In Dove non mi hai portata (Einaudi, 2023) Maria Grazia Calandrone torna alla (sua) storia, che già abbiamo conosciuta in Splendi come vita (Ponte alle Grazie, 2021) e iniziava così: “Sono figlia di Lucia, bruna Mamma biologica, suicida nelle acque del Tevere quando io avevo otto mesi e lei appariva da ventinove anni nel teatro umano. Sono figlia di Consolazione, bionda Madre elettiva, da me fragorosamente delusa”.
E se Splendi come vita era un inno, in prosa poetica, alla madre che l’ha scelta, Dove non mi hai portata è la ricostruzione dell’esistenza di quella madre che invece l’ha lasciata andare: un grido straziato per comprendere come l’amore possa diventare assenza, di più: come possa travestirsi da negazione.
In questa seconda fatica tradotta sulla pagina in sole sei settimane (e anch’essa, come la precedente, in dozzina al Premio Strega), la scrittrice trasforma la sua urgenza in una duplice indagine: quella dei "puri fatti", come li chiama (la vita dei suoi genitori biologici) e delle ragioni dell’anima.
Calandrone ha infatti interrogato archivi, persone, fotografie e documenti per comprendere il processo che ha condotto Lucia e Giuseppe, i suoi genitori, a lasciarla seduta su una coperta a Villa Borghese sperando che il mondo si sarebbe occupato di lei e andare a lasciarsi morire nelle acque del Fiume, del Tevere.
Perché l’hanno fatto?
L’interrogativo non ha risposta certa, ma sulla penna di Calandrone le possibilità diventano credibili verità, e tanto basta.
“Mamma, vieni con me” scrive. “Ti scollo dal segreto della realtà. Metto a disposizione della tua figura tutto quello che so. Ma, di tutta la scienza, conta solo che sei venuta a prendermi. E adesso io prendo te
e ti lascio libera, pure di abbandonarmi.
Penso questi pensieri nonostante le mie convinzioni, li penso anche se credo
che di Lucia rimanga solo polvere. Ma questo amore grande”.
Maria Grazia era la figlia di un amore adultero – sposata Lucia, sposato pure Giuseppe – e sua madre era stata penalmente perseguita, e perseguitata (nel 1965 le legge era ancora molto dura e discriminante), al punto che la vita della neonata famiglia era risultata impossibile. Niente soldi, niente lavoro, niente socialità. Ma questo è sufficiente per decidere di morire e di abbandonare una figlia di pochi mesi?
Nella lettera che Lucia spedisce all’Unità scrive: “Trovandomi in condizioni disperate, non ho scelto altro che la strada di lasciare mia figlia alla compassione di tutti, ed io con il io amico pagheremo con la vita ciò che abbiamo fatto, o indovinato o sbagliato” e queste parole sono la crasi di tutto.
Calandrone in un romanzo ibrido che mescola il reportage con il flusso di coscienza, la prosa e la poesia, il ragionamento deduttivo e lo slancio dell’anima, si cala nella mente di chi sta per compiere il folle e umano gesto e rende testimonianza dell’unicità di ogni singola vita e di come ogni nostro movimento sia gravido dei movimenti di molti altri prima e dopo di noi.
“L’amore di Lucia per me” scrive “a me in persona sicuramente e semplicemente destinato, sta nel non avermi portata con sé nella morte, sta nel dove non mi ha portata e nel suo avermi riconsegnata alla vita. Alla vita di tutti. Facendo, della mia vita, fin dalle sue origini, vita che torna a tutti” […] “Sopra tutte, splende e riluce un faro: la definitiva formula alchemica dantesca ‘intelletto d’amore’, quel sentire dell’intelligenza che permette a una contadina e un muratore di montare pezzo a pezzo un caso di cronaca, per salvare il salvabile, cioè me, vita lasciata vivere e che deve scampare allo sfacelo. Una volta e per sempre Dante ha trovato il nome dell’amore immortale dei mortali”.
“ Mamma, vieni con me. Ti scollo dal segreto della realtà. Metto a disposizione della tua figura tutto quello che so. Ma, di tutta la scienza, conta solo che sei venuta a prendermi. E adesso io prendo te e ti lascio libera, pure di abbandonarmi Maria Grazia Calandrone
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