Non bastano le denunce, ormai palesi, innegabili, per tentare di porre fine alle atrocità che da oltre quattro mesi stanno avvenendo nel Tigray, una regione nel nord dell’Etiopia aggredita contemporaneamente da due nazioni: la stessa Etiopia, con la complicità feroce della confinante Eritrea. Una guerra che proprio per la sproporzione delle forze in campo si è presto trasformata in sopraffazione sistematica dei civili, con ogni genere di violenza perpetrata ai danni della popolazione tigrina. I numeri che filtrano con estrema fatica (ma si tratta soltanto di stime basate su testimonianze frammentarie: l’intera regione è stata “chiusa” a qualsiasi forma di accesso e di comunicazione) fotografano l’orrore di un’operazione di “annientamento etnico”. Oltre 500mila morti, tra i 4 e i 5 milioni di feriti, 60mila profughi (i più fortunati, quelli che sono riusciti a fuggire in tempo) nel vicino Sudan. Incalcolabile il numero delle donne stuprate, come sfregio supremo, con dettagli raccapriccianti, da parte dei militari invasori. Interi villaggi distrutti, case incendiate, civili deportati chissà dove. Milioni di tigrini che non hanno più nulla, cibo, acqua, che non hanno medicine per curarsi.
. Una catastrofe umanitaria che l’Onu non riesce ad arginare, nonostante l’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, abbia recentemente denunciato «crimini di guerra e crimini contro l’umanità» nel Tigray e da qui l’urgenza di un'indagine indipendente sulle atrocità in corso nella regione etiope. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu non è nemmeno riuscito a far approvare una dichiarazione nella quale si invocava “la fine delle ostilità” chiedendo “l’accesso umanitario nella regione”: secondo Russia, Cina e India, che hanno posto il veto, la questione è “un affare interno” dell’Etiopia e dunque non meritevole di una presa di posizione a livello internazionale.
L’affare interno, del quale non si vede ancora una possibile fine, ha una precisa data d’inizio: 4 novembre 2020. A scatenare la guerra contro i ribelli è stato il Primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali (recente e già sbiadito vincitore di un premio Nobel per la pace probabilmente assegnato con qualche fretta di troppo), ufficialmente come reazione agli attacchi ad alcune basi dell’esercito federale da parte dei ribelli del TPLF (Fronte di Liberazione Nazionale Tigrino). In realtà sono molti a sospettare che l’attacco al Tigray fosse in cantiere da alcuni mesi, pianificato proprio per “estirpare” la dirigenza del TPLF, unico partito che, dopo aver guidato il Paese per circa trent’anni, con risultati economici più che lusinghieri (anche se con l’imposizione di gravi limitazioni dei diritti civili: libertà di stampa, di culto, di opposizione politica), si era messo di traverso al progetto di Abiy: superare definitivamente le divisioni etniche (in Etiopia convivono circa 80 etnie) e dar vita al Partito della Prosperità, un’unica formazione composta da tutti i partiti, dando così spazio (e potere) anche a chi in passato era stato escluso. Un passaggio che ha però comportato l’estromissione dei vertici del TPLF da tutti i ruoli governativi che ricoprivano. La reazione dei leader tigrini è stata drastica, rivendicando una sempre maggiore autonomia dal governo centrale e contestando aspramente la decisione del premier di rinviare (ufficialmente causa pandemia) le elezioni per il rinnovo delle istituzioni regionali, previste nel settembre 2020. Lì c’è stata la frattura definitiva: l’amministrazione regionale del Tigray ha fatto comunque svolgere le elezioni (stravinte col 98% dei voti dal Tigray People’s Liberation Front), nonostante il divieto esplicito della commissione elettorale federale di Addis Abeba, rimarcando uno strappo, un’indipendenza “di fatto”, e accusando il premier di utilizzare l’emergenza sanitaria come pretesto per prorogare illegittimamente il suo mandato. Un atteggiamento intollerabile per il governo, che a sua volta ha accusato i tigrini di autoritarismo e di ostacolare la transizione dal sistema basato sulle etnie a uno più “nazionale e democratico”. E di aver architettato, la scorsa estate, l’omicidio del cantante pop Hachalu Hundessa, 34 anni, attivista politico appartenente all’etnia Oromo, la stessa del premier Abiy (primo di quella etnia a ricoprire l’incarico), che aveva provocato sanguinose rivolte.
