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A Montreal, dal 7 al 19 dicembre, si tiene la COP15, la conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità. Il Paese ospitante sarà il Canada, ma la presidenza sarà cinese, perché l’evento sarebbe dovuto tenersi due anni fa a Kunming, in Cina, ma è stato da allora sempre rimandato.
Così come ci sono state alcune conferenze sul clima più importanti di altre (quella di Parigi nel 2015 o quella di Glasgow del 2021), da questa COP15 si attende il documento che regolerà a livello internazionale la tutela della biodiversità per il prossimo decennio: qualcosa di equivalente, in termini di conservazione naturalistica, all’accordo di Parigi sul clima.
Così come i negazionisti climatici spesso ripetono l’adagio “il clima è sempre cambiato, non c’è nulla di strano”, chi sottovaluta la crisi della biodiversità potrebbe dire “le specie si sono sempre estinte e nuove specie hanno preso il loro posto: è l’evoluzione, bellezza”. Il fatto è che la velocità con cui oggi stanno scomparendo interi gruppi di animali, piante e funghi è troppo alta per consentire un naturale ripopolamento. Gli esseri umani stanno sfruttando le risorse del pianeta oltre i limiti consentiti dai ritmi della biosfera, che non fa in tempo a riprendersi dai colpi che le assestiamo.
Secondo l’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services, l’equivalente dell’IPCC per la biodiversità), gli attuali tassi di estinzioni di specie e popolazioni sono da 100 a 1000 volte superiori a quelli a cui il pianeta è stato abituato negli ultimi 10 milioni di anni.
Caccia, pesca, commercio illegale di piante e animali, inserimento di specie invasive, inquinamento, deforestazione e pratiche agricole che portano a distruzione degli habitat, nonché i cambiamenti climatici di origine antropica, sono tra i principali fattori alla base dell’erosione del patrimonio di biodiversità.
La portata della crisi è tale che oggi siamo nel pieno della sesta estinzione di massa. L’ultima, causata da un asteroide che ha colpito la Terra, era stata quella che 65 milioni di anni fa aveva fatto estinguere i dominatori del pianeta: i dinosauri. Oggi l’essere umano è al contempo dominatore e asteroide, tiranno e catastrofe, artefice del proprio trionfo e causa del proprio declino: si è infilato in quella che gli ecologi chiamano una trappola evolutiva.
Secondo quanto riporta il rapporto del 2019 dell’IPBES, l'abbondanza (quindi il numero) di specie native nei biomi terrestri è calata nell’ultimo secolo almeno del 20%. Le dimensioni delle popolazioni selvatiche di vertebrati invece sono in netto declino da almeno 50 anni sulla terra e nell’acqua (sia dolce, sia salata): si stima una riduzione del 40% per le specie terrestri, addirittura dell'84% per le specie d'acqua dolce e del 35% per quelle marine. Una riduzione della popolazione non è già estinzione, ma è spesso sintomo di cattiva salute della specie. Secondo l’IPBES 1 milione di specie di animali e piante oggi è già a rischio di estinzione.
“With biodiversity declining faster than any other time in human history, our quality of life, our well-being, & our economies are under threat."@CBD_COP15 is where we take meaningful action to tackle #biodiversity loss.
— ipbes (@IPBES) December 7, 2022
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La decimazione dell’abbondanza e della diversità di specie animali e vegetali non è affatto priva di conseguenze per le società umane. Uno studio ha stimato che tra i 235 e i 577 miliardi di dollari di produzione agricola sono ritenuti oggi a rischio come conseguenza del declino degli insetti impollinatori. Nell’ultimo secolo e mezzo circa metà dei coralli vivi delle barriere coralline è andato perduto (con un’accelerazione negli ultimi decenni per il cambiamento climatico) esponendo a rischio di inondazioni e uragani dai 100 ai 300 milioni di persone.
Secondo un rapporto del World Economic Forum più della metà del PIL globale dipende in qualche misura dai servizi ecosistemici di cui l’umanità gratuitamente fruisce. La perdita di biodiversità invece fa venire meno questi invisibili ma essenziali servizi. Invertire questa tendenza è nell’interesse non solo del pianeta ma anche delle nostre società, dato che in gioco ci sono la sicurezza alimentare, la salute e persino parte della sicurezza energetica globale, poiché più di 2 miliardi di persone fanno affidamento al legname come fonte energetica primaria.
