SOCIETÀ

Cop26 e accordi sulla deforestazione: "Il diavolo è nei dettagli"

Alla Cop26 di Glasgow, la conferenza sul clima dell’Onu, più di 100 Paesi hanno sottoscritto una dichiarazione sulle foreste e l’uso del suolo che mira a limitare e invertire la deforestazione entro il 2030.

114 Paesi che ospitano l’85% del suolo forestale globale si impegnano a mettere a disposizione circa 16,5 miliardi di euro tra fondi pubblici (oltre 10 miliardi di euro) e privati (oltre 5 miliardi di euro), destinati al recupero dei terreni danneggiati, alla gestione degli incendi, e al supporto alle comunità che abitano questi ambienti.

Oltre ai Paesi dell’Unione Europea, il Regno Unito, gli Stati Uniti e la Cina, tra i Paesi firmatari c’è il Brasile di Jair Bolsonaro, che però fino ad oggi non ha usato riguardi nei confronti della foresta amazzonica e dei popoli indigeni che la abitano. C’è anche l’Indonesia, il maggior produttore ed esportatore di olio di palma, le cui colture vanno a sostituire le foreste tropicali, che riceverà, secondo quanto riporta riporta il Guardian, oltre 400 milioni di euro; la Repubblica Democratica del Congo al cui bacino tropicale sono destinati 235 milioni di euro (su un totale di 1,1 miliardi che andranno alle foreste africane), e la Russia che ospita le più estese foreste del mondo.

La dichiarazione è stata accolta con cauto ottimismo, ma in molti hanno ricordato che un’iniziativa simile era stata sottoscritta a New York nel 2014 seppur da solo 40 Paesi. L’obiettivo allora era eliminare entro il 2030 la deforestazione. Tuttavia, il suo tasso, seppur diminuito rispetto al decennio 1990 – 2000 (quasi 8 milioni di ettari di foresta persi all’anno), ha viaggiato a ritmi di quasi 5 milioni di ettari persi ogni anno tra il 2010 e il 2020, secondo la FAO.

“Il diavolo si nasconde nei dettagli e i documenti che abbiamo a disposizione attualmente sulla dichiarazione Zero Deforestation rimangono sul generico” puntualizza Davide Pettenella, professore di economia forestale all’Università di Padova e coordinatore del tavolo tecnico che ha preparato la Strategia Forestale Nazionale italiana. “Qualche dubbio sulla correttezza del piano generale può emergere, non certo dubbi sull’efficacia comunicativa: la dichiarazione raccoglie un generale consenso. Siamo tutti d’accordo nell’avere una superficie forestale più protetta a livello internazionale, soprattutto nei Paesi tropicali, e siamo d’accordo che dobbiamo ridurre il degrado forestale e aumentare le superfici piantate. Il problema è come farlo e dove farlo”.

Innanzitutto occorre definire cos’è deforestazione, commenta Pettenella: “La definizione ufficiale di foresta della Fao la definirei molto lassa, nel senso che è foresta quel pezzo di terra almeno di mezzo ettaro dove abbiamo piante di almeno 5 metri che coprono almeno il 10% del suolo. Questo significa che se vengono tagliate l’80% delle piante di una foresta primaria tropicale, per la Fao lì non ho deforestazione. Dal punto di vista ecologico, qualsiasi ecologo forestale le dirà invece che abbiamo distrutto totalmente l’ecosistema forestale”.

Un’importante distinzione è poi quella tra deforestazione netta e deforestazione assoluta. “Spesso si fa riferimento alla prima, che significa che si può tagliare a raso una foresta primaria e trasformarla in una piantagione, magari anche con specie esotiche, e questa operazione non è registrata come deforestazione in quanto, al netto delle superfici piantate, la superficie forestale non è diminuita”.

Un altro aspetto rilevante riguarda la differenza tra deforestazione e degrado forestale: entrambi vogliono essere arrestati in base alla nuova dichiarazione sottoscritta a Glasgow. “Il degrado delle foreste riguarda la loro semplificazione, i tagli selettivi che scremano le piante commercialmente di maggior valore, il pascolo eccessivo, l’attività venatoria illegale, ed è questa erosione della biodiversità e la riduzione della capacità di resilienza delle foreste il vero problema che abbiamo di fronte nei prossimi anni, specialmente nei Paesi in via di sviluppo e nelle aree tropicali.

"Diversamente dalla deforestazione, il degrado forestale è un fenomeno non facile da misurare e monitorare. Impegnarsi in un obiettivo quale l’arresto totale dei processi di degrado è un impegno estremamente ambizioso che francamente può essere giudicato retorico e forse anche un po’ demagogico. Ma non voglio spingermi a queste critiche perché voglio assumere un atteggiamento positivo nel valutare gli impegni dei governi, che per essere resi operativi dovranno essere accompagnati da una capacità di monitoraggio da parte dell’opinione pubblica e della società civile, non solo dei ricercatori. C’è un termine molto efficace nel linguaggio anglosassone che è quello di mobilization of shame, mobilitazione delle coscienze: richiesta di trasparenza. rendicontazione e di responsabilizzazione delle autorità pubbliche (accountability)”.

La dichiarazione del 2014 di New York per arrestare la deforestazione non ha sortito gli effetti sperati. Il timore è che quella sottoscritta a Glasgow non sia sostanzialmente diversa, sostiene Pettenella. “La prima importante formale dichiarazione (“Year 2000 Objective”) fu presa dall’International Tropical Timber Organization (Itto), un’organizzazione intergovernativa che raccoglie i Paesi che importano e che esportano legname tropicale. Quasi tutti i Paesi occidentali tra cui l’Italia, che è un grande importatore di legname tropicale, sono membri dell’Itto. Anche il governo italiano ha quindi sottoscritto nel 1990 l’impegno a rendere sostenibili le foreste tropicali entro il 2000. Ebbene, nel 2000 l’Itto ha constatato con realismo che questo obiettivo era impensabile da raggiungere per deficit di responsabilizzazione dei governi che non hanno preso in carico iniziative adeguate a contenere il fenomeno di taglio illegale di legname tropicale e del commercio dello stesso. Questo fu anche il primo tradimento di impegni ufficiali sottoscritti dai governi in questo ambito”.

