Il tunnel di Abraham B. Yehoshua (Einaudi, 2019) è un romanzo con più piani di lettura. È il racconto di un punto di vista inusuale: quello di un ingegnere civile che costruisce strade (pochissimi ingegneri popolano la letteratura contemporanea e non, e men che meno civili). È la descrizione in presa diretta dell’avanzare della vecchiaia, che coglie il protagonista all’improvviso presentandosi sotto le mentite spoglie di una malattia terrorifica, che però Yehoshua racconta con dolcezza, ironia e senza troppo rammarico. Ed è inoltre una vicenda che si riassume citando un passo dell’autore, circa a due terzi del libro: “Traforare nel deserto una collinetta che potrebbe essere facilmente spianata è una fantasia […], e solo un ingegnere senescente e affetto da lieve demenza si azzarderebbe a cercare di convincere i rappresentanti del ministero della Difesa a finanziare un simile progetto”.
E ancora è una storia d’amore tra due vecchi coniugi; ovvero è il racconto del conflitto tra due popoli (israeliani e palestinesi) e di come le scelte pratiche, quelle per cui è necessario fare si rivelino le uniche attorno alle quali è possibile prendere una decisione. Non a caso Luria, “l’ingegnere senescente” coinvolto da un giovane collega nella costruzione di una strada nel deserto sbotta: “Senti, Assael, non sono venuto qui per occuparmi di esseri umani ma di strade, di biforcazioni e di incroci”. Ma è tutto meno che arido, il protagonista de Il tunnel, e sfata il mito che gli ingegneri siano delle specie di macchine.
“ Traforare nel deserto una collinetta che potrebbe facilmente spianata è una fantasia, e solo un ingegnere senescente e affetto da lieve demenza si azzarderebbe a cercare di convincere il ministero della Difesa a finanziare un simile progetto
Zvi Luria, israeliano, ha poco più di settant’anni, ed è in pensione da un po’ quando gli viene diagnosticata dal neurologo la demenza, la malattia dell'oblio. Il medico gli suggerisce quindi di tenersi attivo e, forse inaspettatamente, di far l’amore più spesso con la moglie, una pediatra di una decina d’anni più giovane di lui dalla quale Luria è, di fatto, inseparabile. Sarà proprio lei a trovargli un impiego, al fianco di un giovane collega, che gli permetterà di mettersi in gioco ancora, proprio quando pare essersi convinto che per lui sia iniziato un inarrestabile tanto quanto imprevedibile declino.
L’intera narrazione, ha raccontato l’autore nella sua tappa italiana di presentazione del libro, è però una grande metafora e infatti contiene un rimando continuo a storie che si situano fuori da esso. Simbolicamente dimenticare, secondo il romanziere, è quello di cui israeliani e palestinesi hanno bisogno per guardare una buona volta verso il futuro. Il culto della memoria, che per gli uni significa non scordare la Shoà e per gli altri tornare di continuo con il pensiero alle terre da cui si sono sentiti cacciati, li ingabbia in un presente senza via d’uscita. Ecco forse perché l’autore sceglie di far sorridere Luria della sua malattia, e lo induce a smorzare le paure della moglie. Approfittando di una febbre di lei va persino a tatuarsi il codice antifurto della macchina su un braccio, così da poterla usare in autonomia per raggiungere il collega nel deserto, a dispetto della memoria ballerina. Il particolare del tatuaggio, poi, inevitabilmente (e circolarmente) richiama altre sigle, altri numeri, altre vicissitudini. Ma ancora una volta il pensiero viene rovesciato: “Fare tatuaggi a persone come lei che devono ricordare cose che altrimenti dimenticherebbero è un piacere” spiega il tatuatore, “io non faccio tatuaggi di fiori o di uccelli, solo di nomi e di numeri”.
“ Fare tatuaggi a persone come lei che devono ricordare cose che altrimenti dimenticherebbero è un piacere
Non necessita di troppi simbolismi invece la battaglia combattuta dal giovane ingegnere dei lavori pubblici affinché la collina dove vive una famiglia di palestinesi non venga spianata, ma sia bypassata da un “tunnel segreto”: ci andrebbero di mezzo delle persone, in una sorta di nimby (not in my backyard) ma ben più complesso, perché il fenomeno si sovrappone a conflitti di natura religiosa, sociale, politica. A questo il vecchio serve al giovane: perché si faccia portavoce con la comunità di un’istanza di vita e non di distruzione, forte della sua esperienza che non perderà di smalto mai, malattia o meno; e viceversa il giovane serve al vecchio perché gli dia ancora un senso, rendendolo una volta in più utile.
Yehoshua, intervistato in merito, ha spiegato che le colline (nel romanzo, una, in particolare) rappresentano le identità: in un mondo globalizzato tutti temono di perdere la propria, di venire appiattiti (spianati appunto) in un unico grande stereotipo, e come soluzione immaginano, alla meglio, di anteporre la propria a quella altrui. Ecco a cosa servono i tunnel, quindi: a collegarle. A permettere che si uniscano ma senza fondersi del tutto. Questo pensiero fa il paio con l’idea che il romanziere ha da qualche anno per la soluzione del conflitto israelo-palestinese. Diversamente dal suo caro amico e collega scrittore Amos Oz venuto a mancare all’inizio del 2019 che sognava Gerusalemme capitale di due stati distinti, Yehoshua si schiera per lo stato unico. All’amico aveva però detto: “Se guarisci prometto che mi uniformerò alla tua visione”.
Yehoshua è infatti di fondo un romantico. Pur conservando la misura che sulla pagina lo contraddistingue, la sua ultima fatica è uno straziante canto d’amore: quello di Dina, la moglie pediatra, per Luria, l’ingegnere la cui mente si sta pian piano abbandonando all'oblio; e di Abraham Yehoshua per la moglie Ika, venuta a mancare mentre era a metà della stesura di questo romanzo. “Se infatti”, ha detto, “la stragrande maggioranza dei romanzi raccontano le crepe delle relazioni d’amore, io ho preso la decisione di difendere il matrimonio”. E forse, verrebbe da aggiungere, non solo quello.