Così come accade per il cambiamento climatico, i costi economici delle riparazioni ai danni causati dalla perdita del patrimonio naturale sono di gran lunga maggiori di quelli che si dovrebbero destinare alla prevenzione.
Un esempio riguarda la città di New York, che ha speso quasi 2 miliardi di dollari per preservare il bacino naturale che garantisce alla città afflusso di acqua pulita. L’investimento, per quanto ingente possa sembrare, in realtà è stato un affare, perché secondo il dipartimento di protezione ambientale della città la costruzione di un impianto di trattamento per sanare le acque dall’inquinamento sarebbe viceversa costato circa 10 miliardi di dollari. La scelta di New York è stata informata da conoscenze scientifiche consolidate da un’intensa attività di monitoraggio: ogni anno vengono raccolti 600.000 campioni d’acqua per valutare più di 250 variabili, inclusi gli inquinanti.
Come scriveva qualche anno fa su Il Bo Live Lorenzo Ciccarese, ricercatore ISPRA, autore di rapporti IPCC e oggi vice-capo delegazione dell’Italia alla COP15 di Montreal, “è necessaria una forte evidenza scientifica ed economica per dimostrare l’importanza della biodiversità ai ministri dell’economia, così come alla comunità delle imprese e della finanza. È fondamentale disporre di una scienza solida, capace di dimostrare che le soluzioni fornite dalla biodiversità possono raggiungere priorità di sviluppo sostenibile e creare percorsi in grado di guidare un cambiamento radicale”.
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Molti degli obiettivi di tutela della biodiversità infatti sono legati agli obiettivi ONU sullo sviluppo sostenibile (Sustainable Devlopment Goals, SDGs), che mirano a ridurre la fame e la povertà o a garantire il diritto alla salute e l’accesso a cibo e acqua.
Le grandi crisi del XXI secolo sono sistemiche, complesse: significa che il crollo della biodiversità va affrontato con soluzioni che intervengano anche sulla mitigazione del riscaldamento globale, sulla sostenibilità dei sistemi economici di produzione e sulla vivibilità sociale.
Per tradurre tutto questo in obiettivi concreti e misurabili nel tempo, i rappresentati degli Stati che si riuniscono per circa 2 settimane a Montreal (analogamente a quanto avvenuto a novembre a Sharm el-Sheikh per la COP27 sul clima) intavoleranno negoziati per elevare ad accordo quella che oggi è la bozza di un testo che contiene, tra le altre cose, 22 obiettivi che caratterizzeranno il Global Biodiversity Framework post-2020. Si tratta del piano strategico di tutela della biodiversità che varrà per il prossimo decennio e uno dei principali traguardi su cui sono puntati i riflettori è quello di arrivare alla protezione di almeno il 30% delle aree terrestri e marine entro il 2030.
Le premesse con cui si arriva all’appuntamento di Montreal tuttavia non sono delle migliori. Dei 20 obiettivi che erano stati fissati per il decennio precedente ad Aichi, in Giappone nel 2010, ne è stato raggiungo parzialmente solo uno (mettere sotto protezione il 17% delle aree terrestri). Non sono risultati invece minimamente sufficienti i fondi stanziati a livello internazionale a tutela del patrimonio naturalistico.
Inoltre, la COP15 avrebbe dovuto tenersi in Cina nel 2020 ma è stata rimandata di due anni, sia a causa di Covid-19, sia di una scarsa intesa tra le parti. Nell'ottobre 2021 si è tenuto a Kunming un evento principalmente online da cui è uscita una risoluzione non vincolante. Ancora oggi interi capoversi del testo in discussione a Montreal sono tra parentesi quadre: significa che su quegli aspetti non è stata ancora trovata una comunione di intenti tra le parti.
Alla COP27 sul clima appena conclusasi in Egitto, una giornata tematica era stata dedicata alla biodiversità e in quell’occasione il neo-presidente del Brasile Lula si era candidato a federatore dei Paesi del Sud del mondo, i più vulnerabili alla crisi ambientale, e ambasciatore del patrimonio naturalistico, a partire dalla sua foresta amazzonica. A differenza di quanto avvenuto a Sharm el-Sheikh tuttavia, a Montreal non è attesa la presenza dei capi di stato, ma solo di delegazioni nazionali. Staremo a vedere se la COP15 riuscirà a diventare un punto di svolta nel rapporto tra uomo e natura o se finirà per essere l’ennesima occasione persa.