Pettenella però è più ottimista riguardo agli impatti della sottoscrizione degli impegni forestali di Glasgow, anche se rileva un’importante questione di credibilità dei decisori politici. “Forse l’ufficialità di questa dichiarazione di Glasgow, la presenza di tanti capi di governo, la presenza di giovani e delle loro organizzazioni potrebbe portare a una maggiore responsabilizzazione dei decisori pubblici. Il rischio che il gap tra coloro che fanno i “bla bla bla” e la società civile si allarghi e che diminuisca ulteriormente la credibilità dei decisori politici è un rischio maggiormente percepito. Le dichiarazioni spot se non saranno accompagnate da coerenti misure rischiano di accrescere un gap già molto ampio”.


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Un’altra importante questione che emerge da Glasgow, complementare al contrasto alla deforestazione, riguarda il ruolo ricoperto dalla piantagione di nuovi alberi nella lotta al cambiamento climatico.

“Attualmente deforestazione e degrado forestale vengono ritenuti da documenti ufficiali causa dell’11% delle emissioni di origine antropica in atmosfera. Alcune stime arrivano anche al 18%. Che la foresta sia causa delle emissioni di gas serra è indubbio. Tuttavia sostenere che rimboschire sia una soluzione fondamentale per contrastare il cambiamento climatico è a mio avviso una affermazione scorretta”.

Secondo Pettenella esistono tutta una serie di servizi ecosistemici collegati alla presenza delle foreste che non possono essere dimenticati centrando l’attenzione sull’idea di nuove piantagioni volte al solo scopo di catturare velocemente l’anidride carbonica dall’atmosfera. “Puntando l’attenzione sulla fissazione di Carbonio vengono dimenticati e compromessi la tutela della biodiversità, la regolazione del ciclo dell’acqua, l’offerta di materie prime e fonti alimentari per le popolazioni locali, la qualità del paesaggio, i servizi e il benessere sociale delle comunità locali”.

Secondo Pettenella, il rimboschimento può talvolta assumere il paradossale ruolo di una licenza per inquinare: “Pianto nuove piantagioni e non mi preoccupo di tutto quanto avviene nelle foreste già esistenti spesso soggette a processi di abbandono e di degrado (incendi, schianti, attacchi parassitari), né mi preoccupo dei più che necessari cambiamenti nei modelli di consumo o di quelli energetici. Così riesco a giustificare il business as usual, quando ci sarebbe l’urgenza di un cambio radicale negli stili di vita e nelle tecnologie”.

Queste considerazioni valgono per i paesi tropicali, come per l’Italia dove un terzo della superficie è coperta da boschi “ed è un patrimonio mal gestito, spesso abbandonato e per questo soggetto a grandi danni come i danni della tempesta Vaia nel 2018 e del bostrico di quest’anno. Dopo i danni enormi da incendi nel 2017, quest’anno abbiamo avuto il record di aree incendiate in Italia: più di 150.000 ettari bruciati con una quantità di anidride carbonica emessa in atmosfera senza precedenti nella storia recente delle foreste italiane. Nemmeno Vaia, con i 42.000 ettari di foresta distrutti nel Nord Est, è stata così distruttiva. Tutelare il patrimonio esistente è anche più conveniente dal punto di vista economico rispetto a piantare nuovi alberi”.

Detto questo, precisa Pettenella, non nelle aree montane e collinari, ma nelle nostre aree urbane abbiamo bisogno di più aree verdi: “più parchi, più viali, più vere e proprie foreste tra loro collegate da corridoi ecologici. L’utilità di questi interventi è fuori di discussione, ma se analizziamo i nostri problemi con visione ampia, piantare nuove piante nel territorio italiano non è la priorità per le politiche climatiche”.

Dello stesso parere è Tommaso Anfodillo, professore del dipartimento territorio e sistemi agro-forestali dell’università di Padova. “Tutelare le foreste esistenti è un obbligo e piantare alberi fa sempre bene ma le nuove foreste non dovrebbero essere ritenute la via “maestra” nel combattere i cambiamenti climatici. I motivi sono i seguenti: le foreste assorbono poca CO2 rispetto a quella che viene emessa. In Italia avremmo bisogno di una superficie di 3 volte il nostro Paese (tutta rimboschita) per assorbire le nostre emissioni. Non mi pare praticabile. Lo stesso vale per tutti gli altri Paesi: non c’è superficie a disposizione sufficiente.

“Inoltre le foreste sono sottoposte a disturbi molto frequenti: ricordiamo Vaia, incendi, neve, attacchi di insetti e altro. Gli incendi in Siberia del 2019 hanno interessato circa 7 milioni di ettari e hanno emesso in pochi mesi qualcosa come 3 volte le emissioni totali annuali italiane.

“Inoltre c’è anche l’importantissimo fatto che la gente si potrebbe convincere (e molti sembra la pensino così) che 'se piantiamo gli alberi siamo a posto', con l’effetto paradossale di far dimenticare o non attuare la strategia di riduzione delle emissioni che è l’unica via per combattere seriamente i cambiamenti climatici. Per questo sono un po’ scettico sull’uso delle foreste così come viene presentato in questi giorni”.

 

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