SOCIETÀ
La Danimarca socialdemocratica attua nuove e discutibili misure anti-immigrazione
Polizia danese al confine, foto di Ritzau Scanpix
Esseri umani trattati al pari di scorie, di rifiuti tossici da gettare in qualche angolo dall’altra parte del mondo, purché lontano, il più possibile. La Danimarca ha deciso, negli ultimi mesi, di applicare uno schema ben preciso nell’affrontare la questione dei migranti: spostare altrove il “problema” e disincentivare gli arrivi. Inanellando una serie di provvedimenti restrittivi, perfino punitivi, che rischiano di ritardare sempre più l’ipotesi di una soluzione condivisa a livello europeo. La prima mossa del governo danese, socialdemocratico sulla carta, con il sostegno dei liberali di Venstre, ma ossessionato a tal punto dal tema immigrazione (come la stragrande maggioranza dei danesi) da indicare come obiettivo prioritario la soglia dei “zero arrivi”, risale allo scorso giugno, quando ha approvato (70 favorevoli contro 24 contrari) una legge che consente il “trattamento esterno delle domande di asilo”. Tradotto in pratica: coloro che chiederanno asilo politico a Copenaghen saranno immediatamente trasferiti in un altro paese “partner”, al di fuori dell’Unione Europea, per tutto il periodo che gli uffici preposti impiegheranno per valutare se davvero quelle richieste siano fondate o meno. Una sorta di deportazione. Se la pratica avrà esito positivo, il richiedente potrà restare nello stato “di appoggio”, altrimenti scatterà l’espulsione verso il paese d’origine. Il messaggio è comunque chiarissimo: sul suolo danese non metteranno mai piede.
L’elenco dei paesi partner è ancora ufficioso: di certo c’è il Rwanda (diecimila km a sud di Copenaghen), con il quale è stato firmato un “memorandum d’intesa” che prevede un contributo di 21,6 milioni di corone danesi (quasi tre milioni di euro) per la realizzazione di un campo profughi gestito proprio in Rwanda dalle Nazioni Unite, per accogliere soprattutto rifugiati libici (qui un reportage del Daily Mail dello scorso luglio, che racconta di un campo profughi 40 miglia a sud di Kigali, all’esterno del quale sventolava una bandiera danese). Trattative analoghe sarebbero in corso con Etiopia, Egitto e Tunisia. Uno schema, quello degli “hub offshore”, che ha già suscitato l’interesse di diversi governi, come quello inglese, mentre quello australiano ha già creato centri di asilo offshore nelle isole di Nauru e Manus, quest’ultimo poi chiuso per sentenza della Corte Suprema della Papua Nuova Guinea (con l’Australia costretta a pagare 70 milioni di dollari di risarcimento alle persone detenute illegalmente).
«Speriamo che le persone smettano di venire qui»
Lo “schema” danese è chiarissimo e viene messo in pratica da diversi anni (nel 2018 il precedente governo aveva pensato perfino di confinare i detenuti sull’isola disabitata di Lindholm, una specie di Alcatraz scandinava: progetto poi cancellato “per i costi eccessivi”). Come ha spiegato Rasmus Stoklund, che per il governo socialdemocratico guidato dalla premier Mette Frederiksen ricopre il ruolo di portavoce delle questioni legate all’immigrazione e all’integrazione: «Se fai domanda di asilo in Danimarca, sai che verrai rimandato in un paese al di fuori dell'Europa, e quindi speriamo che le persone smettano di chiedere asilo in Danimarca», ha dichiarato alla tv danese DR. «Qui da noi – ha aggiunto – non sono i benvenuti». La misura, com’è naturale, ha sollevato più di qualche perplessità. Secondo l’Unhcr (l’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati) queste pratiche «minano i diritti di coloro che cercano sicurezza e protezione, li demonizzano, li puniscono e possono mettere a rischio le loro vite». Mentre l’Unione Europea alza il dito affermando che «portare i rifugiati fuori dall’Ue non è possibile in base alle norme esistenti nell'ambito del nuovo patto per la migrazione e l’asilo». Ma nessuna procedura d’infrazione risulta avviata nei confronti di Copenaghen. Tra il 2020 e la metà del 2021 la Danimarca ha revocato, o non rinnovato, il permesso di soggiorno a circa 400 rifugiati siriani, arrivando a sostenere quella che, anche secondo Amnesty International, è una palese menzogna: «La guerra civile in Siria è ormai alle fasi finale e Damasco è un luogo sicuro».
