In Italia in poco più di un anno i decessi di cui la malattia Covid-19 è stata in qualche modo responsabile hanno ormai raggiunto l’enorme triste numero di oltre 110.000 vittime. Tanti fanno statistiche, inevitabilmente, seppur a testa bassa: la distribuzione per regione, il rapporto con gli anni precedenti e con le altre cause di morte, le percentuali per genere e classi di età o per altre caratteristiche demografiche, l’andamento della curva rispetto all’evolvere delle misure di distanziamento. Fin dall’inizio, una delle specificazioni più frequenti riguarda altri aspetti della salute dei contagiati, dei sintomatici, dei ricoverati, di coloro che non ce l’hanno fatta, ovvero l’incidenza di alcune gravi patologie preesistenti all’arrivo del virus (cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità, ipertensione). Tutte le indagini a campione hanno sottolineato l’alto numero medio di altre patologie presenti, parziali concause del decesso, una media superiore a tre, rarissimi (intorno al tre per cento) coloro che non soffrivano già di altre malattie. Sono le persone anziane e quelle con patologie pregresse che sembrano essere più soggette a complicanze cliniche gravi rispetto all’infezione, in questi pazienti la possibilità di manifestare polmoniti e insufficienze respiratorie è maggiore rispetto ai soggetti (più) sani.
Fra le patologie molto a rischio viene sempre citato il diabete. Conosco tanti diabetici e tante diabetiche. Probabilmente ve ne è qualcuno o qualcuna insulinodipendente anche fra i lettori, non pochi fra i cittadini patavini e veneti, ancor più fra sardi e italiani. Si tratta di una malattia molto diversa dalle altre, ormai raramente da sola impone ospedalizzazione e provoca direttamente la morte. Secondo i dati pubblicati nel 2017 dalla World Diabetes Federation nel mondo sono 425 milioni le persone che vivono con il diabete (1 adulto su 11) e 212 milioni (1 adulto su 2) non sanno di averlo. In Italia, l’Istat stimò che nel 2016 le persone con diabete erano oltre 3 milioni e 250 mila, cioè circa il 5,4% dell’intera popolazione, ovvero 1 persona su 18; 1 persona su 6 se consideriamo gli anziani di 65 anni e oltre, su 10 persone con diabete, il 70% ha più di 65 anni e il 40% ha più di 75 anni. Già allora si disse che andava aggiunto almeno un milione di persone che non sapevano di averlo (secondo statistiche internazionali) e che altri 4 milioni erano le persone ad alto rischio di svilupparlo (secondo indagini sanitarie). Probabilmente, i diabetici di tipo 1 sono meno del dieci per cento dei malati riconosciuti o inconsapevoli o a rischio effettivo.
La diffusione della malattia metabolica è quasi raddoppiata in trent’anni, il trend 2000-2016 era di fortissima crescita e, infatti, nella giornata mondiale del diabete, il 14 novembre 2020 è stato valutato che in Italia ci sono attualmente almeno 4 milioni di diabetici: un anno fa il diabete di tipo 1 (detto anche insulino-dipendente o autoimmune) colpiva quasi cinquecento mila persone, mentre il diabete di tipo 2 (detto anche diabete mellito) oltre tre milioni e mezzo. Un'ampia quota di persone (forse un’ulteriore 30%) non saprebbe, in particolare, di avere il diabete di tipo 2, per cui si stima che il numero complessivo di pazienti diabetici italiani superi complessivamente i 5 milioni, con una maggiore incidenza nelle regioni meridionali (in Sardegna per gli insulinodipendenti, delicato primato consolidato nella storia e legato anche ad aspetti genetici. Il fatto è che tipo 1 e tipo 2 hanno la comune intestazione al diabete ma sono quasi due malattie diverse. Il diabete è una patologia per la quale nel sangue aumentano i livelli di glucosio, carboidrati e zuccheri non vengono insomma assimilati (misurati con la glicemia e, soprattutto, con l’emoglobina glicata che dà la media di un paio di mesi), girano indisturbati e “appesantiscono” il sangue con danni indiretti a molti organi fondamentali (cuore, reni, fegato, occhi, piedi) e a quasi tutti i sistemi funzionali. In sostanza, ciò dipende da un deficit nella quantità e, spesso, nell’efficacia biologica dell’insulina, l’ormone prodotto dal pancreas.
L’aumento del glucosio nel sangue (e spesso la comparsa nelle urine) è dunque legato al cattivo funzionamento dell’organo pancreas, in genere a una carente o deficiente (sincronizzata) produzione di insulina; se non curato può dar luogo a gravi complicazioni a carico dei reni, del sistema cardiovascolare, del sistema nervoso, della vista e del movimento, e predisporre inoltre alle forme infettive. Studiosi, specialisti, medici e malati ben conoscono, tuttavia, la complessità della malattia: indicare geneticamente il “diabete” significa riferirsi al contenitore di molteplici differenti sindromi cliniche, accomunate solo dal fatto che la glicemia è alta e ci si dovrebbe comunque muovere il più possibile. Le principali varietà sono due, appunto il tipo 1 (per salvarsi la vita occorre mettere in corpo dall’esterno tanta insulina proporzionata a tempi e modi dell’eventuale assunzione di carboidrati, più o meno periodica) e il tipo 2 (occorre curarlo prevalentemente in altro modo dall’insulina, con farmaci regolatori e altre terapie), ma ne esistono anche tipi “minori”: gestazionale, monogenico, secondario ad altra patologia (per esempio a malattie del pancreas) o a farmaci (per esempio il cortisone).
