Un fotogramma tratto da Black Mirror, una delle serie TV distopiche più di successo in questo periodo
L’ho sentito con le mie orecchie, più volte. Alcuni romanzieri «seri» e perfino alcuni lettori, di fronte alla recente ondata di libri e film cosiddetti «distopici», parafrasano scherzando la celebre frase di Goebbels (apocrifa, perché in realtà era un'espressione di Baldur von Schirach, il Reichsleiter della Hitler-Jugend): "Ormai, quando sento la parola distopia, metto mano alla pistola".
È vero: da qualche tempo le distopie sembrano intrufolarsi come virus nella gran parte delle storie che si raccontano al cinema, nelle serie televisive o nei romanzi, di fantascienza o meno. E inevitabilmente c’è chi, con mediocri risultati, approfitta della moda imperante oppure ne parla completamente a sproposito. Di qui, la reazione esasperata di molti. Tuttavia, più che mettere mano alla pistola, forse è meglio cercare di capire bene di cosa si tratti.
Già nell’Ottocento, le narrazioni distopiche nascono dai primi dubbi sul mito del progresso. Un mito tutto nostro, occidentale, che ha ben presto rivelato tutti i suoi limiti. Guardandosi intorno, infatti, è già da molto che non si scorge più nessuna traccia di quel tempo lineare e progressivo che dal passato avrebbe dovuto procedere inesorabilmente verso il domani, in una concatenazione integralmente ottimistica di eventi e volontà. Più che altro, voltandoci all’indietro, vediamo (come l’angelo della storia di Paul Klee e di Walter Benjamin) "un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le rovescia" ai nostri piedi.
Fine del mito del progresso, dunque. Ma oggi, nel primo scorcio del XXI secolo e con la globalizzazione imperante, nel presente eterno e appiattito del «tempo reale», quella fine si è trascinata dietro anche l’idea di futuro. Come ha scritto l’argentino Martín Caparrós, "ci troviamo in uno di quei momenti noiosi della storia in cui nessuno ha una buona idea su cosa aspettarsi dal futuro, e allora ci dedichiamo a temerlo. Il presente è sempre scontentezza garantita; mi piacerebbe allora sapere perché certi presenti producono futuri di speranza e altri futuri di terrore. Qualcuno potrebbe leggere la storia del mondo a partire da questa dicotomia: le epoche che aspettano il loro futuro, quelle che lo guardano con paura".
È proprio così. Se, negli anni Settanta del secolo scorso, come scriveva Bertolucci, "alla sera si andava a dormire sapendo che ci saremmo svegliati nel futuro", oggi guardare in avanti ci produce immancabilmente un timore diffuso e pervasivo. E, se ci giriamo intorno, non possiamo fare a meno di notare che la realtà sta assomigliando sempre più a una distopia. Emmanuel Carrère, autore tra gli altri suoi libri di una biografia di Philip K. Dick, ha di recente affermato che noi viviamo ormai nel mondo che Dick aveva immaginato, predicendo la scomparsa della realtà. Perciò, qualcuno sostiene che la distopia all’epoca di Trump e degli "alternative facts", dell’anti-intellettualismo diffuso, del ruolo dei social network come falso collante sociale che spinge invece alla solitudine e all’individualismo, dell’analfabetismo funzionale a livelli altissimi, non sia più un esercizio di speculazione, ma l’unico realismo possibile, il modo per continuare a immaginare un futuro. Si tratta, ovviamente, di un realismo con caratteristiche nuove: già Francis Bacon postulava l’esigenza "non di un realismo illustrativo, ma di un realismo che sia il risultato di una vera invenzione, di un modo veramente nuovo di intrappolare la realtà in qualcosa di assolutamente arbitrario". Per lo scrittore Fabio Deotto, il realismo tradizionale "ha bisogno di un presente inquadrabile, relativamente statico e dunque fotografabile. Oggi, un tentativo di fotografare la realtà contemporanea è destinato nella maggior parte dei casi a fallire: il presente è un concetto sempre più mutevole, impossibile da inquadrare in tempi utili, ogni fotografia che si tenti di scattare rischia di uscire dallo sviluppo già ingiallita". Perciò, "per inquadrare una dinamica, una realtà in divenire, è necessario mettersi in movimento, scegliere un punto d’osservazione più avanzato". E allora, neanche la vecchia distopia basta a rendere visibili quei lati della realtà che spesso rimangono in ombra, i punti ciechi che il realismo tradizionale non riesce a colmare.
In fondo, soprattutto le distopie catastrofiche possono avere una valenza esorcistica e forse perfino consolatoria; possono essere l’altra faccia della moneta, l’alter ego «apocalittico» dei romanzi «integrati». E infatti Margaret Atwood ne ha preso le distanze: "Tutto quello che accade nei miei romanzi non è solo possibile, potrebbe stare già accadendo oggi. Io preferisco parlare di speculative fiction". Fabio Deotto, invece, per i suoi stessi romanzi e per quelli di molti altri autori, italiani e stranieri, parla di «realismo aumentato»: un realismo che "non si picca di prevedere il futuro, quanto di rendere visibile quella parte di presente che il realismo tradizionale non è in grado di inquadrare nella sua complessità". Si tratta di spostare in avanti, ma non di molto, l’orizzonte, facendo «invecchiare» il presente secondo linee di forza già presenti, ma poco visibili. Si potrebbe, dunque, parlare di «presente invecchiato» o di «presente estremo», come preferisce Antonio Scurati.
Comunque si vogliano definire queste nuove tendenze, è certo che probabilmente sono tra le poche oggi in grado di aiutarci a «vedere» davvero la nostra sfuggentissima realtà. Le uniche che possano, per esempio, farci sfuggire alla «grande cecità» di cui parla Amitav Ghosh e che ci impedisce di guardare in faccia ciò che abbiamo davanti agli occhi e che forse trascende le nostre capacità di comprensione individuale: il problema dei problemi, il cambiamento climatico.
Fine.