SOCIETÀ

La COP27 torna in Africa, in Egitto: cosa significa per la giustizia climatica

La conferenza delle parti delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico torna in Africa, in Egitto a Sharm el-Sheikh, dopo che la Cop22, tenutasi l’anno successivo agli accordi di Pargi del 2015, fu in Marocco. La sede scelta per la Cop27 renderà alcuni temi ancora più importanti di quanto già non siano, altri li renderà addirittura più complicati e controversi.

Finanza climatica

Il tema che più di tutti sarà influenzato dalla sede di svolgimento della conferenza sul clima sarà quello della finanza climatica. Dal 2009, dalla Cop15 di Copenhagen, i Paesi più ricchi si erano impegnati a far arrivare a quelli più poveri 100 miliardi di dollari l’anno per tamponare le loro vulnerabilità al cambiamento climatico: costruire infrastrutture resistenti agli eventi meteorologici estremi, difendere le coste dall’innalzamento del livello dei mari, pianificare città e quartieri che sappiano adattarsi alle ondate di calore o alle precipitazioni intense.

Come ribadisce, tra gli altri, l’attivista ugandese Vanessa Nakate, la finanza climatica non è una questione di donazioni, ma piuttosto di riparazioni a perdite e danni (loss and damage) causate da un cambiamento climatico di cui i Paesi a basso reddito non sono responsabili.

L’Africa ad esempio ha prodotto solo il 3% di tutte le emissioni di gas climalteranti che le economie mondiali hanno generato negli ultimi due secoli e mezzo. Eppure quelli africani sono tra i Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico e meno attrezzati per affrontarlo. Circa 600 milioni di africani, più del 40% della popolazione del continente, non ha nemmeno accesso all’energia elettrica. La banca africana dello sviluppo ha annunciato a settembre che il continente sta perdendo tra il 5% e il 15% della crescita del proprio PIL procapite a causa del cambiamento climatico.

Un recente rapporto dell’UNICEF, di cui Nakate è ambasciatrice, ricorda che i bambini sono tra i più colpiti dagli effetti dei cambiamenti climatici. Il corno d’Africa sta vivendo una delle carestie, causate da siccità, peggiori degli ultimi 40 anni. Malnutrizione, scarso accesso all’acqua, ai servizi sanitari e all’educazione sono conseguenze delle ondate di calore che oggi colpiscono 559 milioni di bambini nel mondo, ma si stima colpiranno 2 miliardi di bambini nel 2050.

Inoltre, in un pianeta più caldo non solo aumenterà il tasso di mortalità per via delle maggiori ondate di calore, ma anche aumenterà la trasmissibilità di alcune malattie quali la dengue, la malaria e il colera, come ricorda il rapporto Lancet Countdown, il cui sottotitolo di quest’anno è “la salute in balia dei combustibili fossili”.

Sono anni che i Paesi a basso reddito attendono che i Paesi ricchi mantengano la parola data. Nel patto climatico di Glasgow, risultato delle negoziazioni della Cop26 conclusasi un anno fa, non è stato inserito alcun un riferimento a una struttura finanziaria per riparare alle perdite e ai danni subiti dai Paesi più vulnerabili, che si sarebbe dovuta sommare alla finanza per l’adattamento e la mitigazione. Inoltre al paragrafo 44 si notava “con profondo rammarico che l’obiettivo di mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 in favore dei Paesi in via di sviluppo, nel contesto di azioni di mitigazione e trasparenza nell’implementazione, non è stato ancora raggiunto”.

In realtà, per riparare adeguatamente alle perdite e ai danni causati dal cambiamento climatico nei Paesi a basso redditto, che includono non solo quelli africani ma anche le piccole isole oceaniche o il Pakistan travolto dalle inondazioni, si stima che i miliardi di dollari a loro supporto dovrebbero essere tra i 290 e i 580 l’anno entro il 2030.

Il 10% delle popolazione che detiene più della metà della ricchezza globale è responsabile del 50% delle emissioni, mentre il 50% della popolazione che detiene l’8% della ricchezza globale è responsabile del 10% delle emissioni: “Sono 30 anni che negoziatori come me chiedono di agire” scrive su Nature Madeleine Diouf Sarr, presidente del Least Developed Countries Group on Climate Change in rappresentanza di 46 Paesi e 1 miliardo di persone.

“Qui sta l’ironia: i sussidi globali per i combustibili fossili nel solo 2021 hanno raggiunto i 697 miliardi di dollari. Questi soldi avrebbero potuto pagare le perdite economiche legate al clima nei Paesi più vulnerabili dal 2000 al 2019, avanzando ancora 170 miliardi di dollari di profitto” sostiene Madeleine Diouf Sarr.

La crisi energetica, il costo degli alimenti e l’inflazione in Europa e negli Stati Uniti sono tutti elementi che probabilmente verranno menzionati come ostacoli a trovare fondi da stanziare in favore di persone che vivono dall’altra parte del mondo. Ma per mettere ulteriormente in prospettiva la questione, 100 miliardi di dollari equivalgono a poco più di un mese di guadagni del settore Oil & Gas, o metà di quanto la Russia ha guadagnato dall’esportazione di combustibili fossili da quando ha invaso l’Ucraina.

