SOCIETÀ

Connettersi ad alta quota: non sempre si può

«Il punto centrale è la possibilità di lavorare in remoto, cosa che è resa possibile da internet, che mette a disposizione piattaforme gratuite … che permettono di collaborare con colleghi che fisicamente si trovano da altre parti d’Italia o del mondo. Abbiamo Skype per parlarci anche faccia a faccia gratuitamente ovunque nel mondo e fare interviste agli esperti (e fare anche degli aperitivi spritz alla mano con amici dall’altra parte del globo!), Google Drive e Dropbox per condividere documenti e lavorarci a 4 o più mani come se ci trovassimo sullo stesso tavolo. E soprattutto abbiamo la rete, che ci permette anche da casa nostra di accedere a documenti, informazioni, database, come se mi trovassi in un ufficio cittadino qualsiasi.»

Non è un testo scritto in epoca Covid. Era il 2017, e Cristina Da Rold, collega giornalista, scriveva queste parole all’interno di un lungo articolo ricco di riflessioni pubblicato su Le Dolomiti bellunesi per spiegare la sua scelta di fare base a Belluno pur facendo un mestiere che, nella percezione di molti, richiederebbe invece di vivere in città più grandi e al centro della vita politica e culturale. La scelta di Da Rold di non abbandonare i propri territori, orgogliosamente definita appunto come scelta ponderata in linea con un proprio pensiero sulla qualità e sulla modalità di vita desiderata, non è certo isolata. 

In anni recenti sono sempre più frequenti i movimenti di persone giovani, e anche meno giovani, che scelgono di vivere in città più piccole, in zone rurali o di montagna, perché grazie alla rete riescono a combinare il bisogno e la necessità della connessione che rende possibile la combinazione di fare il proprio lavorare e al contempo vivere in modo meno stressato, meno costoso, meno ossessionato dal dover fare i salti mortali per combinare impegni professionali e personali. 

Una scelta, quella verso borghi e comunità montane, che può contribuire anche a migliorare, più in generale, la qualità della vita di tutta la società italiana. Vivere nei piccoli centri significa mediamente condurre una vita più sana e con un minore impatto negativo per l’ambiente, contribuendo all’obiettivo complessivo di abbattimento delle emissioni e dell’inquinamento urbano. Significa maggiore controllo e monitoraggio del territorio, del suo stato di salute, di eventuali fragilità di cui è importante avere cognizione.

Il rischio ambientale strettamente collegato al progressivo venir meno del presidio rappresentato dalla conduzione dei suoli agro forestali da parte delle aziende agricole, rappresenta il più profondo elemento di penalizzazione per il popolamento montano Rapporto Montagne Italia, 2016

Significa riportare in campo o in coltura varietà di piante e di alberi tipici di ogni zona, recuperando un po’ di agrobiodiversità e aprendo nuove filiere. Significa pensare a un turismo meno massificato e più distribuito, recuperare pezzi di storia e tante storie, vecchi cammini e nuove forme di ospitalità. 

Ci sono quelli come Da Rold che riescono a combinare il proprio lavoro con l’avere la montagna a un passo. E quelli che hanno proprio cambiato vita lasciando una grande città e inventandosi una nuova esistenza, come i due trentenni romani Tommaso D’Errico e Alessia Battistoni che dalla capitale sono andati a vivere sull’Appennino tosco-emiliano, imparando a coltivare ma trovando anche una nuova chiave per valorizzare le proprie conoscenze e competenze pregresse. Sulla propria scelta e avventura D’Errico e Battistoni hanno avviato un vero progetto narrativo, scrivendo e autopubblicando un libro -- Al ritmo delle stagioni. Un anno di vita in montagna -- che a tre anni dall’uscita ha già fatto sei ristampe, vendendo oltre 10mila copie e aprendo a nuove avventure editoriali per i due autori. La loro storia e quotidianità è raccontata anche sulla pagina Facebook Al ritmo delle stagioni che ha oltre 25mila followers, su un sito e con molti video, come quello qui sotto, che mostrano la varietà e l’intensità della loro nuova vita.

Non siamo asceti né eremiti, non siamo misantropi né asociali - tutt’altro! - e non abbiamo rinunciato alla tecnologia e alla modernità per rincorrere un’utopia primitivista.

