L’Italia è un Paese con grosse disuguaglianze. Un’affermazione forte, che però non possiamo certo dire che sia una novità. L’ultima conferma arriva da un nuovo lavoro, pubblicato dall’Institute of Economics della Scuola Superiore Sant’Anna. Nel paper i ricercatori stimano la distribuzione del reddito nazionale netto italiano dal 2004 al 2015, utilizzando la metodologia dei Distributional National Accounts. Questa metodologia è stata introdotta da Piketty, Saez e Zucman nel 2018 in un lavoro sulle disuguaglianze negli Stati Uniti e, cercando di semplificare il focus del lavoro, prevede di unire dati di partenza reperiti dalle dichiarazioni dei redditi ad altre fonti.
La premessa quindi, che è stata seguita anche dai ricercatori italiani, è quella di ottenere le stime non solo partendo da un unico database, ma combinando diversi dataset. La prima fase, per quanto riguarda lo studio “italiano”, è stata quella di unire le dichiarazioni fiscali dell’Irpef, rilasciate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, con le indagini condotte dall’Istat, IT-Silc, correggendo così i pesi campionari. La seconda fase è stata quella di utilizzare le stime sulla distribuzione dei patrimoni in Italia realizzate da Acciari, Alvaredo e Morelli (AAM) per correggere il problema dell’eccessiva sotto-dichiarazione dei redditi da capitale presenti nelle indagini IT-Silc e SHIW (prodotta da Banca d’Italia). Mentre la terza ed ultima è stata quella di riscalare proporzionalmente ogni categoria di reddito per ottenere stime consistenti con i totali presenti nei Conti nazionali, a loro volta corretti per l’evasione. Come hanno dichiarato gli stessi autori a lavoce.info: “In questo modo abbiamo ottenuto i Distributional National Accounts, ovvero la distribuzione dell’intero reddito nazionale netto del Paese. Il quadro che emerge dalla nostra analisi è quello di un paese fortemente diseguale. Rispetto al lavoro di Blanchet, Chancel e Gethin (2019), la prima novità è che la concentrazione del reddito (Pre-tax National Income) al top della distribuzione risulta di 2-3 punti percentuali più alta. La seconda è che la disuguaglianza non è stabile come si pensava, ma è aumentata nel corso del tempo: le quote di reddito guadagnate dai più abbienti sono in crescita a partire dal 2008”.
Secondo gli autori la discrepanza di risultati è stata dovuta da due fattori diversi: il primo è la redistribuzione di ogni componente di reddito presente nei Conti nazionali, mentre il secondo è aver corretto la sotto-dichiarazione dei redditi finanziari e canoni di locazione immobiliare. Quest’ultimo passaggio è stato effettuato partendo dallo studio sulla distribuzione dei patrimoni realizzato in collaborazione tra Paolo Acciari, Facundo Alvaredo, e Salvatore Morelli. Proprio quest’ultimo poi, solo poche settimane fa, ha spiegato nel dettaglio a Domani, il quotidiano, come secondo lui ed i suoi due co-autori, circa i 50.000 adulti più ricchi d’Italia detengono circa il 10% della ricchezza complessiva del Paese. Tale quota poi, è raddoppiata rispetto alla metà degli anni 90.
Ma tornando al lavoro di Demetrio Guzzardi, Elisa Palagi, Andrea Roventini e Alessandro Santoro, vediamo come uno degli aspetti peculiari sia il fatto che gli autori abbiano ragionato non solo sui redditi familiari, ma anche su quelli individuali. L’importanza di questo aspetto è data dal fatto di potersi concentrare anche su quei redditi, che sono i più bassi, che è difficile raggiungere. Stiamo parlando ad esempio di giovani disoccupati, di pensionati che hanno la pensione minima oppure di persone “casalinghe”.
Analizzando questi dati sono emersi dei risultati chiari, che confermano anche lo studio AAM. Secondo le stime degli autori infatti, come loro stessi hanno scritto su lavoce.info, “a livello individuale, il top 0,1 per cento più ricco del paese, circa 50mila adulti, è passato dal detenere il 2,7 per cento del reddito nazionale nel 2008 al 4,2 per cento nel 2015, equivalente a un reddito medio di oltre un milione di euro annuo”.
Questo reddito poi, sembrerebbe derivare principalmente da attivi finanziari, canoni di locazione immobiliare, redditi da lavoro autonomo e compensi per ruoli in azienda come amministratori.
Cercando di riassumere lo studio quindi, potremmo dire che i ricchi diventano sempre più ricchi, anche a livello italiano e non solo mondiale. Ma se chi ha già molti soldi negli ultimi anni ha incrementato ulteriormente i suoi guadagni, i poveri diventano sempre più poveri? L’amara risposta è si, ed è anche questo il motivo per cui le disuguaglianze aumentano sempre di più.
L’avevamo visto già nel rapporto Caritas del 2020, quando si parlava di “normalizzazione” della povertà ed anche secondo le stime dell’Istat nel 2020 in Italia un milione di persone è entrato in povertà assoluta. Il calcolo Istat sulla povertà assoluta si basa su una soglia calcolata sul valore monetario, a prezzi correnti, del paniere di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia. Questo tarato in base all’età dei componenti, alla ripartizione geografica e alla tipologia del comune di residenza. Per fare un esempio concreto, utilizzando in questo caso i dati del paniere 2019, una famiglia di quattro componenti, in cui i genitori hanno circa 40 anni ed i due figli tra i 4 ed i 10, e che abita in un’area metropolitana del Nord Italia, avrebbe una soglia di povertà di 1.678,30 mensili. Se la stessa famiglia abitasse in un’area metropolitana del Centro o del Sud Italia la sua soglia sarebbe rispettivamente di 1.579,38 e 1.310,18.
Se la stessa famiglia identica vivesse in un comune con meno di 50mila abitanti, che sia Nord, Centro o Mezzogiorno avrebbe una soglia di povertà rispettivamente di 1.535,25, 1.431,37 e 1.222,75.
Ma tornando alla domanda iniziale vediamo come lo studio della Scuola Superiore Sant’Anna dimostri che nel 2004 il 50 per cento più povero del Paese deteneva poco meno del 16 per cento dell’intero reddito nazionale, mentre nel 2015 questa quota è scesa a poco più del 14 per cento. In termini concreti significa un reddito individuale medio inferiore ai 10mila euro l’anno.
Inoltre, come si legge su lavoce.info, “il 50 per cento più povero è stata la categoria maggiormente colpita non solo in termini relativi, ma anche assoluti. Infatti, mentre in Italia il reddito nazionale reale pro capite si è ridotto del 15 per cento tra il 2004 e il 2015, i meno abbienti hanno subito una perdita di circa il 30 per cento. Per il top 10 per cento e per la classe media le perdite sono state invece inferiori, rispettivamente del 20 e del 10 per cento”.
Le disuguaglianze poi, non sono uguali per tutte le categorie. A subirne le conseguenze maggiori infatti, sono stati i giovani tra i 18 ed i 35 anni che sono passati da una media di 8.000 euro l’anno nel 2004, a 4.500 euro nel 2015. Questi dati chiaramente riguardano solo il gruppo di persone inserite all’interno del 50% più povero. Insomma l’ulteriore conferma che arriva dallo studio dell’Institute of Economics della Scuola Superiore Sant’Anna ci dice ancora una volta che l’Italia in primis non è un Paese per giovani. La speranza è che l’uscita dalla pandemia ed i fondi PNRR riescano a colmare un gap che oramai è evidente da anni.
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