Violenze senza freni contro i civili
Due mesi di tensione crescente, in un’escalation di accuse reciproche. Poi, il 4 novembre, il via all’offensiva militare, decisa dal Primo ministro Abiy, contro la Polizia speciale e le milizie locali alleate al Tplf, con l’emissione di oltre 60 mandati di arresto a carico dei principali leader del partito tigrino. Ma la situazione è presto sfuggita al controllo, anche per la variegata composizione delle forze inviate a sostegno del governo di Addis Abeba: circa 80mila soldati federali, oltre a un numero imprecisato di milizie paramilitari di etnia Amhara (storici rivali dei tigrini), oltre a circa 12mila soldati dalla confinante Eritrea. La “complicità” tra Etiopia ed Eritrea merita un breve approfondimento, perché è decisiva per comprendere la situazione attuale: risale alla firma dell’accordo di pace del 2018 (che fruttò al premier etiope, ma non al presidente eritreo, il dittatore Isaias Afewerki, il premio Nobel): Abiy molto semplicemente rinunciò, senza imporre condizioni, a un pezzo di terra conteso più in linea di principio che per un reale valore strategico: il villaggio di Badme, proprio sulla linea di confine, assegnato all’Eritrea da una commissione internazionale, accordo mai rispettato dall’Etiopia, e nella fattispecie dai leader del Tigray che detenevano il potere. Che pur di non cedere hanno affrontato una guerra sanguinosa (oltre centomila morti) che ha avuto il suo acme tra il 1998 e il 2000, ma che è poi rimasta attiva a bassa intensità, in una sorta di stallo militare, fino al 2018, fino all’insediamento di Abiy Ahmed. La cessione “gratuita” di quel villaggio all’Eritrea, che ha messo fine all’ostilità tra i due paesi, è stato considerato dai tigrini un atto di tradimento.
Così il “pacifico riformatore” Abiy Ahmed e il despota Isaias Afewerki si sono trovati sulla stessa sponda e con un comune nemico da sconfiggere: i tigrini. Qualcosa non torna. Il TPFL, nelle prime fasi, ha provato anche a difendersi, a reagire agli attacchi, ma la sproporzione delle forze in campo (l’intera regione è stata bombardata dall’aviazione etiope) ha annientato qualsiasi possibile reazione (anche con armi italiane). Il 28 novembre il premier Abiy, dopo aver insediato a Macallè, capitale della regione del Tigray, una nuova amministrazione controllata dal Partito della Prosperità, ha dichiarato la fine dell’operazione militare. Dichiarazione di facciata: ancora a dicembre il governo prometteva 200mila dollari di ricompensa a chi forniva notizie sui dirigenti del TPFL fuggiti a nascondersi tra le montagne. A gennaio, sempre nel più totale black out informativo, è filtrata la notizia che 15 alti dirigenti tigrini erano stati uccisi: tra loro l’ex ministro degli esteri etiope, Seyoum Mesfin, per quasi vent’anni titolare del dicastero. È stata una caccia all’uomo. Ma ancor prima sono arrivati i sospetti, inizialmente negati con sdegno, che nei raid fossero coinvolti civili. Poi sono arrivati i dossier, le denunce delle ong, i reportage di giornalisti coraggiosi che erano riusciti a entrare nel Tigray. A quel punto l’orrore ha preso forma.