A Sharm el-Sheikh il 9 novembre sarà il primo di una serie dei giorni tematici e sarà dedicato interamente alla finanza climatica. Per la prima volta nella storia delle conferenze sul clima è stata inserita nell’agenda dei lavori una discussione sulla creazione di un fondo o un meccanismo di finanziamento dedicato a sanare perdite e danni e ci si attende una decisione definitiva da parte dei Paesi membri non oltre il 2024. Molta della credibilità della Cop27 dipenderà dalla capacità di passare dalle parole ai fatti in tema di finanza climatica.

Clima e diritti umani

Non sarà dedicato un giorno specifico al tema dei diritti umani, ma questa Cop27 rischia di venir ricordata anche per essere stata ospitata da un Paese che non assicura diritti e libertà.

Come ricorda il Guardian, il governo egiziano di al-Sisi è responsabile della detenzione di circa 60.000 prigionieri politici e secondo un recente rapporto di Human Rights Watch ai gruppi ambientalisti non è stata garantita la libertà di espressione in Egitto.

Pochi giorni prima dell'inizio dei lavori le forze di sicurezza egiziane hanno arrestato quasi 70 persone che avevano preso parte alle mobilitazione per il clima. Alla Cop di quest’anno con ogni probabilità mancherà la pressione che le manifestazioni degli attivisti e della società civile solitamente mettevano a chi si trova nelle stanze delle negoziazioni.

Più di 1500 organizzazioni della società civile hanno firmato una petizione per garantire la libertà d’espressione durante la Cop27 e liberare i prigionieri politici in Egitto: non si può avere azione climatica in assenza di diritti umani, è il messaggio dell’appello.

Tra i firmatari ci sono Amnesty International, Climate Action Network e Greta Thunberg, la quale ha dichiarato che non andrà a Sharm el-Sheikh in quanto considera la conferenza delle parti di quest'anno ad alto rischio di greenwashing.

Non ha invece firmato la petizione per i diritti umani Greenpeace, che è stata criticata (da coloro che l’hanno firmata) assieme ai gruppi ambientalisti egiziani che si sono ritirati dalla petizione. Alcuni di questi sono sponsorizzati dal ministero dell’ambiente egiziano, riporta il Guardian.

Oltre al diritto all’accesso a cibo, acqua, servizi sanitari ed educativi che il cambiamento climatico mette a repentaglio, in questa Cop egiziana occorrerà quindi tenere gli occhi aperti anche sulla libertà d’espressione, inclusa quella di avanzare eventuali critiche alle decisioni che verranno prese a Sharm el-Sheikh.

Decarbonizzazione, energia e standard di vita

Ai temi della decarbonizzazione e dell’energia saranno dedicati rispettivamente le giornate dell’11 e del 15 novembre. Anche in questo caso il fatto che la Cop27 si svolga in Africa accende i riflettori su alcune questioni in particolare.

La guerra in Ucraina ha spinto molti Paesi a riorganizzare le proprie forniture di gas, prevedendo il calo di quello venduto dalla Russia. L’Italia ad esempio, con Eni, ha aumentato i flussi di gas in arrivo dall’Algeria (che ora è il nostro principale fornitore) e, facendo “leva su nuove scoperte, in particolare di gas naturale”, ha stretto o rinnovato rapporti con lo stesso Egitto, con Libia, Nigeria, Congo, Angola e Mozambico, per restare in Africa. Uscendo dal continente si contano anche Cipro, Qatar e Indonesia. Al suo primo discorso in Parlamento, la presidente del consiglio Giorgia Meloni (che partecipa alla Cop27 il 7 e l’8 novembre) ha menzionato un “piano Mattei per l’Africa”: su cosa significhi rimandiamo a un articolo di Valligia Blu.

Al G7 tenutosi a fine giugno al castello di Elmau, in Alta Baviera, l’allora presidente del consiglio Mario Draghi aveva detto che “nella situazione attuale ci sono delle esigenze a breve termine che richiederanno investimenti significativi nelle infrastrutture per il gas per i Paesi in via di sviluppo e non solo. Dovremo assicurarci che possano essere poi convertite all'uso dell'idrogeno, un modo per conciliare le esigenze a breve con quelle a lungo termine”.

Detta in altre parole, il gas è stato eletto a combustibile di transizione per i Paesi ricchi e motore di sviluppo per quelli a basso reddito, si programmano investimenti in nuove infrastrutture per estrarlo e trasportarlo, con la promessa (criticata da diversi osservatori) che la sostenibilità un giorno verrà con la conversione di quelle infrastrutture all’idrogeno.

Secondo uno dei più importanti rapporti internazionali sulla transizione energetica, ovvero il Net Zero by 2050 della IEA, per raggiungere gli obiettivi di neutralità climatica si sarebbe dovuto mettere uno stop già nel 2021 all’apertura di nuovi giacimenti di gas, petrolio e carbone, ma solo portare a esaurimento quelli già avviati.


