SOCIETÀ

Combattere la mafia a trent'anni da Capaci

Sono passati trent'anni dalla Strage di Capaci, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.
Tutta l'Italia era rimasta attaccata al televisore, nella speranza che Falcone si riprendesse, perché era stato portato all'ospedale ancora in vita, ma purtroppo le cose andarono diversamente e lui morì tra le braccia del collega Paolo Borsellino.
Da quel 1992 Falcone e Borsellino, che morì 57 giorni dopo nella strage di via D'Amelio il 19 luglio dello stesso anno,  sono diventati quasi due eroi nazionali, perché, pur conoscendo i rischi a cui andavano incontro, avevano messo in gioco la loro vita per un'ideale superiore, quello della lotta alla mafia condotta con rigore e senza compromessi.

Si sente spesso dire che l'Italia non sa ricordare i suoi eroi, quelli che hanno cercato di insegnarci a stare dalla parte giusta, ma nel caso di Falcone e Borsellino siamo di fronte a una felice eccezione.
Molti sono gli eventi commemorativi previsti per il trentennale: uno di questi è la replica dello spettacolo teatrale C'era una volta un giudice… anzi, no, due di e con Simone Toffanin e con Andrea de Manincor e le musiche eseguite dal vivo da Lorenzo Garofalo, che andrà in scena stasera alle 21, alla Sala Teatro Falcone e Borsellino di Limena.

Abbiamo incontrato Toffanin per parlare di mafia, o per meglio dire di mafie, di Capaci e di due personaggi come Falcone e Borsellino che hanno ancora molto da dirci, anche 30 anni dopo la loro scomparsa.

Servizio di Anna Cortelazzo e montaggio di Barbara Paknazar

Toffanin ci racconta ciò che ha significato la strage di Capaci nella sua realizzazione pratica. Dei 500 chili di tritolo trasportati sulla Fiat 500, del tunnel sotto l'autostrada, del frigorifero lasciato come punto di riferimento per stabilire quando far partire l'impulso per la detonazione tramite un semplice telecomando. Il tutto senza che nessuno si accorgesse di nulla. Poi torniamo anche alla prima volta in cui Giovanni Falcone ha visto le montagne, proprio qui nel Veneto: una cosa di importanza secondaria, forse, ma che ci fa sentire più vicini a quell'uomo un po' burbero che ha calpestato la nostra terra quando era ancora un ragazzino, quando Capaci era un rettilineo autostradale come tanti altri.
E poi passiamo a un discorso più scomodo.

Ricordare Falcone e Borsellino a trent'anni dalla loro morte è sicuramente importante, ma cosa facciamo tutti gli altri giorni dell'anno?
Purtroppo della mafia ci accorgiamo solo quando fa rumore. Le stragi, le bombe... E invece in realtà "mafia" è chiunque si creda al di sopra della legge, chi commette dei reati sapendo di avere le conoscenze giuste per rimanere impunito. "Mafia" è chi si mette nella posizione di essere favorito per un motivo diverso dai propri meriti, "mafia" è anche solo copiare a un esame, come dice Gherardo Colombo.
"Le mafie - precisa Toffanin - sono tante, ma esiste un unico modo di ragionare mafioso. So che quello che dico potrebbe risultare impopolare, ma si tratta di farsi un esame di coscienza e chiedersi se quello che abbiamo ottenuto nella vita, a livello lavorativo o di beni materiali, ce lo siamo veramente guadagnato. Lo faceva Paolo Borsellino, che il 27 del mese, quando riceveva lo stipendio, si chiedeva se aveva davvero meritato tutti quei soldi che erano dello Stato, e quindi della gente. È questa domanda che diventa la base per sradicare la mentalità mafiosa".

