Se da un lato è ormai cosa nota che gli effetti del virus Sars-CoV-2 non sempre terminano con il tampone negativo di fine isolamento, dall’altro non sono ancora del tutto chiari gli strascichi della malattia nel breve e lungo termine non solo a livello fisico, ma anche neurologico e psichiatrico. A luglio 2020 abbiamo fatto il punto su quali danni potesse provocare il virus al cervello; due anni dopo sappiamo anche che i pazienti affetti da Covid-19 possono presentare, dopo la guarigione, sintomi depressivi in maniera significativamente maggiore rispetto ai soggetti sani e mostrare una ridotta connettività funzionale locale nella corteccia temporo-parietale.
Questo è quanto emerge dallo studio Altered brain regional homogeneity is associated with depressive symptoms in COVID-19, pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Affective Disorders, condotto da un team di ricercatori coordinato dal professor Fabio Sambataro del dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Padova. Lo abbiamo intervistato per capire quali comportamenti hanno osservato e come sono arrivati a questa conclusione.
Professore, lei di cosa si occupa?
Io sono uno psichiatra al Padua Neuroscience Center con la passione per le neuroscienze e mi sono sempre occupato di risonanza magnetica funzionale per lo studio delle malattie neuropsichiatriche. Questo mi ha portato negli Stati Uniti a studiare al National Institute of Health (NIH, il corrispondente del nostro Istituto Superiore di Sanità), dove ho sviluppato questa tecnica; sono poi tornato a Padova e tuttora continuiamo il nostro studio sulle malattie neuropsichiatriche con diverse collaborazioni tra Europa e Stati Uniti. Durante la pandemia ho coniugato l’interesse per i disturbi affettivi, che anche nel Covid iniziavano ad essere descritti, con la ricerca delle basi neurobiologiche tramite risonanza magnetica funzionale, così nel contesto di uno studio del dipartimento di Neuroscienze (sezione di Neurologia, Neuroradiologia, Otorinolarigoiatria e Psichiatria) e dipartimento di Medicina molecolare dell’Università di Padova e dalla unità di neuroradiologia dell’Azienda Ospedale-Università di Padova abbiamo indagato i correlati neurali funzionali in pazienti che erano guariti dalla malattia e la loro associazione con le manifestazioni psichiatriche riportate dai pazienti come la depressione, l’ansia e la fatica che all’inizio non si comprendevano.
Siete partiti dall’osservazione di un comportamento anomalo per indagare se fosse correlato al Covid-19?
Esattamente. Oltre alle note manifestazioni sistemiche, il Covid-19 può anche provocare sintomi neuropsichiatrici quali depressione, ansia, fatica mentale, disturbi del sonno e disturbi associati allo stress. Tali sintomi sono verosimilmente associati agli effetti a livello neuronale del virus o ai trattamenti messi in atto, ma possono anche derivare dai fattori psicosociali associati all’infezione del virus, come ad esempio il timore di ammalarsi o di infettare gli altri, cambiamenti nello stile di vita e isolamento sociale.
Nel passato c’erano già stati altri studi su una patologia abbastanza simile al Covid-19, la MERS (Middle East Respiratory Syndrome, sindrome respiratoria medio-orientale). È una patologia che è stata confinata al Medio Oriente e in cui si osservano alcune alterazioni simil-trombotiche, di flusso ematico cerebrale, che in qualche modo potevano avere una ricaduta neurologica ma anche in parte psichiatrica. Il Covid, in più, ha avuto anche la componente del lockdown che ha influito pesantemente.
Con la vostra ultima ricerca cosa avete scoperto?
Prima di entrare nel dettaglio della ricerca è fondamentale fare una premessa e spiegare il metodo che abbiamo utilizzato per svolgerla: la risonanza magnetica funzionale. È una metodica di tipo non invasivo che non usa radiazioni ionizzanti e pertanto meno impattante di una radiografia. È funzionale perché con un tempo pari a 2 secondi è possibile eseguire una scansione completa di tutto il cervello e questo ci permette di vedere nel tempo come varia il segnale di una singola regione del cervello; non necessita di mezzo di contrasto, si sfruttano solo le proprietà magnetiche del sangue ossigenato e le sue variazioni di flusso e di volume regionale per capire come varia la funzione di una regione nel tempo. Ciò che abbiamo fatto non è stato altro che misurare nel tempo le oscillazioni del segnale nelle varie regioni del cervello a riposo.
Per mettere in atto un comportamento, alcune regioni cerebrali funzionano in modo sincrono tra di loro e la misura che noi abbiamo studiato di questa omogeneità regionale ci ha permesso di valutare la connettività locale: questa misura dimostrava, nel caso in cui la connettività fosse diminuita o aumentata, un alterato funzionamento locale.
