SOCIETÀ
Effetto Brexit: la Gran Bretagna rischia la paralisi per la crisi dei trasporti (e della benzina)
Le code per rifornire le auto con la poca benzina presente nei distributori. Foto: Reuters
La Gran Bretagna sta rischiando non soltanto di rimanere a secco di benzina, ma di perdere (politicamente) la sua credibilità. Eppure il carburante c’è, almeno così giurano le compagnie petrolifere: nessuna carenza delle scorte, che a osservare quegli assembramenti scomposti, tutt’altro che British, con code di chilometri, che si stanno verificando alle pompe di benzina in ogni angolo del Regno, sembra davvero di assistere a un paradosso. Quel che invece manca sono i trasportatori, i conducenti delle cisterne che dalle compagnie (a partire dal gigante locale BP, British Petroleum, ma anche Shell, Exxon Mobile) lo dovrebbero trasportare ai singoli distributori. Che infatti chiudono, per mancanza di scorte, affiggendo i cartelli “out of fuel”. Un problema non di materia prima (anche se il prezzo sta salendo a ritmi vertiginosi, oltre gli 80 dollari al barile), ma di approvvigionamento: un problema che riguarda anche l’Europa e gli Stati Uniti. Di certo colpa della pandemia, che ha stravolto i ritmi e i tempi dell’autotrasporto: prima con una drastica diminuzione degli spostamenti, che peraltro ha portato alla perdita di migliaia di posti di lavoro e alla chiusura di migliaia di piccole aziende; poi con un’improvvisa accelerata seguita alle riaperture (e ora le imprese faticano a tenere il passo della domanda dei consumatori). Ma è soprattutto una conseguenza della Brexit, che ha allontanato dal Regno Unito gli autotrasportatori europei. La stima è che manchino circa centomila trasportatori, rispetto a quanto richiederebbe il mercato (e l’enorme mole di pratiche burocratiche oggi necessarie per entrare in Gran Bretagna non aiuta).
Evento prevedibile? Certamente sì.
Ma nessuno che a Londra sia stato in grado di prevedere, d’immaginare le conseguenze di un simile passo. The Telegraph lo definisce “un disastro umiliante”: «Il caos attuale è chiaramente collegato alla Brexit – scrive lo storico quotidiano londinese -. Non l’atto di lasciare l’Unione Europea in quanto tale, ma l’incapacità incompetente di prepararsi agli inevitabili sconvolgimenti che la Brexit avrebbe causato. E’ vero che l’attuale carenza di autotrasportatori è un fenomeno di portata mondiale. Ma qui è peggio che altrove, e questo perché durante gli oltre 45 anni di appartenenza all’UE, la Gran Bretagna è diventata sempre più dipendente dalla manodopera migrante a basso costo proveniente dall'Europa, soprattutto dall’Est. Inoltre, se lo stesso problema dovesse verificarsi oggi, ad esempio in Francia, quel paese avrebbe i camionisti di altre 26 nazioni a cui attingere per assicurarsi che non ci fossero carenze. La Gran Bretagna si è privata di questa valvola di sicurezza».
Bloccati scuolabus, medici di base e operatori sanitari
Dunque non un “evento naturale”, ma un bug della politica britannica. E così a finire sulla graticola è il governo presieduto da Boris Johnson. Che continua a minimizzare, a occuparsi dell’effetto, tralasciando la causa. A puntare il dito contro l’effetto-panico che ha scatenato la “fuel crisis”: «La situazione sta tornando alla normalità – sostiene il premier britannico -, mi auguro che le persone tornino a comportarsi in maniera normale, a fare il pieno in maniera normale». Ma il problema non è soltanto nelle code chilometriche ai distributori di benzina (e della tensione crescente tra automobilisti, che in più occasioni è degenerata in risse). E’ negli scuolabus fermi, nei medici di base che non riescono a raggiungere gli ambulatori, e come loro migliaia di lavoratori di ogni settore. E’ nella preoccupazione concreta dei taxisti (circa il 30% è rimasto fermo, secondo il segretario generale della Licensed Taxi Drivers Association). E’ negli scaffali dei supermercati che si stanno svuotando. E’, soprattutto, nei rifornimenti per gli ospedali, con il servizio sanitario britannico (NHS) che sta affrontando una delle sue crisi peggiori, già duramente provato da un colossale ritardo dovuto alle conseguenze della pandemia (secondo un report pubblicato il mese scorso da NHS England, 5,4 milioni di britannici erano ancora in attesa delle cure di routine). Mentre aumentano le richieste che ai lavoratori “essenziali” (medici, infermieri, insegnanti, personale carcerario e di assistenza) venga offerta una “corsia preferenziale” per il rifornimento di carburante. Secondo Nicola Sturgeon, primo ministro scozzese, «la Brexit è in gran parte responsabile della fragilità della catena di approvvigionamento. La fine della libertà di movimento e le restrizioni all’immigrazione stanno davvero rendendo difficile reclutare personale nella distribuzione, nel settore agricolo e nei servizi sanitari e sociali. Di tutto questo è responsabile il governo del Regno Unito». E l’apprensione aumenta, dal Galles all’Irlanda del Nord.