Lo “stratega” del governo danese è il giovane ministro per l’immigrazione e per l’integrazione, Mattias Tesfaye, figlio di un rifugiato etiope (di paradossi è piena la storia) e di una madre danese. Tesfaye sostiene che «non controllare l'immigrazione minerebbe la solidarietà nella società e rappresenterebbe un pericolo economico e culturale». Ha più volte sostenuto che la comunità musulmana è troppo spesso rappresentata da estremisti: «La Danimarca non ha bisogno di adattarsi all’Islam, è l’Islam che deve adattarsi alla Danimarca», slogan accolto con entusiasmo tra i partiti di destra. Una battaglia sposata, ovviamente, anche dalla premier Mette Frederiksen: «Dobbiamo essere sicuri che non arrivino troppe persone nel nostro Paese. In caso contrario la nostra società non potrebbe sopravvivere. Ed è già stata minacciata». Il suo obiettivo, dichiarato, è arrivare alla soglia zero: zero arrivi, zero domande d’asilo, zero accoglienza. Il numero di rifugiati in cerca di asilo in Danimarca è sceso costantemente negli ultimi anni (dalle oltre 11mila richieste nel 2015 si è passati alle 342 del primo semestre del 2021) e nonostante questi dati (o forse proprio per il “successo” della strategia) si continua a rendere la vita difficile e scomoda per gli immigrati, con leggi ad hoc. Come quella votata lo scorso settembre, per obbligare i migranti a lavorare almeno 37 ore la settimana se vogliono continuare a beneficiare dei sussidi statali. «Per troppi anni abbiamo reso un servizio a molte persone senza chiedere loro nulla», ha dichiarato la premier Frederiksen. «Potrebbe essere un lavoro in spiaggia, per ripulirle da mozziconi di sigaretta o rifiuti di plastica, o magari a svolgere un incarico all’interno di un’azienda», ha aggiunto il ministro del Lavoro, Peter Hummelgaard. «La cosa più importante per noi è che le persone escano dalle loro case». Destinatarie del provvedimento sono soprattutto donne. Secondo il governo, a oggi 6 donne su 10 provenienti da Africa, Medio Oriente e Turchia non partecipano al mercato del lavoro danese. La norma dev’essere ancora approvata dal Parlamento. Secondo le statistiche ufficiali, dei 5,8 milioni di danesi poco più di 600mila (l’11%) sono immigrati e di questi il 58% sono cittadini di un paese classificato come “non occidentale”.
Detenuti “stranieri” spediti in Kosovo
Ma c’è di più. Poco prima di Natale il governo danese ha annunciato di aver stretto un accordo con il Kosovo, per l’affitto di 300 celle della prigione di Gjilan, circa 50 km a sudest della capitale Pristina (2200 km da Copenaghen). In quel penitenziario saranno trasferiti detenuti “stranieri” già condannati (al termine della pena era prevista comunque l’espulsione) che attualmente risiedono nelle prigioni danesi. L’accordo, raggiunto dai ministri della Giustizia dei due paesi, avrà durata decennale e prevede il pagamento complessivo di 210 milioni di euro che andranno in gran parte a finanziare il rinnovamento del sistema giudiziario kosovaro, mentre 60 di quei milioni saranno destinati a progetti finalizzati alla produzione di energia rinnovabile. La “giustificazione” danese parla di carceri sovraffollate (i detenuti sono oggi circa 4mila, con un incremento del 19% registrato dal 2015) e dunque di “scelta obbligata”. Il ministro della giustizia danese, Nick Hekkerup, ha sostenuto di essere «fiducioso che l'accoglienza dei criminali in Kosovo sarà all’altezza degli standard internazionali sui diritti umani: abbiamo fatto il possibile per garantire che ciò rientri nelle regole. Verranno applicate le stesse identiche regole delle carceri in Danimarca». Anche se qualche differenza tra le carceri dei due paesi c’è, ed è piuttosto evidente. In Scandinavia vige ancora (almeno sulla carta) il rispetto dei diritti umani: celle non sovraffolate, pulite, disponibilità di biblioteche, computer, attrezzature sportive, laboratori. Mentre un rapporto del 2020 del Dipartimento di Stato americano sulle prigioni del Kosovo parla esplicitamente di maltrattamenti, di violenze tra prigionieri, di frequenti episodi di corruzione, oltre a cure mediche scadenti. Quanti saranno i detenuti spediti in Kosovo? Uno per cella? Improbabile, e per quella prigione sarebbe un’anomalia. Secondo Fatmira Haliti, del Kosovo Rehabilitation Center for Torture Victims (ong che si occupa di diritti umani), l’accordo «non risolverà il problema del sovraffollamento, ma lo trasferirà semplicemente da un’altra parte perché anche in Kosovo il sistema carcerario è al limite della saturazione». L’ultima dichiarazione del ministro della giustizia danese ha il sapore della beffa: «I detenuti espulsi potranno anche ricevere visite, anche se, ovviamente, sarà difficile». Anche questo accordo è in attesa di essere ratificato dai Parlamenti di entrambi i Paesi.
Tra le molte voci di dissenso che si sono alzate in questi mesi per protestare contro la politica adottata dal governo danese, forse la più limpida è quella di Charlotte Slente, segretaria generale del Danish Refugee Council: «Il governo della Danimarca non sta facendo nulla per affrontare il crescente bisogno globale di protezione», ha dichiarato Slente. Che in una recente intervista rilasciata alla rete Civicus ha precisato: «L’idea di esternalizzare l’asilo e la protezione dei rifugiati è irresponsabile e priva di solidarietà. C’è una forte discrepanza tra ciò che la Danimarca fa a livello internazionale e nazionale. Come assistenza allo sviluppo ha uno dei migliori sistemi al mondo: è basato sul rispetto dei diritti, sui bisogni, sul sostegno agli emarginati. Ma quando si tratta di diritti dei rifugiati, a livello nazionale, sembra muoversi nella direzione opposta. Un governo più concentrato sulla protezione delle frontiere piuttosto che sui diritti delle persone. Ma i rifugiati e gli esiliati devono sapere che ci sono persone e organizzazioni preoccupate per la loro situazione, che simpatizzano con loro e cercano di aiutarli in tutti i modi possibili». Il 13 dicembre scorso Inger Støjberg, ex ministra per l’Immigrazione e l’Integrazione (partito liberale), è stata condannata dal tribunale danese “Rigsretten” (Court of Impeachment) a due mesi di reclusione per aver separato volontariamente coppie di richiedenti asilo, in violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La Corte ha ritenuto che l'ex ministra avesse trascurato i suoi doveri ministeriali “intenzionalmente o per grave negligenza”, oltre ad aver fornito al Parlamento "informazioni errate o fuorvianti". Il 21 dicembre scorso, lo stesso Parlamento danese l’ha espulsa con 98 voti a favore e 18 contrari.