Sciopero degli operai Pirelli fuori dalla fabbrica, (Milano 1969). Foto: Wikimedia Commons
Era internazionale il sentimento di disgusto per la guerra e l'angoscia verso gli sfrenati moti di conquista dei principali stati europei. La diffusione di questo stato d'animo era dovuta all'aria di ribellione ed emancipazione che si respirava a partire dagli Stati Uniti, dove i movimenti sessantottini erano al massimo della loro potenza. Lo scenario mondiale era pervaso dalle tensioni tra gli oppressi e gli oppressori. Lo testimoniavano la guerra del Vietnam, che era stata trasformata nel simbolo dell'imperialismo e della mania di controllo del più grande sul più arretrato, le gesta di Che Guevara e la rivoluzione di Mao-Tse-Tung, ovvero colui che avrebbe unificato e liberato la Cina dal controllo straniero.
Erano questi gli avvenimenti mondiali che influenzavano il pensiero e la coscienza di chi viveva in quel periodo, coinvolgendo praticamente tutte le classi sociali. Era un messaggio destinato a permeare tutti gli strati sociali in molte delle nazioni europee, seppur in modo diverso.
In Italia lo scenario era complicato dalla presenza di movimenti di “operaismo italiano”, gruppi di lavoratori stanchi e indignati per le loro condizioni, che si attivavano per rivendicare i diritti della classe operaia, spesso ispirati dal lavoro dei Quaderni rossi, un gruppo interno al Partito comunista italiano, impegnato nella rilettura e nella promozione delle teorie di Marx, a partire dal Capitale.
Questo genere di riflessioni si traduce nella formazione di nuove ideologie, teorie politiche ed espressioni culturali contraddistinte da specifiche velleità militanti, come la fondazione di riviste, e l'incremento del cinema e della letteratura di denuncia.
La protesta contro il capitalismo e il consumismo come espressioni dello sfruttamento e dell'alienazione del lavoratore portava con sé la richiesta di diritti e del riconoscimento di una dignità umana e sociale per chi era parte integrante di un sistema produttivo che aveva trasformato l'uomo in un oggetto e in uno strumento. Il recente sviluppo economico, infatti, aveva fatto sì che la ricchezza si fosse concentrata nelle mani di pochi, grandi proprietari, e che a farne le spese fossero gli operai di basso livello, coinvolti in cicli di lavoro stremanti e meccanici.
I movimenti di protesta delle classi operaie erano molto legati con le rivolte dei giovani nel '68. I cosiddetti sessantottini erano quegli studenti universitari appartenenti alle classi sociali più deboli che da una parte avevano finalmente la possibilità di avere un'istruzione e una cultura migliore rispetto a quella dei propri genitori, ma che dall'altra, non provenendo da una famiglia di alto rango, si rendevano conto che l'istruzione che ricevevano aveva come scopo quello di assorbirli nel processo produttivo.
Prime manifestazioni studentesche a Roma nel 1968. Foto: Wikimedia Commons
Si trattava, insomma, di studenti e giovani operai, politicamente schierati e culturalmente impegnati in attività di diffusione e promozione del marxismo, adattato alla situazione che vivevano. Fu la nuova generazione del proletariato la protagonista dell'autunno caldo. Erano giovani che non avevano vissuto il dramma del fascismo e della guerra, ma che si trovavano a fare i conti con un mondo che non gli piaceva e che volevano adattare ai loro ideali.
L'associazione tra questi studenti, che occupavano le università e si identificavano già come parte del mondo produttivo, e gli operai che facevano già parte di questo sistema era testimoniata anche dal fatto che questi giovani universitari andassero a protestare anche davanti alle fabbriche, assieme ai lavoratori.
Le lotte operaie erano iniziate già a metà degli anni '60. I lavoratori scioperavano chiedendo un aumento di stipendio e salari più equi. L'operaio medio, simbolo e protagonista delle proteste, era quello sfruttato e umiliato, che svolgeva mansioni alienanti se non addirittura de-umanizzanti ed era asservito al datore di lavoro. Gli scioperi, studiati e ben organizzati, avevano lo scopo di rallentare se non impedire la produzione, e funzionavano in modo tale che scioperassero, in giorni diversi, i vari gruppi di operai appartenenti ognuno a una delle tappe del ciclo produttivo, senza i quali l'intero processo non poteva continuare. Gli operai manifestavano anche con i cortei interni, durante i quali sfilavano per protestare lungo i corridoi e gli spazi interni alla fabbrica, in modo tale da coinvolgere più colleghi possibile. I sindacati, a un certo punto, non furono più in grado di controllare gli scioperi. Nell'autunno caldo del 1969 erano i lavoratori stessi a organizzarsi e a protestare, incuranti dei divieti sindacali. Il sindacato non era il nemico, ma una presenza che veniva semplicemente scavalcata per combattere contro il potere del padronato.
I lavoratori più coinvolti nelle manifestazioni, quelli più sfruttati, erano quelli che appartenevano ai settori produttivi maggiormente in crescita in quel periodo, ovvero il metallurgico, il siderurgico e il metalmeccanico. In particolare, Torino diventa un luogo di scioperi quasi quotidiani dal settembre del 1969, a causa dei moti degli operai della Fiat. Ma non era solo Mirafiori ad essere il palco di simili proteste. In tutte le aree industrializzate del nord e del centro Italia, da Genova, a Milano, a Terni, dalla Lombardia, al Friuli-Venezia Giulia alla Toscana, cinquant'anni fa l'autunno era davvero “caldo”, per il clima acceso dalle continue proteste e richieste dei lavoratori, stanchi di sentirsi semplici ingranaggi di un processo produttivo che li sottopagava e li privava dei loro diritti.
Quando finì l'autunno caldo? In cosa vennero soddisfatte le richieste degli operai di ottenere un nuovo equilibrio nelle relazioni industriali, di vedere i loro orari di lavoro limati e gli stipendi aumentati? E cosa fu, invece, che non ottennero? Nel dicembre 1969 vennero firmati i principali accordi, specialmente per i metalmeccanici, che concedevano agli operai aumenti di stipendio e il diritto di riunirsi in assemblea.
Come riporta il libro di Sergio Bologna: Il “lungo autunno” Le lotte operaie degli anni settanta dopo l'autunno caldo, tra il 1970 e il 1972, vennero costituiti i consigli di fabbrica e si formò così un nuovo strato sociale: quello dei delegati di reparto, che avevano il compito di rappresentare gli interessi dei lavoratori e fare così da intermediari per facilitare il dialogo tra padroni e dipendenti. Il potere dei capi venne quindi limitato, almeno in parte. Quelle che non cambiarono, almeno per il momento, furono le condizioni dell'ambiente di lavoro, spesso malsano e nocivo alla salute, e la quantità di ore pretese dai capi, tant'è vero che nel 1973 gli scioperi ricominciarono.