Con l’avvento del pensiero simbolico astratto noi sapiens abbiamo imparato a far migrare le idee, o insieme a noi o piuttosto che i corpi. A quel tempo, decine di migliaia di anni fa, andavamo a piedi via terra, pochi già navigavano niente male. Si conosceva un poco l’incipit, non lo svolgimento del percorso e degli incontri, di eventuali arrivi, ritorni o ripartenze. La svolta successiva fu la stanzialità agricola, rinvenuta in modo significativo millenni dopo la fine dell’ultima glaciazione, in varie parti del pianeta meno di diecimila anni fa. Senza escludere casi indipendenti e adattamenti convergenti, la diffusione dell’agricoltura partì diacronicamente, diffondendosi dalle varie culle attraverso una migrazione di almeno tre forme: demica terrestre, soprattutto quando si creava sovrappopolazione e figli di contadini cominciarono ad allevare e coltivare in campi limitrofi allontanandosi sempre più, generazione dopo generazione; demica marina, quando altri figli usarono canoe e imbarcazioni verso coste e isole dove si insediarono nuovamente; eminentemente culturale, quando immigrati impararono in loco le tecniche prima di trasferirsi oppure emigrarono altrove agricoltori capaci di mostrare a chi trovavano i vantaggi dell’allevare e del coltivare.
L’uso egemone del termine “demo” e dell’aggettivo “demico” come modello migratorio di gruppi (popoli) meriterebbe un approfondimento storico e comparato (dal greco e con l’inglese), comunque molto si deve agli studi e ai saggi di Luca Luigi Cavalli Sforza, che fu anche decisivo oltre cinquant’anni fa per la nascita di una nuova disciplina scientifica, la genetica delle popolazioni, a partire dalla serie di primordiali espansioni demiche alla ricerca di maggior quantità di cibo, di nuovi strumenti per opere manifatturiere o di vie o mezzi di trasporto più efficienti. L'effetto fu sempre pure genetico, nel senso che ancora oggi si possono ricostruire le tracce stratificate di quelle onde di spostamento nella distribuzione non casuale dei geni portati dai discendenti delle popolazioni coinvolte nelle espansioni. Le migrazioni demiche smussarono le differenze nelle aree geografiche interessate all'espansione e generarono gradienti di variazione continui come quelli che ancora oggi si osservano, meticci. Le diffusioni demiche terrestri ebbero bisogno di gruppi umani non ristretti, avvennero comunque in aree a bassa densità di popolazione e hanno lasciato sempre significative proprie specifiche tracce genetiche. Le diffusioni demiche marine introdussero differenti tecnologie e mappe del migrare, fecero irrompere esperienze e storie di rotte e navi, grandi esploratori come pionieri e molti schiavi come carburante, contaminazioni e mescolanze in meno tempo a grandi distanze.
La diversità biologica della nostra specie si esprime così in una geografia di geni che riflette processi fisici e culturali di origine preistorica e storica. Con lo spostamento di corpi e cervelli, con la diffusione dei demi, il pensare simbolico astratto ha sempre più aggiunto e sottolineato la specificità ulteriore della diffusione dei memi, la propagazione di idee e comportamenti imitativi all’interno della stessa comunità e al di fuori di essa, in altre comunità più o meno lontane, tanto più quanto i sapiens hanno iniziato a lasciare segni della propria presenza, su oggetti mobili o strutture statiche, sugli stessi propri corpi; infine a scrivere. Anche l’uso del termine “meme” ha un’origine recente e dibattuta, per collegare cultura e genetica, memi e geni (questa volta dovuta all’inglese Richard Dawkins meno di un cinquantennio fa, quirichiamato per l’utilità odierna). Certo, ogni cultura umana conosce un’evoluzione genetica e una coevoluzione culturale, particolari meccanismi di replica, mutazione e selezione di memorie e credenze, pure mescolanze di fedi e narrazioni.
Interessante, dunque, appare studiare le divinità antropomorfe “del” viaggio, benevoli dèi di entrambi i generi, presenti fra innumerevoli popoli antichi. Per altro quasi tutti i popoli religiosi hanno miti fondativi migratori, fughe e salvezze, esodi e rifondazioni. Indispensabile è allora ragionare su come sono viaggiate le idee divine nella storia, un volume recente fa molti illuminanti esempi mediterranei: Corinne Bonnet e Laurent Bricault, Divinità in viaggio. Culti e miti in movimento nel Mediterraneo antico, traduzione a cura di Alessandro Cocorullo, Alberto Gavini e Giovanni Ingarao, Il Mulino Bologna, 2021 (orig. 2016). Presenti negli spazi assegnati loro dagli umani, gli dèi vengono invocati in base alle loro competenze, ma anche in funzione delle aspettative sociali, dei bisogni e desideri di uomini e donne. Visto che già da una decina di migliaia di anni ci siamo spostati molto migrando ovunque nel nostro piccolo grande mare, in tutte le direzioni, con innumerevoli creative rotte, considerare gli dèi in movimento nello spazio mediterraneo può contribuire alla riflessione generale sulla natura del divino nell’Antichità, fra unicità monoteista e pluralità politeista. Gli dèi, in effetti, sono al tempo stesso radicati in un territorio e legati a una comunità che istituisce e perpetua il loro culto; ma sono anche in perenne movimento, rapidi, ubiqui, persino inafferrabili, comunque più degli animali terreni. Eppure, gli dèi non escono indenni dai viaggi: cambiano e si adattano a nuovi contesti. Magari una volta vengono fatti prigionieri e inviati in esilio; un’altra sono portati in processione per tutta la città; un’altra “clonati” per favorire la fondazione di una colonia.