«Non abbiamo abbandonato le nostre rispettive professioni, costruite negli anni con impegno e dedizione, e ricominciato da zero la sfida quotidiana per procurarci un reddito: le abbiamo messe in valigia e ce le siamo portate con noi. Non viviamo di rendita.» Dicono D'Errico e Battistoni nell'introduzione al libro e sui loro profili social. «Siamo semplicemente due trentenni che, stanchi come tanti nostri coetanei di subire le sevizie di un’esistenza disumana, violentata da regole e ritmi che riteniamo senza senso (...) hanno deciso di prendere in mano le proprie vite per ricondurle su binari più vicini a bisogni reali e aspirazioni personali.»

Stiamo parlando ancora di piccoli numeri, intendiamoci. Tanto che il Rapporto Montagne Italia di EURES e Fondazione Montagna Italia pubblicato nel 2016 sostiene che le terre di montagna italiane soffrono di una base della piramide demografica in forte riduzione. Sempre lì, leggiamo che una indagine campionaria fatta su 600 aziende dei comuni totalmente montani (coinvolti 300 Comuni di tutte le regioni)mostra che l’età media degli imprenditori montanari è vicina ai 51 anni con due code: poco meno del 10% hanno oltre i 64 anni e una percentuale appena superiore, l’11%, sono under 40. Appena poco più di uno su dieci, insomma.

Un dato che ritroviamo anche in uno studio pubblicato dal polo Universitario di Eccellenza “Università della Montagna” dell’Università di Milano, con sede a Edolo, in provincia di Brescia, che monitora attivamente le imprese della regione. Anche in questo caso, circa il 10% delle aziende con sede nei comuni montanari è gestito da giovani. Ma c’è un’altra informazione interessante: sei aziende su dieci in questo studio sono di giovani imprenditori che hanno avviato un'impresa da zero, senza ereditare la gestione di quella di famiglia. 

Ed è proprio in questo senso, nell’incentivare nuove imprese giovanili, che vanno iniziative come InnovAree, in Piemonte che punta a coinvolgere professionisti e giovani imprenditori nell’ideare e sviluppare nuove imprese e attività economiche in montagna. In Emilia-Romagna, oltre al piano Montagna c’è uno specifico Bando montagna per i nati dopo il 1980 per accedere a contributi per l’acquisto o la ristrutturazione di una casa. Iniziative simili e diverse, perché dipendono spesso da fondi regionali, sono presenti in molte regioni italiane.

Imprese e attività professionali rese possibili grazie alla combinazione di un’ambiente vivibile con una altissima qualità della vita con la possibilità di accedere a reti di contatti, persone, lavori e servizi in modalità smaterializzata. Nel bellissimo long form narrativo e fotografico «Vivere e lavorare in montagna grazie a Internet» pubblicato dal magazine svizzero SwissInfo a firma di Sibilla Bondolfi, Carlo Pisani e Daniele Rhis, si naviga attraverso le scelte di quattro coppie o famiglie che hanno scelto una valle o un piccolo paese delle Alpi svizzere per vivere, spesso dopo essere stati per anni in diverse metropoli e paesi.

«Mi porto il mondo intero in montagna» dichiara nel reportage Simone Ott, esperta di marketing che dopo aver vissuto a New York e in California per vent’anni ha sistemato il suo studio in uno chalet svizzero con vista mozzafiato sul lago. Ma è proprio un altro di questi innovatori digitali e neo montanari, Jan Sedlaek, che ha portato tutta la famiglia in Engadina e ha avviato una impresa di raccolta e analisi dei dati, a mettere il dito nella piaga: manca la fibra ottica! Se la connessione fosse più veloce e affidabile, sarebbe assai più facile lavorare da lì.

L’ingrediente essenziale? Una connessione che tenga

E qui sta il punto. La scelta è perfettamente sensata quando l’ingrediente necessario (non sufficiente, attenzione, ma senz’altro necessario) che tutti questi nuovi abitanti della montagna indicano come quello che permette la scelta in questione è a disposizione: una connessione in rete, affidabile, veloce e sicura. Una disponibilità che, come abbiamo già visto in due puntate precedenti della nostra esplorazione dell’avanzamento digitale in Italia, non è affatto da dare per scontata.