Crimini contro l’umanità
Scrive Amnesty International, nel suo primo rapporto pubblicato il 12 novembre 2020, dunque appena una settimana dopo l’avvio dell’intervento militare etiope. «Dopo aver analizzato fotografie, video e immagini dal satellite e aver parlato con testimoni oculari, Amnesty International è in grado di confermare che la notte tra il 9 e il 10 novembre c’è stato uno spaventoso massacro di civili nella città di Mai-Kadra, nello stato del Tigray. Numerose decine, ma probabilmente centinaia di civili, soprattutto lavoratori giornalieri, sono stati pugnalati o accoltellati a morte nel contesto dell’offensiva militare avviata il 4 novembre dal governo di Addis Abeba contro il Fronte popolare di liberazione del Tigray». Il 30 novembre il Primo ministro Abiy Ahmed ha mentito sostenendo che «le truppe federali non hanno ucciso un solo civile nella loro offensiva di quasi un mese». Il 26 febbraio scorso sempre Amnesty International ha diffuso un nuovo rapporto, poi confermato anche da Human Right Watch, nel quale si punta il dito sulle responsabilità delle truppe eritree: «Tra il 28 e il 29 novembre 2020 le truppe dell’Eritrea presenti nello stato etiopico del Tigray hanno sistematicamente ucciso centinaia di civili inermi nella città di Axum, aprendo il fuoco nelle strade e massacrando persone casa per casa. Tutti i testimoni hanno riferito di esecuzioni extragiudiziali, bombardamenti indiscriminati e saccheggi di massa. Il massacro è avvenuto poco prima della celebrazione annuale presso Santa Maria di Sion, una festa dei cristiani ortodossi etiopici che si svolge il 30 novembre, evento che richiama ogni anno molti pellegrini e turisti nella città santa di Axum». In una nota a margine del rapporto (qui la versione integrale), Deprose Muchena, direttore di Amnesty International per l’Africa orientale e meridionale, ha commentato: «Le prove sono schiaccianti e conducono a una conclusione tremenda: i soldati eritrei ed etiopici hanno commesso molteplici crimini di guerra nell’offensiva per assumere il controllo di Axum. Oltre a questo, le truppe eritree si sono rese responsabili di una carneficina sistematica di civili, uccisi a centinaia a sangue freddo, in ciò che potrebbe costituire un crimine contro l’umanità». Il ministro dell'Informazione dell'Eritrea, Yemane Gebremeskel, ha dichiarato, come riporta l’Associated Press, che il suo paese «è indignato e respinge categoricamente le accuse assurde» nel rapporto di Amnesty.
E le atrocità sono ancora in corso, soprattutto nelle zone più rurali (e meno controllate) della regione. Una delle ultime testimonianze dirette è riportata dal magazine statunitense Foreign Policy: lo scorso 1 marzo il ricercatore Mulugeta Gebrehiwot ha raccontato come le truppe eritree avevano raso al suolo villaggi, abbattuto frutteti, distrutto sistemi di irrigazione e massacrato dozzine di persone, dai bambini piccoli ai nonni, nella città di Samre e nei villaggi di Gijet, Adeba e Tseada Sare. I militari etiopi hanno lasciato fare. E purtroppo non è tutto. Ci sono le segnalazioni, a centinaia, di stupri di massa commessi dai soldati ai danni delle donne tigrine. Come denunciato alla fine di gennaioda Pramila Patten, rappresentante speciale delle Nazioni Unite sulla violenza sessuale nei conflitti. E come ha confermato perfino il ministro etiope Filsan Abdullahi Ahmed, in un tweet pubblicato lo scorso febbraio («Senza dubbio degli stupri sono stati commessi durante il recente conflitto nella regione del Tigray, in Etiopia»), ma senza indicare i responsabili. Il presidente del Tigray People's Liberation Front, Debretsion Gebremichael, raggiunto dalla Cnn nel suo nascondiglio, ha accusato il governo etiope e i suoi alleati eritrei di genocidio e altri crimini contro l’umanità, invitando il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ad aumentare la pressione contro le "forze invasori».