Ogni insediamento umano, più o meno originario, acclude la stabilizzazione di un dio o più dèi e della religiosità che vi si connette, cronache e miti del reciproco mettere radici. Poi i culti emigrano sulla scia di umani che trasferiscono la residenza individuale o collettiva, per molto tempo o per sempre: soldati, profeti, mercanti, ambasciatori, coloni, fedeli, viaggiatori, curiosi, deportati. Talvolta si attribuisce persino agli stessi dèi il desiderio di allargare il proprio spazio vitale, di conquistare nuovi territori. Fra rispetto delle tradizioni religiose di partenza e adattamenti locali successivi, le migrazioni degli dèi contribuiscono a diversificare il loro volto, a rimodellare le funzioni, a far sorgere nuovi appellativi e immagini. Nella storia dei popoli antichi è sempre avvenuto: come, con chi, con quali intenzioni e conseguenze va approfondito. Gli storici Corinne Bonnet (1959) e Laurent Bricault (1963), docenti di storia greca (lei) e romana (lui) all’Università Jean Jaures di Tolosa, diversi anni fa tennero un corso universitario per gli studenti della Laurea Magistrale che poi hanno trasformato in un volume molto interessante per tutti.
Gli autori raccontano viaggi e traslazioni divine così come sono narrati nelle diverse tipologie di fonti: opere storiografiche o geografiche, biografie, inni, iscrizioni, monete e reliquie, oggetti sacri, in un percorso comparativo dal II millennio a.C. ai primi secoli dell’era cristiana. Non seguono un ordine cronologico, sarebbe stato fittizio visto che tra i presunti fatti e i relativi miti esiste sempre un variabile problematico intervallo temporale. Non propongono alcuna lettura evoluzionistica o teleologica: gli dèi viaggiano in tutte le culture e in ogni tempo senza che una “provvidenza” intervenga per mettere loro “ordine”, più meticci di quel che crediamo. Numerose sono, comunque, le tematiche riguardanti la comprensione delle religioni antiche: monoteismo (che spesso elimina credenze precedenti) e politeismo (che spesso le aggiunge e moltiplica), i nomi e le immagini del dio singolare e plurale, l’impronta del potere, le strategie rituali, il dialogo interculturale, l’immaginario legato ai luoghi, l’attitudine nei riguardi della morte, la tensione fra locale e globale, talune cancellazioni e distruzioni inappellabili.
In ogni capitolo scopriamo diverse mobilità ed effetti della mobilità, libera o imposta: da Tiro alle Colonne d’Ercole, da Emesa a Roma, da Efeso a Marsiglia, da Atene a Cartagine, dall’Egitto a Delo alle tante isole; poi in Gallia e in Sicilia, in Mesopotamia e in Fenicia, e altrove; Melqart, Artemide, Cibele, Serapide, Ishtar, Iside, Apollo, Dioniso e tanti altri; e poi i tanti personalità storiche individuali che in vario modo riuscirono a tramandare luoghi e miti. Fra i dodici capitoli (ognuno con qualche foto di scavi, statue, oggetti) segnalo il settimo (ove più ricorre l’incredibile capacità di navigazione nel nostro mare) e l’undicesimo (ove più ricorrono i viaggi del popolo ebraico, esili diaspore deportazioni, con i rotoli della Torah). In fondo una punteggiata carta del Mediterraneo e gli indici: nomi, luoghi, argomenti. Scorrendo il volume risulta ancor più forte l’esigenza del dialogo interreligioso contemporaneo, le religioni possono arricchire la fiducia nei propri dogmi quando riconoscono l’esistenza delle altre. Lo sappiamo perché la civiltà umana è frutto antico e moderno di migrazioni e contaminazioni. Lo vediamo dai viaggi e dal magistero di papa Francesco. Lo vediamo anche dai recenti flussi immigratori in Italia: Maurizio Ambrosini, Paolo Naso e Claudio Paravati (a cura di), Il Dio dei migranti. Pluralismo, conflitto, integrazione, Il Mulino Bologna 2018.
Da qui a là, da là a qui, sempre, ovunque. Siamo mescolati, meticci. Chi studia le religioni sa che dentro spazi geografici (ecosistemi umani) si ricompongono sincronicamente antichi paesaggi e un mosaico diacronico di culture e spiritualità. Un sociologo (Ambrosini), uno scienziato politico (Naso) e un filosofo (Paravati) hanno raccolto e introdotto tre importanti ricerche recenti sugli adattamenti delle esperienze religiose ai contesti nuovi: gli iman nelle moschee italiane, gli ortodossi rumeni immigrati, i volti del cristianesimo tra immigrati milanesi. Non si tratta di riconoscere burocraticamente “Il Dio dei migranti”, non si possono mettere filtri religiosi sui migranti, eventualmente “si tratta di riconoscere Dio nei migranti” (prefazione di Alberto Melloni): “Sentire la voce dei Giona scaricati da un dag in forma di gommone che chiedono una conversione di giustizia che, nei sistemi politici democratici, può e deve diventare una politica di giustizia, di fraternità, di pace”. Accoglienti o non accoglienti, anche se vi sentite e credete oppure ci sentiamo e crediamo assolti, siete e siamo tutti coinvolti, contaminati.