A chi argomenta che la scelta di vivere in montagna dovrebbe prescindere dalla disponibilità di stare in rete perché dovrebbe muovere da una visione di equilibrio con l’ambiente e con i propri ritmi che sembra in piena contraddizione con lo stare sempre connessi, si può rispondere facilmente. Se non desideriamo che le montagne rimangano luoghi dove vive solo chi sceglie di isolarsi dal resto del mondo, è necessario che si possa lavorare in modalità smart o remota che dir si voglia, in modo sicuro. 

Ma non è tutto qui: è necessario poter garantire ai cittadini delle zone di montagna lo stesso accesso dei loro coetanei che vivono in pianura per quanto riguarda tutti quei servizi essenziali che sempre più (inesorabilmente anche se ancora molto lentamente in Italia) sono in via di digitalizzazione, dall’home banking alla cartella sanitaria digitale, prenotazione di visite e di biglietti, accesso a referti, acquisto di un biglietto di treni e aerei per un viaggio, quando potremo riprendere a farli. Fino a tutti i rapporti con la Pubblica Amministrazione, dalle pratiche anagrafiche a quelle fiscali e via dicendo. 

E poi, ma forse prima di tutto questo, ci sono bambini e ragazzi, che vanno a scuola. E che dovrebbero poter godere di un diritto fondamentale come l’istruzione in tutte le sue forme, inclusa la dimensione digitale. E se è vero che la povertà educativa è una problematica che va ben al di là del semplice accesso in rete, senza la rete milioni di studenti rimangono esclusi da qualsiasi forma di didattica digitale -- su questo OpenPolis ha da poco pubblicato un nutrito rapporto che include anche le disuguaglianze digitali. Nel pieno della pandemia, e per chissà quanti mesi a venire ancora, o in situazioni analoghe di crisi e difficoltà, essere connessi fa un’enorme differenza, è inutile nascondercelo.

E dunque, rieccoci al punto di partenza. 

Ci sono oggi 11 milioni di italiani che vivono in zone di montagna, quasi il 18% della popolazione nazionale, quasi un quinto del totale. Sono una minoranza, ma non uno sparuto gruppetto. E molti di questi hanno un accesso alla rete poco garantito, spesso ballerino, di scarsa qualità quando non del tutto assente. Incluso, come vedremo, quello via smartphone. E a darci conto della dimensione quantitativa ma anche dei significati di questa disuguaglianza è il rapporto La montagna in rete, pubblicato nelle scorse settimane da UNCEM, l’Unione nazionale comuni comunità e enti montani, che da decenni è il principale referente istituzionale per le aree di montagna.

Gli hanno fatto la via per andare via

«Quando Uncem è nata, nel 1952, i divari erano quelli delle strade mancanti.» Scrive Marco Bussone, presidente UNCEM. «I divari hanno solcato le valli fino a renderle margine, tagliandole fuori. Non si facevano le strade perché erano troppo pochi lassù, non si portava la corrente elettrica, il metano.» E oggi la disuguaglianza passa sempre per la scarsità di infrastrutture, anche se sono altre rispetto ad allora.  «Quello che prima erano strade ed energia elettrica,» scrive ancora Bussone «oggi sono le dorsali e gli anelli di fibra ottica, i ripetitori di segnale. Sui quali muovere dati e idee. Non è scontato che i primi veicolino i secondi, ma di fatto è l’obiettivo.»

Sono le reti e la rete, la connessione Internet e la copertura mobile i fattori che oggi condizionano lo sviluppo locale e le scelte di milioni di persone. 

I dati, dunque.

Come abbiamo raccontato in due puntate precedenti --  Broadband e ultraband: un’Europa sempre più connessa e L’Italia in rete: connettività e digitalizzazione nel nostro paese -- la Strategia italiana per la banda ultralarga, approvata nel 2015 in linea con l’Agenda digitale europea e con l’accordo di partenariato tra Commissione Europea e Stato italiano sulla programmazione dei fondi europei 2014-2020, aveva stabilito come obiettivo quello di portare, entro il 2020, l’85% della popolazione a una copertura di rete a banda ultra larga di almeno 1000 Mbps, e di garantire al restante 15% una velocità di connessione di almeno 30 Mbps. Come tutti sappiamo, questi obiettivi sono ben lontani dall’essere raggiunti anche se negli ultimi due anni c’è stata una accelerazione sul piano della messa a punto delle infrastrutture necessarie. Per le aree di montagna la situazione è ancora più complicata e preoccupante.