Se quello che abbiamo ottenuto non è meritato, vuol dire che da qualche parte c'è qualcuno che più di noi aveva il diritto di ottenere quel risultato, ed è su questa disuguaglianza che la mafia mette le sue radici. Naturalmente nessuno nega che per combattere il sistema mafioso ci vogliano anche leggi e istituzioni che facciano dell'onestà un punto d'onore, che non tirino fuori questo concetto solo in campagna elettorale per poi rinnegarlo appena eletti. Ma se è vero che "il pesce puzza dalla testa", anche la coda (che siamo noi) non sa di acqua di rose.
E a quel punto viene da chiedersi se non sarebbe meglio smettere di elevare Falcone e Borsellino come degli eroi da venerare, due eroi perfetti, ma distanti anni luce da noi. L'aura mitica che hanno assunto nella nostra mente potrebbe portarci a un atteggiamento rinunciatario: non tutti avrebbero la forza di mettere a rischio la propria vita come hanno fatto loro, del resto non tutti possono essere degli eroi.
Questa percezione però fa dimenticare una cosa: Falcone e Borsellino non sono solo morti per perseguire un ideale, ma hanno anche vissuto ogni giorno della loro vita tenendo la loro bussola interiore ben puntata su ciò in cui credevano.

A volte si pensa che per "fare cose illegali" si intenda rubare 100.000 euro dalle casse dello Stato con la connivenza di chi conta. Un'azione di questo tipo è certamente illegale, e anche, se vogliamo, plateale. Però ci sono altre situazioni che magari fanno meno rumore, ma che sono molto più frequenti. C'è il piccolo leader che ti fa terra bruciata attorno solo perché gli hai fatto un minimo sgarbo, c'è chi dà la colpa delle sue azioni ai deboli che non si possono difendere, c'è chi allontana un giornalista da una sala stampa perché ha avuto l'ardire di scrivere come stanno le cose, c'è chi fa pressioni per far entrare il figlio in una scuola migliore.

È una questione di scelte e responsabilità: L'Italia non potrà risollevarsi finché prevale l'autoassoluzione: come diceva, per sommi capi, John Grisham, puoi superare una linea una volta, e quando vedi che non succede nulla, che nessuno si fa troppo male e nessuno ti rimprovera, la superi di nuovo. Continui a superarla senza pensarci, finché quella linea sparisce per sempre.
E ci sarà sempre qualcuno che ti darà ragione, che dirà che hai fatto bene, che si tratta di autodifesa, che lo avrebbe fatto chiunque. Alcune delle persone che oggi sui social non risparmieranno bellissime parole per ricordare Giovanni Falcone, domani non faranno uno scontrino, o evaderanno le tasse, per poi magari lamentarsi di dover aspettare troppo tempo quando vanno al pronto soccorso. Queste persone si comporteranno così alla leggera, senza pensare di danneggiare qualcuno, perché lo fanno tutti, perché in Italia chi evade le tasse è spesso considerato un dritto, o, se proprio butta male, un "furbetto", come il bambino che approfitta dell'assenza della madre per prendersi una dose extra di crema al cioccolato.

E invece dovremmo arrabbiarci tutti quanti e puntare i piedi, perché quella persona che si vanta sorniona di non dichiarare al fisco più del 50% dei suoi introiti sta mettendo le mani nelle nostre tasche rubandoci i soldi che ci siamo guadagnati. Quella persona si vanta di fregare lo Stato, e se gli battiamo il cinque è perché ci stiamo dimenticando che lo Stato siamo tutti noi.

Probabilmente, se ci potesse parlare, Giovanni Falcone ci farebbe sapere che rinuncerebbe volentieri alle commemorazioni presenti e future, se potesse scambiarla con dei sinceri e profondi esami di coscienza da parte di quelle stesse persone che mostrano di ammirarlo così tanto.
Perché è importante ricordare che, al di là degli individui che rimangono nella nostra memoria perché vediamo le loro auto esplodere, ce ne sono tanti altri che, ogni giorno, nel silenzio, scelgono di non superare quella linea di cui parlavamo prima. Non è necessario essere dei magistrati per lottare contro un sistema malato, il 23 maggio ma anche tutti gli altri giorni dell'anno.

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