Tipo 1 e tipo 2 di diabete sono malattie diverse, nelle cause (anche genetiche) e nella possibilità di prevenzione (rara e incerta per 1, possibile e articolata per 2), nei fattori di rischio e nei sintomi, nelle stesse cure e nei decorsi; poi nelle complicanze lente e acute, nei disturbi metabolici e negli effetti di breve medio lungo periodo sul peso, sulla vita quotidiana e sulla salute; nei costi sociali e nell’evoluzione; pure nella percezione, quantità e qualità del sostegno utile relativo alle persone coinvolte a vario titolo affettivo. Si rischia più il coma e la morte immediata per la ipoglicemia che per la iperglicemia (che devasta lentamente). Probabilmente, ogni diabetico è individuo estremamente vulnerabile, ma non ogni diabetico ha davvero urgenza assoluta di prevenire la malattia Covid-19 rispetto ai concittadini (prima il personale e prima gli anziani, casomai la fretta vale per i diabetici sopra i settanta anni). Occorre affidarsi e attenersi alle regole generali e astratte, individuate dalla scienza e dalla medicina, non avere fretta, rispettare urgenze e priorità nel diritto/dovere di vaccinarsi strutturato dalle autorità sanitarie pubbliche (il Presidente della Repubblica Mattarella è stato un autorevole mirabile esempio).
Quel che è importante acquisire concettualmente riguarda ogni malattia: il benessere di una persona non dipende solo dal controllo di quella malattia. Ciò si traduce così, rispetto agli individui caratterizzati da troppo zucchero nel sangue: la glicemia dipende in parte da fattori fisici e psichici diversi dall’insulina, pesano l’attività fisica, le abitudini alimentari e la carica glicemica degli alimenti, interagiscono grandemente gli altri ormoni (come l’adrenalina), la salute mentale e l’insondabile carattere dei sogni, tanto altro. Per i pazienti diabetici il rischio di contrarre Covid-19 è lo stesso rispetto alla popolazione generale. Una volta contagiati, però, basandosi sulle informazioni derivate dall’esperienze nazionali e internazionali, oltre che su precedenti situazioni epidemiche (come SARS o H1N1), si ha l’evidenza che è molto probabile che fra loro la malattia abbia poi un decorso abbastanza grave (polmoniti o insufficienze respiratorie).
Fin dalla predisposizione e poi dall’avvio della campagna di vaccinazione si è discusso sull’ordine temporale della somministrazione, anche legata ai vari vaccini via via resisi disponibili; fra le priorità sempre si è fatto cenno ai soggetti estremamente vulnerabili con altre patologie; sempre è stato citato il malato diabetico. In quasi tre mesi si sono accumulate alcuni complicazioni e disfunzioni: un sopraggiunto ritardo nell’approvvigionamento dei vaccini in Europa, una forte disparità di efficienza fra le regioni italiane, una certa eccessiva autonomia regionale sui soggetti prioritari da vaccinare, il conseguente grave ritardo nella somministrazione della prima dose agli italiani con oltre 80 anni, alcuni rari episodi di privilegio di singoli o gruppi (non riferiti al personale sanitario e, successivamente, agli ospiti delle Rsa, al personale scolastico e universitario). Ora il governo ha dato obiettivi e scadenze più uniformi e vincolanti per la primavera in corso, sembra iniziata un’effettiva accelerazione (che speriamo riguardi innanzitutto i più anziani e poi finalmente anche le persone affette da gravi disabilità), che è la vera condizione per ipotizzare stagioni estiva e autunnale con emergenza sanitaria ridotta.
Un po’ in tutt’Italia si è cominciato anche a vaccinare i diabetici con le dosi a disposizione di Pfizer, non tutti ovviamente, a partire da quelli di tipo 1 e da quelli di tipo 2 che necessitano di almeno due altri farmaci o che hanno sviluppato complicanze.
Sono diabetico insulinodipendente da 32 anni, mi hanno d’improvviso chiamato al telefono sabato 27 marzo e lunedì 29 marzo 2021 mi sono vaccinato al fine di prevenire la malattia Covid-19 causata dal virus SARS-CoV-2 (al cui contagio finora casualmente non ero mai risultato positivo). Grazie all’esistenza del servizio sanitario pubblico, all’efficienza del centro ospedaliero di diabetologia della mia città, alla accurata tempestività delle strutture preposte all’organizzazione a al relativo garbato personale, ho ricevuto la prima dose, la seconda mi verrà inoculata il 19 aprile. Hanno iniziato in ordine alfabetico dai circa trecento diabetici di tipo 1 sui circa sei mila diabetici vulnerabili che dovranno essere presto vaccinati, fra gli oltre otto mila pazienti del servizio diabetologico del piccolo ambito territoriale di riferimento. Continuerò a portare la mascherina, a rispettare le cautele di distanziamento fisico e a seguire scrupolosamente le raccomandazioni istituzionali pubbliche. L’immunità potrà essere solo reciproca, comune e sociale.