Il teatro La Fenice di Venezia. Foto: Enrico Bossan/Contrasto
La Fenice si è salvata di nuovo. Domenica 24 novembre, a 12 giorni dalla seconda peggiore acqua alta della storia, il teatro che dal 1792 presidia la vita musicale dei veneziani potrà inaugurare la stagione lirica con il Don Carlo verdiano diretto da Myung-Whun Chung. Mai come quest’anno, il debutto della rassegna simboleggia l’ordinaria emergenza in cui vive la città. Dopo l’inondazione del 12 novembre il cast era stato costretto a una fuga in terraferma: oltre duecento persone tra orchestra, coro, staff tecnico costrette a confluire per le prove a Treviso, al Teatro Del Monaco, nella speranza che l’impianto elettrico e il sistema antincendio della Fenice venissero ripristinati in tempo per rispettare il calendario prestabilito. Così è stato, e ancora una volta uno dei massimi rituali della cultura cittadina potrà compiersi come se niente fosse. È inevitabile tornare con la mente al dicembre di sedici anni fa, quando una settimana di celebrazioni musicali festeggiò la riapertura del teatro dopo il rogo del ’96, il secondo dopo quello ottocentesco.
In una città in cui nulla è normale, in cui la Basilica di San Marco va sott’acqua ogni settimana e dopo qualche giorno di collettive lamentazioni tutto torna nella precarietà consueta, la Fenice è un tassello troppo importante per soggiacere all’impantanamento urbano generale. È, certo, un elemento fondante della memoria culturale dei veneziani, ma anche (come molte altre sale in città, sopravvissute o perdute) il luogo di prima rappresentazione di opere fondamentali: Rossini, Bellini, Donizetti. Capolavori verdiani come Rigoletto e La Traviata.
E poi la Fenice recente, quella degli ultimi dieci anni, ha una peculiarità che in città la rende specialissima. Nel disastro generale delle fondazioni lirico-sinfoniche italiane, ibridi pubblici-privati che l’invadenza politica ha portato a situazioni debitorie pesantissime tanto da richiedere un commissario governativo per risanarle, La Fenice è uno dei pochissimi enti con i conti in ordine: sono otto anni che il bilancio è in pareggio, e il teatro presenta una situazione di inconsueta floridezza per gestione economica, spettatori e numero di rappresentazioni offerte. In Italia fanno meglio solo la Scala e l’Accademia di Santa Cecilia. È il modello intrapreso con il ciclo segnato dalla collaborazione tra Cristiano Chiarot, sovrintendente dal 2010 al 2017, e Fortunato Ortombina, direttore artistico nello stesso periodo e da due anni successore di Chiarot. Un duo con formazione non economica (Chiarot è un giornalista, Ortombina un musicologo) che è riuscito in una sfida che In Italia sembra proibitiva: gestire una grande istituzione culturale con criteri imprenditoriali, mantenendo un equilibrio tra qualità dell’offerta musicale e produttività degli esercizi.
La strategia si è basata su una scommessa: scongelare la struttura della stagione veneziana, inchiodata ai criteri tradizionali della “dittatura degli abbonati” con un numero limitato di produzioni e rappresentazioni coperto in gran parte dagli spettatori fidelizzati. La scelta è stata di moltiplicare progressivamente i titoli e le repliche, seguendo un duplice binario: da un lato le nuove produzioni, con l’alternanza di grandi classici e opere minori o da valorizzare; dall’altro la formazione di un repertorio, con la riproposizione periodica di opere già andate in scena ma capaci di riscuotere un gradimento costante nel tempo, per la popolarità dei titoli o la particolare qualità tecnico-registica dell’allestimento. In questo modo, la stagione veneziana è arrivata a numeri da record. Quella che si inaugura domenica comprende venti titoli, di cui dodici nuove produzioni e otto riprese, articolati in 150 rappresentazioni nell’arco di undici mesi: di fatto una “stagione permanente” che si dipana per un anno intero, con un’unica interruzione dai primi di luglio a metà agosto. Un’offerta così vasta e differenziata ha comportato anche un profondo cambiamento del pubblico della Fenice.
La stagione tradizionale era il rito di una élite di appassionati veneziani, d’età media elevata come la popolazione cittadina, in buona parte abbonati, che vivevano l’appuntamento mensile come un piacere certo raffinato, ma anche una delle molteplici occasioni sociali e culturali che una città ancora degna di questo nome offriva a chi poteva risiedervi senza sentirsi un eroe. Oggi la stagione della Fenice assomiglia molto di più, per struttura e frequentatori, a quelle tipiche delle grandi città europee. Il pubblico è fortemente aumentato, superando i 150mila spettatori annui, con un notevole incremento delle presenze occasionali: sono i visitatori di Venezia, soprattutto internazionali, attratti dal poter arricchire il loro soggiorno con un’esperienza musicale dal vivo nella patria del melodramma. Qualche purista storce il naso, sostiene che la “popolarizzazione” dell’offerta ha comportato un livello non sempre adeguato alla tradizione. Resta il fatto che la Fenice è un rarissimo caso di istituzione culturale veneziana (e italiana) capace di reggersi in buona parte sulle sue gambe, con una combinazione di incassi e, in misura minore, di introiti da sponsor privati che si avvicina alla metà del totale dei ricavi.
Un’isola di efficienza in un mare magnum di immobilismo, certo, una consolazione in una città dove sembra che tutto debba reggersi su quella tremenda miscela di contributi pubblici e consumi take away da turismo incontrollato che, insieme alla solidarietà di tante istituzioni e di privati stranieri, crea a Venezia l’illusione di una prosperità senza fine.
Ma quale destino aspetta la Fenice senza i veneziani? In un centro storico in cui la progressiva scomparsa dei residenti è un dato acquisito da decenni, è lecito immaginare che il futuro del Teatro dipenderà sempre più da chi ne determina il fatturato, ossia i turisti, una parte dei quali – è fisiologico – non è appassionata di musica, ma semplicemente curiosa. E la ritirata delle istituzioni pubbliche dal supporto alla cultura non potrà che accelerare questa scelta. La prospettiva sembra ancora lontana, ma il rischio di stagioni dominate da Carmen, Traviate o Barbieri stravisti e a nullo tasso di innovazione potrebbe pian piano concretizzarsi. Salvare Venezia vuol dire anche, quindi, evitare che la sua vita musicale diventi finzione, un unico polpettone avariato offerto ai suoi ospiti da imbonitori in costume settecentesco.