Sars-CoV-2 ancora sotto i riflettori. A fare notizia in questi giorni un documento condiviso da dieci scienziati italiani – Giuseppe Remuzzi, Alberto Zangrillo, Matteo Bassetti, Arnaldo Caruso, Massimo Clementi, Luciano Gattinoni, Donato Greco, Luca Lorini, Giorgio Palù e Roberto Rigoli – che pongono in evidenza una marcata riduzione dei casi di Covid-19 con sintomatologia e un costante incremento di casi con bassa o molto bassa carica virale. “Al momento – si legge – la comunità scientifica internazionale si sta interrogando sulla reale capacità di questi soggetti paucisintomatici e asintomatici di trasmettere l’infezione”. Si tratta di una breve dichiarazione (il testo è stato pubblicato anche nella pagina Facebook di uno dei sottoscrittori) ripresa da molte testate, a cui ha fatto seguito la replica di quanti invece ritengono rischioso abbassare la guardia e tra questi Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, e Massimo Galli, direttore del dipartimento di malattie infettive dell’ospedale “Luigi Sacco” di Milano.
Già qualche giorno prima in un’intervista al Corriere della Sera Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, riferiva di uno studio condotto su 133 ricercatori della struttura da lui guidata e su 298 dipendenti della Brembo. “In tutto, 40 casi di tamponi positivi – si legge nell’articolo –. Ma la positività di questi tamponi emergeva solo con cicli di amplificazione molto alti, tra 34 e 38 cicli, che corrispondono a meno di diecimila copie di Rna virale”. Per cercare il virus, cioè, viene impiegata la tecnica di reazione a catena della polimerasi che amplifica, cioè moltiplica, il materiale genetico di partenza contenuto nel campione: se il numero di cicli di amplificazione è elevato può mettere in evidenza anche piccole quantità di materiale riconducibile a Sars-CoV-2 presente nella gola e nel naso. Sotto le 100.000 copie di Rna, sostiene lo scienziato, non c’è sostanziale rischio di contagio. Secondo Remuzzi, dunque, i risultati dello studio condotto stanno a indicare che quelli individuati sono “casi di positività con una carica virale molto bassa, non contagiosa. Li chiamiamo contagi, ma sono persone positive al tampone”.
Qualche giorno dopo, il 22 giugno, nel corso di un incontro in Regione Lombardia Fausto Baldanti, responsabile del laboratorio di virologia del San Matteo di Pavia, presentava uno studio condotto su 280 soggetti guariti dall’infezione da Sars-CoV-2 nel corso del quale, secondo quanto riportato da AdnKronos, è stato riscontrato che i pazienti avevano cariche virali basse. E il segnale di sopravvivenza del virus era meno del 3%. Il responsabile della virologia molecolare dell'Irccs, riporta AdnKronos, ha evidenziato l'importanza di considerare il cosiddetto Cycle threshold (Ct, 'ciclo-soglia'): “Più ha un numero grande, meno Rna, cioè acido ribonucleico, c'è”. Quindi la conclusione del lavoro è che “in generale i debolmente positivi non infettano” e dunque secondo gli esperti la ricerca può avere “importanti implicazioni” per le strategie di sanità pubblica.
Pur trattandosi di studi non ancora pubblicati, le conclusioni anticipate dai media hanno fatto discutere. Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di Medicina molecolare dell’università di Padova, recentemente ha dichiarato: “È vero, la carica virale è diminuita. In ospedale si vedono sempre meno casi, in più soggetti che per loro comportamenti o situazioni a rischio si sarebbero infettati durante il picco, oggi o non contraggono la malattia o ne sono colpiti in forma lieve, ma bisogna stare attenti a come si esprimono questi concetti. Ci vuole umiltà, non conosciamo ancora bene il virus”.
Ma esistono delle conoscenze che si possono dare per acquisite? Entrando nello specifico, su questa testata Crisanti ha recentemente evidenziato, per esempio, che la carica virale non è sempre costante nel tempo. In quel caso il confronto era tra sintomatici e asintomatici. Il docente sottolineava che se una persona asintomatica si è appena infettata ha una carica virale elevata, paragonabile a quella di una persona sintomatica e quindi non si vede differenza. Se invece la stessa persona viene intercettata sei, sette giorni dopo, quando la malattia è in via di risoluzione, la carica è più bassa. Per questa ragione, concludeva in quel caso, è difficile paragonare sintomatici e asintomatici in base alla carica virale, se non si conosce esattamente il momento in cui le persone si sono infettate.
“ Ci vuole umiltà, non conosciamo ancora bene il virus Andrea Crisanti
Sulla base della letteratura scientifica esistente, anche Enrico Bucci, professore di biologia dei sistemi alla Temple University di Filadelfia, in un post su Facebook sottolinea che da mesi ormai è noto che la quantità di virus rilevata sul tampone diminuisce via via che il paziente guarisce e cita alcuni degli studi che lo dimostrano, pubblicati (per citarne un paio) su Nature Medicine e su Clinical Infectious Disease. “Le caratteristiche descritte – scrive – sono state già ritrovate da tempo nel pieno di epidemie di Sars-CoV-2, quando cioè gli ospedali si riempivano a vista d'occhio. In altre parole, la bassa carica virale di pazienti in via di guarigione o guariti, e quindi la loro debole positività, sono fatti noti, che non cambiano se l'epidemia è nel pieno della sua forza o se, come oggi in Italia, è ridotta a termini molto minori”. Lo studioso evidenzia inoltre che questo non può essere collegato a una “perdita di forza” del virus e che può accadere che pazienti che hanno superato la malattia risultino positivi al tampone per molto tempo. Anche in questo caso, Bucci ricorda che tale risultato è stato dimostrato più volte e, tra le fonti disponibili, cita uno studio pubblicato su Jama.
