Foto: Jo-Anne McArthur/Unsplash
«Tutti, entro poche ore, mangeremo e potremo contribuire immediatamente all’inversione del cambiamento climatico […]. Cambiare il nostro modo di mangiare non sarà sufficiente di per sé a salvare il pianeta, ma non possiamo salvare il pianeta senza cambiare il nostro modo di mangiare». A scrivere queste parole è lo scrittore statunitense Jonathan Safran Foer, che, nel suo libro Possiamo salvare il mondo prima di cena (Guanda 2019) propone di superare il divario fra la conoscenza e la coscienza del disastro ambientale mettendo in atto un piccolo sacrificio, che può però aiutare il mondo a cambiare strada: non consumare alimenti animali – essere vegani – prima di cena.
Una simile proposta nasce dalla consapevolezza del fatto che una delle attività umane più inquinanti è proprio l’allevamento di animali domestici a scopo alimentare. Gli allevamenti, infatti, non solo sono responsabili di circa un terzo delle emissioni climalteranti su base annuale, ma contribuiscono alla deforestazione, al cambiamento della destinazione d’uso dei suoli, alla desertificazione, alla depredazione di risorse fondamentali come l’acqua, all’inquinamento di terre, mari e acque dolci. L’attuale sistema alimentare deve essere urgentemente ripensato, e questo non potrà che comportare anche un netto mutamento nelle diete globali: c’è bisogno di una rivoluzione alimentare.
Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature Food offre un’analisi aggiornata dell’impatto degli allevamenti sulla destabilizzazione del clima, ed evidenzia come, per sperare di rimanere entro le previsioni di aumento delle temperature individuate dall’Accordo di Parigi, si dovranno compiere scelte politiche radicali.
La popolazione mondiale aumenterà del 50% entro il 2100, con picchi di crescita che si verificheranno soprattutto in paesi a basso reddito, come le nazioni dell’Africa sub-Sahariana e del Sud-est asiatico. Quei quasi 11 miliardi di persone di fine secolo avranno bisogno di nutrirsi, e inoltre – in linea, peraltro, con alcuni fra gli obiettivi dell’Agenda 2030 – avranno accesso, grazie alla progressiva riduzione dei tassi di povertà, a diete più caloriche e con un maggior apporto di prodotti animali.
Foto: Jo-Anne McArthur/Unsplash
Proprio questi, d’altro canto, producono già oggi circa l’80% di tutte le emissioni di gas serra imputabili al settore alimentare (che conta per il 26% delle emissioni globali annue). Molti studi mostrano come, al di là del miglioramento dell’efficienza produttiva, che avverrà progressivamente grazie all’adozione di nuove tecnologie, proprio la riduzione del consumo di carne e derivati animali potrebbe determinare un calo anche del 70% delle emissioni legate al settore agricolo.
Per comprendere effettivamente quali siano i “costi climatici” delle emissioni correlate all’allevamento, tuttavia, è necessario – sottolineano gli autori dello studio – analizzare nel dettaglio le emissioni dei singoli gas serra (anidride carbonica, protossido di azoto, metano), poiché essi non influiscono allo stesso modo sull’effetto serra dal punto di vista temporale, e dunque generano danni e costi economici che devono essere valutati separatamente. Accantonando, dunque, il modello di misurazione basato sulle unità “CO2 equivalenti”, i ricercatori propongono un sistema di analisi che valuti le esternalità economiche dovute alla produzione di cibi d’origine animale tenendo in considerazione il reale contributo al riscaldamento atmosferico dei singoli gas serra.
In uno scenario in cui si miri a rispettare gli obiettivi di contenimento dell’aumento di temperatura entro 1,5° o 2°C al 2100, sarà necessario intervenire riducendo le fonti di gas climalteranti, cioè la produzione industriale e la produzione zootecnica: in tal caso, continuare a produrre alimenti d’origine animale avrà un costo economico causato dalla riduzione della produzione industriale. Qualora, invece, non si voglia sacrificare né uno né l’altro dei due settori, a rimetterci sarà il clima, poiché le temperature continueranno a salire. In questo caso, si vedranno lievitare i costi sociali dei prodotti animali, cioè i danni alle società umane derivanti dall’avanzamento del riscaldamento globale.
Foto: Jo-Anne McArthur/Unsplash
In particolare, per quanto riguarda la produzione alimentare animale, la sfida più grande consiste nel ridurre le emissioni di metano, un gas che rimane in atmosfera per meno tempo, ma determina un effetto serra ben più potente della CO2, concentrato nei 30 anni successivi all’emissione. Questo lasso temporale breve è una variabile importante nella valutazione dei costi economici: a differenza delle emissioni di origine industriale, il cui effetto sul clima è visibile nel lungo periodo, le emissioni di metano provenienti dagli allevamenti generano conseguenze quasi immediate. Ciò significa che «le emissioni correlate alla dieta, al contrario delle emissioni industriali, danneggiano in primo luogo la generazione che le produce», avvertono i ricercatori.
Per raggiungere gli obiettivi globali fissati a Parigi nel 2015, dunque, non modificando le nostre abitudini alimentari sarebbe necessario tagliare le emissioni provenienti dalle attività industriali di più dell’80%: uno scenario del tutto irrealistico. Se gli attuali livelli di consumo rimanessero invariati, inoltre, il costo economico dei disastri climatici dovuti all’aumento delle emissioni ammonterebbe a circa 213 miliardi di dollari ogni anno (72 dollari pro capite per un americano medio che consumi di frequente prodotti animali). Simili proiezioni mostrano con evidenza come una trasformazione delle diete sia una necessità impellente, un intervento di mitigazione della crisi climatica non più procrastinabile.
Chiaramente, come sottolineano gli stessi autori nel discutere i risultati della ricerca, i dati ottenuti offrono un’approssimazione su scala globale, che non restituisce la complessità delle situazioni locali. Il consumo di prodotti di origine animale, come è noto, non è equamente distribuito: ancora una volta, sulle questioni climatiche si innesta un problema di giustizia distributiva. Inoltre, il calcolo dei costi economici degli allevamenti incentrato sulle emissioni di gas climalteranti coglie solo una parte del problema: la zootecnia «causa grandi pressioni sugli ecosistemi a causa dell’intensificazione dello sfruttamento dei terreni, dell’inquinamento di aria e acqua, della perdita di biodiversità e dell’esaurimento delle falde acquifere».
I 213 miliardi di dollari annui di costi climatici, dunque, sono solo una stima al ribasso dei costi reali – sociali e ambientali – delle nostre diete insostenibili. Non è necessario che diventiamo tutti vegani: è necessario, però, che tutti siamo consapevoli del prezzo nascosto delle nostre azioni, e che modifichiamo le nostre scelte di conseguenza.