SOCIETÀ

La crisi dell'acqua: quanti sono gli invasi in Italia

L’anno che si è appena concluso è stato uno dei più caldi di sempre. Le analisi preliminari dei dati NOAA lo inseriscono tra il quarto ed il sesto posto nella classifica degli anni più caldi (classifica che è capitanata dall’anno 2016). A livello globale si parla di un riscaldamento di circa tre decimi di grado al di sopra della media del trentennio 1991-2020 e circa a 1,2 °C in più rispetto al periodo preindustriale. A livello nazionale, guardando l’Italia, la situazione sembra essere ancora peggiore. Si parla infatti di un incremento di 1,3 °C rispetto al 1991-2020, e 2,2 °C rispetto al periodo preindustriale. Considerando inoltre che siamo ancora nella fase de La Niña, cioè quel fenomeno opposto a El Niño che dovrebbe essere associata ad anomalie più fresche nelle temperature medie globali, è comprensibile come il surriscaldamento sia già di portata più che preoccupante.

Se i dati poi non fossero abbastanza, già dalla scorsa estate ognuno di noi ha potuto sperimentare quanto la situazione climatica fosse anomala. La siccità è stata evidente ad occhio nudo e i dati non hanno fatto altro che confermarla. In Veneto, ad esempio, nel 2022 ci sono state precipitazioni piovose per 771 mm in media, contro una media di riferimento di 1100 mm. Significa 70 mm in meno del record precedente, detenuto dal 2015, l’anno più secco degli ultimi trenta.

Se il 2022 è stato un anno caldo, l’inizio del 2023 non ha fatto altro che confermare la tendenza. Anche in questo caso sarà utile aspettare i dati consolidati per poter avere una panoramica totale, ma è indubbio che alcune temperature anomale le abbiamo vissute. Oltre a ciò bisogna aggiungere anche che, secondo le stime del CIMA Research Foundation, a metà febbraio manca all’appello quasi metà della neve che siamo soliti avere. Un -53% della risorsa idrica nivale delle Alpi che non fa presagire nulla di buono per la prossima estate.

 

Piove poco, nevica pochissimo e questi purtroppo ad ora sono dei dati di fatto. Ma la pioggia che cade riusciamo a raccoglierla? Secondo una stima di ANBI e Coldiretti “sull'Italia cadono annualmente circa 300 miliardi di metri cubi di pioggia, ma ne tratteniamo solo l'11%”. C’è un piano, il “Piano Laghetti”, ideato proprio di ANBI e Coldiretti (e di cui abbiamo già lungamente parlato) che mira a realizzare 10 mila invasi medio-piccoli entro il 2030. 4.000 invasi dovrebbero essere “consortili”, saranno cioè costruiti dai consorzi di bonifica, mentre 6.000 invasi dovranno essere realizzati dalle aziende agricole. Il progetto, nato nel 2021, ha fatto nascere qualche dubbio e soprattutto alcuni ritardi. Ma, ad oggi, quanti sono gli invasi artificiali in Italia? Dobbiamo subito dividere in due diverse categorie, gli invasi artificiali denominati Grandi Dighe che sono di competenza statale sul territorio nazionale, e i piccoli invasi di competenza regionale.

Le prime, cioè le grandi dighe, secondo i dati rilasciati dal ministero delle infrastrutture e dei trasporti, in Italia sono 532 (o 528 a seconda che si guardi sul sito generale del Mit o nel sottosito dedicato della Direzione generale per le dighe e le infrastrutture idriche) con un totale di 11.800 milioni di metri cubi invasabili. Sono dislocate in tutto il territorio nazionale ed ogni regione ne ha almeno una.

La regione che ne ha numericamente di più è la Lombardia con 77, seguita da Piemonte e Sardegna che ne hanno entrambe 59.

Più della metà delle dighe italiane poi, precisamente il 58,1% (301 in totale), sono utilizzate per fornire energia idroelettrica. 69 delle 77 lombarde per l’appunto, hanno questa funzione. Il secondo utilizzo più diffuso è quello irriguo.

Fino ad ora abbiamo parlato delle grandi dighe, ma un aspetto importante e per nulla secondario della questione arriva anche dai piccoli invasi artificiali. L’abbiamo visto con il Piano Laghetti, questi possono essere creati anche dai consorzi o da privati. Ce ne sono molti, moltissimi, in Italia invece che sono gestiti direttamente dalle regioni. L’Ispra annualmente cerca di fare un censimento di tali piccole dighe. Nel 2020, ultimo anno di cui disponiamo i dati, i piccoli invasi artificiali censiti dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale erano 26.288 invasi, 242 in più rispetto allo scorso anno. La stima per il 2021 interessa 17 regioni e per 13 di esse si hanno anche le coordinate geografiche degli invasi. Il censimento quindi, non è così semplice, ma gli oltre 26mila piccoli invasi artificiali ci danno almeno una grandezza d’ordine su cui ragionare. Un primo tentativo di censimento satellitare era stato fatto anche nel 1998, anno in cui gli invasi censiti si erano fermati a 8.288.

Avere però un censimento preciso di quante sono le piccole dighe non è cosa di poco conto. È sicuramente importante saperlo per capire quanta acqua può essere invasata, ma lo è altrettanto anche per una questione di sicurezza. La quantità non è irrisoria e soprattutto l’aumento dei piccoli invasi negli ultimi anni è stato, se ci basiamo sempre sui dati Ispra, molto evidente. Nel 2017 poi, un’analisi del Comitato Italiano Grandi Dighe aveva messo in luce come solamente il 60% delle regioni è attualmente dotato di un apposito strumento normativo su queste opere. “In numerosi casi sono precedenti alle direttive nazionali, facendo riferimento ancora alle dighe con altezza inferiore a 10 m e un volume di invaso inferiore a 100.000 m3 - si legge nel report - ; in numerosi casi vengono escluse le opere di sbarramento al servizio di grandi derivazioni, al tempo di competenza nazionale. Si evidenzia inoltre una eterogeneità tra le varie normative regionali e si suggerisce di conseguenza la necessità di un allineamento generale delle singole norme regionali verso le direttive del regolamento nazionale”.

Insomma come messo in luce anche dall’Ispra “per le piccole dighe le regioni stanno procedendo, con tempi e modalità differenti, all’emanazione di leggi e norme per la classificazione degli invasi in categorie e per la definizione del rischio globale connesso ad esse”. Significa quindi che non tutte le regioni sono ad oggi pronte su questo campo. È importante saperlo perché c’è un chiaro metodo per determinare il rischio potenziale dei piccoli invasi, determinato dalla protezione civile. Ci sono tre fattori principali, uno ambientale, uno strutturale ed uno potenziale. Il primo, cioè quello ambientale, è valutabile in rapporto al rischio sismico, al rischio frane, al rischio di tracimazione, o al rischio legato alle modalità di esercizio (ciclicità di svuotamento). Il secondo, che viene definito “strutturale” è valutabile in rapporto allo stato di conservazione della struttura/sicurezza della struttura, alla funzionalità della tenuta, alla qualità della fondazione, alla funzionalità degli organi di scarico e all’affidabilità della conduzione. L’ultimo, cioè quello “potenziale”, è valutabile in rapporto alla densità di edificazione e presenza di insediamenti significativi. Anche alla luce di queste mancanze, è chiaro come sia importante avere un preciso catalogo delle piccole dighe a gestione regionale.

 

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