Ma intanto, cosa vuol dire “zona di montagna?”

Qui incappiamo in una vicenda tutta italiana. Perché la stessa definizione di comune montano, nel nostro paese, è cosa tutt’altro che immediata. Intanto, ci sono comuni totalmente montani e comuni parzialmente montani. Il che, a buon senso, è comprensibile. Ma il problema è la definizione precisa, l’inserimento in liste e registri specifici. Perché, naturalmente a tale classificazione corrispondono poi marcate differenze sul piano fiscale ed economico (differenziazione dei regimi di esenzione, incentivi, piani di sviluppo e via dicendo). Da più parti leggiamo la richiesta di sistematizzare in un quadro di riferimento normativo più attuale e comprensibile quanto stabilito, e ancora in parte valido, dalla legge che per prima ha dato via alla definizione di comune montano (la 991/1952) poi riassorbita parzialmente nella legge 142/1990.

C’è un criterio chiaro dal punto di vista geomorfologico (l’80% della superficie al di sopra dei 600 metri o un dislivello maggiore di 600 metri) cui però si sommano altri criteri di tipo fiscale e reddituale (reddito imponibile medio per ettaro; precedenti classificazioni catastali e perfino l’inserimento in liste di territori facenti parte dei vecchi comprensori di bonifica o danneggiati per eventi bellici). Per chiarezza, ISTAT e qualunque altro ente fanno riferimento proprio alla classificazione fornita da UNCEM, e dunque quelli sono i dati cui ci riferiamo anche in questa analisi.

L’elenco preciso e il numero dei comuni montani per regione si trova anche sul rapporto “I comuni italiani - numeri in tasca 2020” della Fondazione IFEL (Istituto per la Finanza e l’Economia Locale) istituita dall’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI). Il numero di comuni per regione è riportato nel grafico qui sotto.

Il rapporto Montagna-Italia di Eures-Fondazione Montagna Italia del 2016 ci dice che il 58,2 % del territorio nazionale è classificato come montano, con una popolazione di 14.310.751, abitanti in oltre 4200 comuni, quindi più o meno un quarto della popolazione italiana. Sono però 3421 i comuni totalmente montani con una popolazione di circa 8,8 milioni di persone e una superficie pari a quasi 147mila kmq, circa la metà del territorio nazionale. Ovviamente, come vediamo dal grafico qui sotto, la distribuzione varia molto da regione a regione.

Tornando ai dati sulla connettività, come abbiamo già visto, sono poco più di 11 milioni di italiani in totale (montani e non), quindi quasi un quinto della popolazione, che vivono in territori dove meno del 40% delle unità immobiliari naviga ad almeno 30 Mbps. Insomma, un quinto della popolazione italiana vive in un luogo dove quasi la metà delle case o uffici non ha una rete ultra veloce. Ma sono proprio i comuni totalmente montani quelli che soffrono di più, come vediamo dal grafico qui sotto.

Questo dato, un po’ nebuloso a prima vista, diventa più comprensibile se guardiamo alle percentuali: quella dei comuni totalmente montani, della popolazione e della superficie che hanno meno del 40% di immobili con una rete che naviga ad almeno 30 Mbps. In alcune regioni, come quelle dell’arco alpino, queste percentuali sono davvero molto alte. Possiamo riassumere così: tre comuni montani su quattro  e metà della popolazione di montagna hanno meno del 40% delle case o edifici raggiunti dalla rete ad almeno 30 Mbps.

Se poi proviamo a vedere i dati per la rete a 100 Mbps, la situazione è decisamente drammatica e non richiede alcun commento. Anche in questo caso, come prima, guardiamo alle percentuali di comuni, popolazione o superficie dove almeno il 20% degli immobili è servito da una rete a 100 Mbps. Nella stragrande maggioranza dei casi, questa soglia non si raggiunge nemmeno lontanamente.

Usate lo smartphone, no?

In molti pensiamo che laddove non c’è una buona connessione a rete fissa, si possa rimediare collegandosi via mobile. Ormai i pacchetti dati sono molto vantaggiosi e spesso la connessione a 3G o 4G è più veloce di quella a linea fissa. Posto che pure questa è una soluzione di compromesso, visto che molto di quello che facciamo, sia in campo professionale che didattico, richiede di utilizzare schermi e strumenti più adeguati di uno smartphone, il problema è che in molte zone di montagna anche il cellulare prende poco e male.

