Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi, proposto allo Strega da Alessandro Barbero, è ambientato tra il 1943 e il 1945, gli anni della Repubblica di Salò. L’alleanza con la Germania stava crollando, l’accerchiamento degli Alleati era sempre più stretto, il Sud era ormai libero e il Piemonte si stava riempiendo di rivoluzionari e disertori.
“Era un brutto periodo”, così inizia il romanzo che ha ottenuto successo tra passaparola, premi vinti e un’obiettiva distanza da quel filone letterario italiano contemporaneo dominato da personaggi meditabondi.
Il protagonista, in questo caso, è un soldato della guardia nazionale ferroviaria di Asti e il suo principale problema, prima di ricevere l’incarico che sarà al centro della trama del romanzo, è un fortissimo mal di denti che dura da tre giorni e che non riesce a farsi passare. L’esergo shakespeariano all’inizio del romanzo, nessun filosofo seppe mai sopportare stoicamente nemmeno il più banale mal di denti, si accosta come una carezza al soldato semplice Magetti, che riceve l’assurdo incarico di disegnare in una settimana una mappa delle ferrovie messicane.
Magetti non sa che questa richiesta è il frutto di un'indagine bislacca svolta in un grigio palazzo di Berlino, in cui viene stabilito che in una cittadina del Messico è presente una fantomatica "arma risolutiva" di cui il Reich deve per forza appropriarsi.
“Signore, si tratta di un libro di fantasia, signore, la storia di cui parla non è reale, disse. Fantasia, signor Graf? E chi è lei per stabilire se una storia è una storia di fantasia oppure no?” Cesco è innamorato e dolorante, eppure continua a cercare, a domandare, a non darsi goffamente per vinto.
“È sempre stata una questione d’amore. Mancato, ignorato, mai bastante, travolgente, inadeguato. Non è forse così fin dalla notte dei tempi?”. La signorina Tilde, novella Dulcinea del Toboso nelle sembianze di una bibliotecaria amante della poesia, è l’amore non corrisposto e la compagna intermittente delle ricerche dell’antieroe Magetti: “I suoi occhi mi ricordavano certi boschi della Turingia, che io non avevo mai visto, non sapevo neppure dove fosse, la Turingia, e se ci fossero boschi.”
Un romanzo d’avventura è il sottotitolo di Ferrovie del Messico. E l’avventura, nella forma dello spostarsi continuamente, della lunga lista di personaggi rocamboleschi (soldati, dentisti, frenatori, bollitori di cadaveri, partigiani…), delle scene oltre ai limiti dell’assurdo, dei dialoghi grotteschi che si leggono con il ghigno stampato in faccia, è il mare in cui ci si immerge leggendo le oltre ottocento pagine del romanzo.
La trama è sincopata, densa di storie laterali che catturano l’attenzione e rendono merito alla capacità immaginifica dell’autore. Griffi gioca con le parole, le amministra con perizia, spazia attraverso una amplissima latitudine di prosa nei toni e nel timbro: a volte sembra addirittura che esageri. Oppure no, tutto è voluto e deve essere così come si presenta, perché la storia dell’uomo è complessa, tragica, non lineare: “Essere lirici e ironici è la sola cosa che ci protegge dalla disperazione assoluta”.
Questo è effettivamente il modo in cui Griffi mette in atto la sua ricetta: si tuffa, investe e aggira la disperazione, accarezza le debolezze, gioca con la guerra, deforma il pensiero irrazionale e rincorre la pazzia.
“ Essere lirici e ironici è la sola cosa che ci protegge dalla disperazione assoluta Gian Marco Griffi