Non manca poi chi osserva che la quantità di genoma virale presente nel campione biologico potrebbe dipendere anche dal modo i cui il tampone è stato eseguito, dalla sua conservazione o (di nuovo) dal momento in cui è stato effettuato il prelievo rispetto al momento in cui l’infezione è stata contratta. “Viene proposta l’inferenza che tamponi che risultano positivi dopo un gran numero di cicli di amplificazione del genoma – osserva l’epidemiologa Stefania Salmaso – indichino una infezione ‘moderata’ e quindi non contagiosa. Il salto di conclusioni sembra non sostenibile senza altri dati di supporto e la generalizzazione potenzialmente pericolosa”. L’epidemiologa ritiene che il rischio di trasmettere il virus da parte di soggetti con tampone a bassa carica virale vada piuttosto quantificato sul territorio tramite attività di contact tracing, dunque andando a verificare, attraverso la ricerca dei contatti, quanti di questi sono stati contagiati.
Antonella Viola infine, docente di patologia generale all’università di Padova con cui Il Bo Live ha cercato di fare il punto, ritiene sia necessario partire da alcune premesse. “Prima di tutto – osserva – è chiaro che in una persona in cui il virus si replica poco, in cui cioè la carica virale è bassa, esiste una minore probabilità di produrre dei droplets, dell’aerosol, carico di virus. Questo è abbastanza intuitivo”. L’immunologa ritiene dunque corrette le affermazioni di quanti sostengono che i pazienti oggi hanno una sintomatologia estremamente lieve, una carica virale molto bassa e reputano dunque verosimile che non siano contagiosi o che lo siano poco (certamente questi soggetti non possono essere dei superdiffusori). Viola indica alcuni studi che permettono di stabilire una correlazione tra carica virale e gravità della malattia (come l’articolo pubblicato su TheBmj) e tra carica virale e capacità del virus di infettare, cioè presenza di virus vivo e non solo materiale genetico (paper su European Journal of Clinical Microbiology & Infectious Diseases e su Nature): se è presente molta carica virale è più facile che ci siano virus in attiva replicazione, virus vivi che possono infettare.
“Detto questo, il fatto che oggi il quadro sia più lieve è sotto gli occhi di tutti: le terapie intensive sono vuote, il numero di contagi è molto più basso, per cui è evidente che c’è una riduzione della diffusione dell’infezione. Questo però non significa che il virus non sia più in grado di infettare. È questo l’errore metodologico che stanno facendo alcuni colleghi”. Perché, secondo Viola, affermare che oggi si registrano dei contagi in persone che non hanno una sintomatologia grave e una forte carica virale è cosa diversa dal sostenere che il virus non è più in grado di infettare. “È un salto logico che non è sostenuto dai fatti”.
Fino a qualche tempo fa venivano colpiti in maniera critica gli anziani, i più fragili, soggetti che non riuscivano con il proprio sistema immunitario a bloccare la replicazione del virus e ciò spiega perché i tamponi rilevassero una carica virale molto alta.
“ ... il fatto che oggi il quadro sia più lieve è sotto gli occhi di tutti... Questo però non significa che il virus non sia più in grado di infettare Antonella Viola
“Adesso – continua l’immunologa – queste persone sono protette, gli anziani sono tuttora a casa, le case di riposo sono ancora controllate, il virus non circola più all’interno di questi ambienti e, di conseguenza, sta infettando individui con un sistema immunitario in grado di bloccare subito la replicazione virale. Per questo la sintomatologia è leggera e quindi la carica virale più bassa: è cambiato il target, non sono più gli ultraottantenni a essere infettati, ma persone più sane che hanno un sistema immunitario in grado di combattere l’infezione”.
Secondo la docente ci si deve basare sui fatti e dunque, nel caso specifico, tener conto di due aspetti: innanzitutto, l’infezione in Italia in questo momento è sotto controllo. Nonostante ci siano quotidianamente dei piccoli focolai (a Bologna, ad esempio, con circa 45 persone), si riesce a identificarli e a bloccarli. In secondo luogo, però, bisogna tener presente che non c’è alcuna evidenza scientifica sulla base della quale si possa affermare che il virus sia mutato dal punto di vista genetico, ma anzi la sua aggressività nel resto del mondo è ancora molto alta. Quindi, partendo da questi fatti, possiamo concludere che l’epidemia in Italia è sotto controllo non perché il virus sia mutato, ma perché hanno funzionato le misure che sono state messe in atto.
“Ricordiamoci – continua Viola – che noi ogni giorno continuiamo ad avere 200-300 nuovi contagi, e queste 300 persone da qualcuno sono state infettate. Ciò significa che ci sono persone ancora in grado di contagiare, pur avendo una carica virale più bassa rispetto al difficile periodo che abbiamo vissuto: se tutti quelli che oggi sono positivi non fossero contagiosi, noi azzereremmo immediatamente i contagi, ma non è così”.
E conclude con una considerazione di carattere generale: “La scienza non sta facendo una bella figura, dando l’impressione di essere divisa in due tifoserie. Credo che tutti noi scienziati dovremmo ritrovare l’umiltà del dubbio, soprattutto davanti a un virus nuovo come questo, a una malattia come questa su cui non possediamo verità assolute. Ci sono però dei fatti sui quali dobbiamo ragionare e confrontarci civilmente”.