Esercito e visti temporanei per camionisti europei
Secondo la Petrol Retailers Association (PRA), che rappresenta oltre due terzi delle circa 8.000 stazioni di servizio presenti nel Regno Unito, la situazione è in miglioramento, anche se risulta che il 37% dei distributori ha esaurito le scorte di carburante. Il governo ha quindi allertato l’esercito di sua Maestà: 150 soldati, abilitati alla guida delle cisterne, sono in fase di addestramento per effettuare entro la fine della settimana (se fosse necessario) consegne nei piazzali più importanti. Ma ha anche annunciatoche rilascerà 5.000 visti temporanei, della durata di 3 mesi, a favore di camionisti stranieri, per evitare che l’emergenza possa mettere a repentaglio le consegne durante il periodo di Natale (il che, si presume, scatenerebbe ulteriori attacchi collettivi di “panico”). Una mossa che difficilmente basterà a risolvere l’emergenza. Ruby McGregor-Smith, presidente della Confindustria britannica, ha dichiarato: «E’ come gettare un ditale d’acqua su un falò». Il segretario generale dell'Unione nazionale dei trasportatori stradali in Romania, Radu Dinescu, interpellato dall’AP, ha dichiarato che i camionisti rumeni «preferiscono la stabilità dell’Unione Europea», e che comunque «lavorando in Germania o in Francia si guadagna di più». Come soluzione a lungo termine il governo britannico ha anche annunciato di aver inviato circa un milione di lettere a tutti coloro in possesso di una patente da guida per mezzi pesanti per incoraggiarli a rientrare nel settore.
La “crisi della benzina” è, più in generale, una crisi di manodopera per il Regno Unito. Anche l’agricoltura rischia il collasso per mancanza di “braccia” che raccolgano i prodotti della terra: con la chiusura delle frontiere con l’Europa non si trovano più lavoratori stagionali, al punto che diversi produttori hanno cominciato a regalare i loro raccolti di frutta e di verdura, che altrimenti sarebbero marciti nei campi. La presidente della National Farmers Union of England and Wales NFU), Minette Batters, ha inviato una lettera direttamente al premier Johnson chiedendo una deroga di 12 mesi per consentire alle imprese di reclutare personale fuori dal Regno Unito: «E’ una misura indispensabile per evitare che gli scaffali rimangano vuoti durante l’inverno e per evitare una nuova crisi di panico sotto Natale», ha scritto Batters.
La “bugia” elettorale di Boris Johnson
Per Johnson non sarà semplice venirne a capo, nonostante le sue incessanti rassicurazioni («la crisi si sta stabilizzando», è il mantra che continua a ripetere). Anzitutto perché il problema della logistica è strutturale ed è connesso al salario degli autotrasportatori, che negli ultimi anni si è via via abbassato, con carichi di lavoro tutt’altro che attraenti. Johnson, peraltro, vorrebbe che i camionisti fossero pagati di più: ma questa sorta di “bonus Brexit” si rifletterebbe sui costi aziendali, con inevitabili aumenti dei prezzi dei trasporti). E poi perché comincia a essere evidente il “peso” di Brexit sulle tasche dei contribuenti britannici, le conseguenze tangibili della chiusura delle frontiere, al di là delle tante promesse fatte prima del referendum. All’inizio di settembre il primo ministro ha presentato un piano per un massiccio aumento delle tasse su lavoratori e datori di lavoro (pari a 12 miliardi di sterline, il più consistente degli ultimi 70 anni) per portare più fondi al National Health Service, la sanità pubblica, e tentare così di rispondere alla crisi dovuta alla pandemia. «Abbiamo preso una decisione difficile ma responsabile», ha sostenuto il premier. Peccato che appena due anni fa, in campagna elettorale, Johnson avesse promesso che non avrebbe mai aumentato le tasse: «No new taxes» ripeteva, indicando i rivali laburisti come il partito del “tassa e spendi”. La decisione del primo ministro ha scatenato malumori, anche tra i deputati Tories. Il leader laburista Keir Starmer punta il dito sulla perdita di credibilità dei conservatori: «Questo aumento delle tasse infrange una promessa fatta dal primo ministro alle ultime elezioni. I Tories non potranno mai più affermare di essere il partito delle tasse basse». Mentre il mondo produttivo legge la mossa come un tradimento. Suren Thiru, responsabile Economia alla British Chambers of Commerce, boccia la decisione: «Le aziende si oppongono fermamente a un aumento dei contributi assicurativi nazionali. Le imprese sono state già martellate da diciotto mesi di restrizioni legate al Covid e hanno accumulato enormi oneri di debito». Il primo ministro ha provato a difendersi: «È vero, nel nostro programma c’era scritto che non avremmo fatto salire le tasse. Ma, due anni fa, nel programma elettorale di nessun partito c’era scritto che avremmo avuto la pandemia». Ma Johnson annaspa, alla ricerca di una soluzione che oggi non si vede.