quattro è accompagnato dal padre, e i loro tragitti non sono mai lineari: da casa a scuola, da scuola a lavoro, da lavoro al supermercato, dal supermercato alla casa di un congiunto, e solo poi di nuovo a casa. E spesso queste tappe intermedie sono poco servite dai mezzi di trasporto. “Se nel progettare la rete dei trasporti nessuno ha pensato alle differenze di genere nella mobilità, è anche perché oggi in questo settore lavorano ancora troppo poche donne (in Europa appena il 22%)”.
Nell’ambito della ricerca scientifica la situazione non è migliore. Secondo un’indagine condotta da Luke Holman, Cindy E. Hauser e Devi Stuart-Fox, che Griglié e Romeo riprendono nel volume, saranno necessari 280 anni per raggiungere la parità di genere nella computer science, 258 nella fisica, almeno 60 nella matematica, 320 nell’infermieristica. Nei paper scientifici, le donne risultano essere sottorappresentate tra gli autori che firmano per ultimi (la posizione più prestigiosa riservata solitamente a chi coordina la ricerca). Le autrici sono spesso ricercatrici ad inizio carriera, postdoc, e il loro numero si assottiglia nelle posizioni più elevate. Se ci si guarda alle spalle, poi, si vedrà che per lungo tempo le donne sono state estromesse dalle accademie e a fatica hanno visto riconosciuti i loro meriti scientifici. Si pensi, tra le altre, alla fisica Lise Meitner che nel 1944 non ottenne il premio Nobel attribuito a Otto Hahn nonostante il fondamentale contributo alla scoperta della fissione nucleare. Ma Rosalind Franklin potrebbe essere un altro esempio.
Quelle citate sono solo alcune delle molte “storie” che il volume di Emanuela Griglié e Guido Romeo racconta. Storie a cui i dati danno una fisionomia e una dimensione ben precisa. Storie, perché dietro ai dati ci sono persone, uomini e donne che hanno accesso ai sistemi assistenziali, educativi, socio-culturali in modo differente e a condizioni diverse. La narrazione è approfondita da continui rimandi alle fonti, precisi, puntuali, numerosi, e da riferimenti storici e normativi.
Nel corso di questo “viaggio esplorativo nel maschilismo dei dati”, come lo definiscono gli autori stessi, – che, va detto, non offre un quadro roseo della situazione – vengono tuttavia citati anche esempi virtuosi e i nomi di chi ha saputo andare controcorrente.
Così nel volume si legge della cardiologa Bernardine Healy, prima donna direttrice dei National Institues of Health statunitensi, che in un editoriale pubblicato nel 1991 sul New England Journal of Medicine non risparmia decise critiche: osserva che le donne erano meno ospedalizzate, meno frequentemente sottoposte a indagini diagnostiche, a interventi e terapie rispetto agli uomini, e meno rappresentate nella ricerca scientifica. Conia il termine “sindrome di Yentl”. E l’articolo diventa la pietra miliare della medicina di genere. Si narra di Ellen Pao che insieme ad alcune colleghe fonda Project Include, un’organizzazione non profit che ha l’obiettivo di promuovere nell’industria tecnologica la diversity di genere e atteggiamenti inclusivi. Gli autori citano poi Wendy Davis, ex direttrice del Womens’ Design Service, cooperativa sorta nel 1984 a Londra per rendere città e contesti urbani più a “misura di donna”. Raccontano di Ada Colau, sindaca di Barcellona che ha diviso la città in super isolati, dove le strade sono state sostituite da piste ciclabili, parchi giochi, spazi verdi e tavoli da pic-nic. E, ancora, scrivono di Katherine Maher, direttrice esecutiva di Wikimedia Foundation che sta cercando di superare il gap tra il numero (maggiore) di voci dedicate agli uomini sulla piattaforma e quello dedicato alle donne.
Per soli uomini è un libro che dovrebbe essere consigliato (anche) nelle scuole. Di agevole lettura grazie all’impiego di un linguaggio privo di tecnicismi, offre spunti di riflessione, riferimenti bibliografici, stimola l’approfondimento. Crea consapevolezza, partendo dalla solidità dei dati. E anche in questo modo tiene lontane facili generalizzazioni. Non è un punto di arrivo ma un punto di partenza, e potrebbe esserlo soprattutto per le giovani generazioni.