Nella nostra ricerca abbiamo esaminato 79 pazienti che avevano avuto il Covid con sintomi come febbre (60% del campione), tosse, fatica, dolori muscolari, mal di testa, distorta percezione di odori e sapori, dispnea, disturbi del movimento; dopo circa 130 giorni dalla costatazione dell’infezione siamo andati a vedere se fosse rimasta qualche “traccia” nel cervello. Nel caso di una semplice influenza non si dovrebbe osservare alcuna traccia postuma; nel caso del Covid, invece, abbiamo constatato – come da nostre ipotesi – che c’erano delle alterazioni della connettività regionale cerebrale. Voglio precisare che il nostro campione, rispetto ad altri, è relativamente più giovane e questo lo rende interessante perché ci permette di osservare la finestra della popolazione dai 35 ai 50 anni mentre in altri studi hanno valutato solo le variazioni strutturali e a partire dai 55 anni in su: anche se da un lato è una fetta di popolazione più colpita e con peggiori conseguenze, dall’altro gli effetti cerebrali possono essere influenzati dall’età.
Nel nostro campione di pazienti abbiamo valutato alcune caratteristiche dell’umore utilizzando scale molto semplici come il Patient Health Questionnaire-9 (PHQ-9, una scala sui sintomi depressivi a 9 domande), i sintomi ansiosi con la scala General Anxiety Disorder 7-item (GAD-7, a 7 domande) e la Modified Fatigue Impact Scale (MFI), finalizzata a valutare la componente della fatica, uno dei primi elementi che emergeva dalle diverse ricerche. Abbiamo osservato una depressione di grado lieve-moderato significativamente più alta rispetto a quella dei soggetti che non avevano avuto il Covid. Lo stesso per quanto riguarda la componente ansiosa. Abbiamo visto che i pazienti presentavano una diminuzione della connettività locale in un insieme di regioni, essenzialmente nella corteccia temporale (correlata ai comportamenti sociali) e parietale (correlata alla componente attenzionale). Al contrario, abbiamo riscontrato che la connettività nell’ippocampo risultava aumentata. L’ippocampo è una delle regioni più antiche del cervello, quella legata al sistema limbico e cioè alle emozioni; si “accende” in presenza di una reazione emotiva e normalmente poi dovrebbe spegnersi una volta che questa è passata. Una sua maggiore attivazione si associa a disturbi dell’umore e d’ansia.
A quel punto ci siamo chiesti quale fosse il legame tra le alterazioni della connettività e la depressione: abbiamo osservato come la diminuita connettività nella corteccia parietale e l’aumentata attività dell’ippocampo fossero associate a una maggiore gravità della depressione. Non abbiamo riscontrato alcuna alterazione morfometrica, quindi le alterazioni funzionali non erano secondarie a una variazione di volume del cervello o delle sue regioni.
Le alterazioni dell’attività cerebrale sono irreversibili o nel tempo è possibile tornare alla normalità?
Da un punto di vista clinico, i trattamenti antidepressivi sono efficaci. La classica terapia con farmaci inibitori della serotonina funziona abbastanza bene; questi farmaci, inoltre, hanno un profilo recettoriale molto ampio per cui colpiscono anche dei recettori responsabili della risposta immunitaria e alcuni enzimi responsabili della replicazione del virus. Quindi funzionano non solo sull’umore, ma anche sull’infiammazione e sul rischio di trombosi. Dopo 6 mesi di trattamento circa il 95% dei pazienti è migliorato: sebbene non fosse una remissione completa, è un dato confortante.
Ha qualche consiglio a livello preventivo per evitare questa alterazione dell’attività cerebrale e la conseguente depressione?
Distinguerei due diversi livelli di intervento. Un intervento di prevenzione secondaria con un monitoraggio post-infezione per evidenziare l’eventuale sviluppo di sintomi depressivi; in secondo luogo, è necessario intervenire terapeuticamente precocemente con psicoterapia ed eventualmente trattamenti farmacologici, se si parla di depressione clinicamente evidente e di grado almeno moderato.
Sicuramente è importante valutare anche lo stress peritraumatico (o post traumatico); qualche mese fa abbiamo pubblicato un articolo in cui valutiamo lo stress associato alla vaccinazione per il Covid e abbiamo osservato che anche la sola vaccinazione contribuisce ad aumentare lo stress che, a lungo termine, può sfociare in una depressione vera e propria. Abbiamo eseguito questo studio con l’aiuto dei militari responsabili di vaccinazioni e tamponi e abbiamo valutato 1.500 persone tramite la somministrazione di un modulo online che le persone compilavano in maniera anonima; si trattava di un test per valutare il COVID-19 Peritraumatic Distress Index (CDPI), cioè una scala dello stress peritraumatico che è stata riadattata al Sars-CoV-2. I risultati alla fine mostravano che lo stress è stato di grado moderato e sicuramente era più elevato per chi era risultato positivo al Covid rispetto ai familiari e ai caregiver.