SCIENZA E RICERCA

Coronavirus, anche i grandi primati sono a rischio

Tra noi e le grandi scimmie antropomorfe sussiste, a livello biologico, una parentela molto stretta: da un punto di vista evoluzionistico scimpanzé, gorilla, bonobo e oranghi sono nostri diretti “cugini”. Questa nota evidenza scientifica – che in altri tempi avrebbe potuto costituire uno spunto per riflettere criticamente sulla presunta eccezionalità di Homo sapiens in natura – porta con sé, nel corso di una crisi pandemica, conseguenze inaspettate.

È infatti proprio a causa della sostanziale somiglianza biologica che unisce uomo e grandi primati che, probabilmente, questi ultimi sono, come noi, esposti al contagio da coronavirus. Iniziano ad apparire, sulla questione della possibile estensione del contagio ai primati, le prime evidenze scientifiche che sottolineano come la presenza, nell’uomo e nelle grandi scimmie antropomorfe, degli stessi recettori di cui il virus si serve per entrare nell’organismo sia una prova abbastanza certa del concreto rischio di diffusione del patogeno. Ciò costituisce un’ulteriore minaccia per le specie che compongono la famiglia degli ominidi, molte delle quali – così come molte altre specie di primati – sono già considerate rare o addirittura a rischio d’estinzione.

Con il diffondersi del Sars-CoV-2 i centri e le organizzazioni di protezione delle grandi scimmie, comprendendo il pericolo, hanno subito cercato di correre ai ripari: se non adeguatamente protette, infatti, le già ridotte popolazioni esistenti potrebbero subire una vera e propria decimazione. Come sottolinea un recente articolo di Science, infatti, le poche popolazioni di primati che ancora vivono in condizione di (semi)libertà, all’interno di riserve naturali e in altri luoghi protetti, sono costantemente sottoposte a molteplici fattori di stress, tra cui, non ultimi, il bracconaggio e la deforestazione; a questo quadro, già di per sé desolante, si aggiunge anche il problema dei contatti diretti con l’uomo, dovuti soprattutto al turismo e alla ricerca scientifica, che costituisce un ulteriore fattore di rischio nella misura in cui rende possibile uno scambio di patogeni.

Chiaramente, una volta avvenuto il contagio è difficilissimo porre in essere misure adeguate per contenere la diffusione del virus: come ribadisce, nell’articolo di Science, la primatologa Tara Stoinski, “per i gorilla non esiste il distanziamento sociale”. È per questo che, tra le prime misure di protezione adottate, si è proceduto a ridurre drasticamente i contatti tra primati ed umani: al di là del blocco del turismo, si è deciso di evitare anche l’interazione con i ricercatori e con i volontari che si prendono cura delle scimmie e di fare ricorso, laddove un contatto fosse necessario, agli ormai familiari dispositivi di protezione individuale e a tutte le misure possibili di distanziamento.

Manca, tuttavia, un piano che vada oltre la prevenzione: se le scimmie dovessero ammalarsi, ancora non è noto come si potrà e dovrà intervenire. Negli anni scorsi, infatti, è già accaduto che si verificassero casi di diffusione, tra popolazioni di scimmie, delle patologie respiratorie virali di origine umana: gli esiti sono stati tragici, ed hanno contribuito in modo massiccio alla decimazione dei branchi colpiti.

Si delinea dunque, nuovamente, un problema legato alla conservazione di specie deboli e a rischio. Per l’ennesima volta, questa pandemia ci costringe a ricordare l’essenziale interconnessione che lega tutte le forme di vita in un’unica rete.

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