Il rapporto UNCEM presenta i dati raccolti da segnalazioni fatte spontaneamente da molti cittadini e da rappresentanti delle istituzioni locali nel corso dell’estate 2019. Si tratta di oltre 1450 mail con segnalazioni di zone fuori copertura o con bassa copertura telefonica. Questi dati sono stati usati per mappare 1220 località dove letteralmente “telefonare, mandare un messaggio, navigare in internet con il proprio smartphone è impossibile o quasi”. Le segnalazioni di mancanza di copertura o di cattiva copertura arrivano da 669 comuni, di cui 510 sono comuni montani, quasi il 15% del totale, dove abitano più di 1 milione e 300mila persone. La regione con maggiori problemi di connessione mobile è il Piemonte. 

A complemento dei dati UNCEM, per quanto riguarda la telefonia mobile, vale la pena consultare anche la mappatura e i rapporti fatti da Altroconsumo grazie alla app CheBanda che consente ai cittadini di testare le performance degli operatori telefonici in diverse località e condividere i dati con l’associazione. La app, rilasciata nel 2016, è stata utilizzata a oggi da decine di migliaia di cittadini. Solo nell’ultimo anno, da maggio 2019 ad aprile 2020 e quindi includendo buona parte del lockdown per Covid, sono stati 24.000 gli utenti che hanno effettuato circa 5 diverse misurazioni a testa, per un totale di 117.000 test. La app permette di misurare la velocità sia in download che in upload ma anche di effettuare un test più completo che misura la qualità della visione dei video in streaming e la navigazione su un pool di siti internet. Altroconsumo pubblica poi la classifica degli operatori mobili e le loro performance. 

Infine, UNCEM sottolinea che in montagna ci sono problemi perfino per l’accesso ai programmi TV, da quando la televisione è migrata sul digitale terrestre. In un mini sondaggio focalizzato solo sulla Regione Piemonte, cui hanno risposto 375 persone, si rileva che il 60% di queste non vede più né RAI né Mediaset né altre TV su digitale terrestre. Circa la metà dei rispondenti guarda la TV via satellite. Non è facile estrapolare un dato più generale, ma certo l’accesso alla programmazione televisiva, tanto più con un canone obbligatorio, dovrebbe essere garantito davvero a tutti. E con il passaggio dall’attuale sistema di trasmissione del segnale del digitale terrestre al nuovo, il DVB-T2, che dovrebbe essere introdotto a partire dall’autunno 2021 cosa succederà?

Alcune soluzioni

Laddove la fibra non si può portare, per motivi tecnici o per una forte diseconomia, esistono alcune possibilità alternative. C’è la connessione satellitare o quella via radio. E naturalmente c’è la possibilità di rinforzare la rete mobile, con ripetitori di proprietà dei comuni: se un cellulare si connette in modo ottimale, può poi fare da hotspot e quindi garantire anche la navigazione da altri strumenti.

A luglio il Ministero ha firmato un Protocollo d’intesa con UNCEM per la realizzazione di un programma di azioni coordinate per l’innovazione e la digitalizzazione dei comuni montani italiani. Nel protocollo sono indicate una serie di misure, richieste, proposte che dovrebbero contribuire al superamento del gap digitale di cui soffrono le aree di montagna, come i dati dimostrano in modo inequivocabile. Ad esempio, investimenti per l’acquisto di ripetitori da parte dei comuni montani, che già oggi ne gestiscono un gran numero. O incentivi per coloro che non riescono ad accedere al digitale terrestre sostenendo l’acquisto di parabole satellitari e piattaforma vsat. 

Sul fronte mobile, c’è anche tutta la partita del 5G da giocare. Su questo, AgCom già nella delibera 231 del 2018 ha imposto agli operatori di telefonia mobile di portare, quando partirà la sperimentazione, il 5G in 120 piccoli Comuni come strumento di superamento del digital divide. 

Insomma, via terra o via aria, anche le montagne italiane prima o poi arriveranno a una sostanziale copertura di rete. E allora sarà davvero possibile per molte più persone scegliere se stare in città o optare per una vita ad alta quota. 

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