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Se da una parte le scelte del G7 sembrano una nuova versione di colonialismo energetico, dall’altra i governi dei Paesi africani vedono con favore i recenti cambiamenti di assetto nella geopolitica dell’energia, come riporta il New York Times. La loro posizione può essere così riassunta: “le nazioni meno sviluppate dovrebbero essere libere di bruciare più gas negli anni a venire, a dispetto della crisi climatica e della necessità del mondo di diminuire la propria dipendenza dai combustibili fossili, perché i propri cittadini meritano standard di vita più alti e un maggiore accesso a elettricità e altri beni fondamentali”. La posizione dell’India che alla Cop26 di Glasgow si era esposta per “diminuire gradualmente” e non “eliminare” l’uso del carbone del resto si basava sulle medesime posizioni che difendono oggi i governi africani.

La costruzione di nuove infrastrutture che legherebbero le economie mondiali ai combustibili fossili per altri decenni non è però certo vista di buon occhio da quella parte della società civile che spinge i governi verso azioni di decarbonizzazione più decise e concrete.

È giusto costruire nuove infrastrutture per il gas naturale quando le emissioni derivanti dal suo utilizzo sono causa degli eventi estremi che mettono in ginocchio le popolazioni che per migliorare le proprie condizioni costruiscono quelle infrastrutture? Il dilemma sarà al centro delle negoziazioni alla Cop27, ma il problema è che i nuovi progetti per l’Africa non si limitano affatto allo sfruttamento del solo gas naturale.

La compagnia francese TotalEnergies, assieme alla China National Offshore Oil Corporation, ha in programma di costruire un oleodotto di 1400 km che intende estrarre petrolio dal Lake Albert in Uganda e trasportarlo fino a Port Tanga, sulla costa della Tanzania dove verrà esportato in Europa e in Cina.

La durata di vita di una simile infrastruttura è stimata in 25 anni, durante i quali le operazioni della East Africa Crude Oil Pipeline (Eacop) emetteranno in atmosfera circa 380 milioni di tonnellate di CO2eq, un valore pari a 25 volte le emissioni annuali combinate di Uganda e Tanzania, secondo l’analisi compiuta dal Climate Accountability Institute.

“Le grandi compagnie di gas e petrolio sostengono che abbiamo bisogno di nuovi combustibili fossili per lo sviluppo dell’Africa e per tirar fuori la gente dalla povertà energetica” ha detto Vanessa Nakate lo scorso 27 ottobre in un intervento alla Trust Conference di Londra. “Voglio essere il più chiara possibile su questo: sono decenni che le grandi compagnie di gas e petrolio promettono di tirar fuori le persone dalla povertà energetica. È una bugia. Queste infrastrutture non raggiungeranno mai coloro che vivono nell’ultimo miglio e queste corporazioni lo sanno bene. I profitti derivanti da queste operazioni finiranno nelle tasche di chi è già molto ricco. E quando queste infrastrutture diventeranno vecchie, i prestiti fatti per costruirle finiranno per soffocare gli africani che stanno già annegando nel debito. Se volete chiamare i combustibili fossili una soluzione ponte dobbiamo essere chiari: sono un ponte verso il nulla”.

Secondo Nakate, così come quanto già dichiarato dal segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, la soluzione per portare elettricità e opportunità di sviluppo alle comunità povere e remote dell’Africa sono le rinnovabili, che funzionano bene anche su piccola scala: “sono la soluzione più economica e più veloce” ha detto Nakate, ribadendo quanto contenuto nel rapporto 2022 del terzo gruppo di lavoro dell’IPCC, che ritiene solare ed eolico le soluzioni energetiche più valide per ridurre le emissioni.

Anche un’economia basata sulle rinnovabili tuttavia non è affatto da considerarsi libera da rapporti colonialisti tra Stati e da approcci predatori nei confronti delle risorse naturali, come ricorda il rapporto sui minerali critici per la transizione energetica della IEA.

Tuttavia parlare di come implementare un’economia circolare che permetta di non dipendere dalle continue estrazioni di materie prime dovrebbe essere uno dei temi all’ordine del giorno della Cop27, che invece si troverà a discutere di quanti sussidi statali destinare ancora all’industria dei combustibili fossili.

La diplomazia climatica, anno dopo anno, ha sempre fatto fare qualche piccolo passo avanti alla causa ambientale ed è importante che i Paesi delle Nazioni Unite continuino a incontrarsi per coordinare i propri sforzi. Ogni decimo di grado di contenimento del riscaldamento globale conta, ma i progressi fatti fino a questo momento sono troppo pochi, come certificano gli ultimi rapporti pubblicati dalle stesse agenzie della Nazioni Unite.

A questo si aggiunge il fatto che la cooperazione internazionale quest’anno si troverà a fare i conti con muri che solo un anno fa non c’erano. Nel frattempo il riscaldamento globale travalica quei nuovi confini geopolitici che nell’atmosfera, sempre più carica di gas climalteranti, non esistono.

 

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