Secondo un rapporto interno del governo degli Stati Uniti, pubblicato dal New York Times, «funzionari etiopi e combattenti delle milizie alleate stanno conducendo una campagna sistematica di pulizia etnica nel Tigray». Nel rapporto si parla di «uso organizzato della forza e dell’intimidazione», di «villaggi deserti e case saccheggiate». La circolazione delle notizie sta aumentando la pressione internazionale, al punto che il governo di Addis Abeba ha concesso alcuni accessi alla regione del Tigray (ultima quella dell’ambasciatrice degli Stati Uniti in Etiopia, Geeta Pasi). La settimana scorsa il segretario di Stato americano, Antony Blinken, aveva sollecitato l’avvio di un'indagine internazionale sui presunti crimini contro l’umanità commessi nella regione. Il governo dell’Etiopia ha ribadito la scorsa settimana il suo "pieno impegno" a intraprendere indagini approfondite sui presunti abusi e crimini commessi nel Tigray, al fine di «assicurare i responsabili alla giustizia». Nel frattempo però dilaga l’emergenza umanitaria. Questa la testimonianza di Stephen Cornish, direttore generale di Medici Senza Frontiere-Svizzera, che è riuscito a entrare nel Tigray: «Centinaia di migliaia di persone sono state sfollate con la forza e decine di migliaia di loro sono ancora in aree dove non c'è accesso all'assistenza. Linee elettriche, linee d'acqua, linee di comunicazione sono state tagliate. Il sistema sanitario stesso è crollato. Molte cliniche che abbiamo visitato sono state saccheggiate o distrutte. Alcuni sono stati rilevati da medici armati e ora servono i loro pazienti, ma non la popolazione civile. Ci stiamo rapidamente avvicinando a una crisi umanitaria molto, molto grave che colpisce centinaia di migliaia di persone, sia all'interno dell'Etiopia che i 60.000 rifugiati che hanno avuto la fortuna di fuggire in Sudan».
Un futuro difficile da immaginare
Difficile stabilire cosa accadrà ora. Ma l’aumento dell’attenzione internazionale potrebbe spingere i soldati eritrei a rientrare nei loro confini, consentendo così alla macchina dei soccorsi internazionali di mettersi in moto con efficacia, bypassando i veti che paralizzano l’Onu. L’attenzione però deve restare alta, come avverte Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International: «Il "post-conflitto", sempre che di un periodo successivo si possa già parlare, rischia di essere doloroso e incerto se non si risolverà la gravissima crisi umanitaria in corso, se gli sfollati non potranno tornare alle loro case in condizioni di sicurezza e, soprattutto, se non vi sarà giustizia in particolare per lo spaventoso massacro di fine novembre che, come noto, chiama in causa anche le forze armate dell’Eritrea».
In Etiopia nuove elezioni nazionali sono in programma per il prossimo 5 giugno, ma non è detto (anzi, è improbabile) che possano svolgersi, visto il livello di scontro nel paese, peraltro in piena pandemia. E in parallelo alla guerra civile c’è da affrontare la questione GERD (Grand Ethiopian Renaissance Dam), la gigantesca centrale idroelettrica costruita con fondi cinesi sul Nilo Azzurro che potrebbe consentire all’Etiopia di diventare principale fornitore del continente, ma che tante tensioni sta provocando da anni con Egitto e Sudan, che temono una diminuzione della portata del Nilo (e dunque siccità). Falliti i tentativi di mediazione internazionale, i due paesi (che lo scorso autunno hanno condotto esercitazioni militari congiunte) sperano che la guerra civile stia fiaccando l’immagine e l’autorevolezza del premier etiope. A luglio l’Etiopia ha programmato una seconda fase di riempimento del bacino idrico. Il Sudan ha già dichiarato che considererà l’operazione come “una minaccia alla sua sicurezza”. I prossimi mesi dovranno portare risposte a questioni di straordinaria importanza che restano ancora aperte: se il massacro del Tigray avrà davvero fine, se i soldati eritrei rientreranno nei loro confini o se ci saranno ulteriori rivendicazioni di terre, se il TPLF riuscirà a riorganizzarsi e a respingere gli attacchi, che fine faranno i tigrini superstiti. E che ruolo assumerà, anche a livello internazionale, il governo di Addis Abeba. Ma il futuro di Abiy Ahmed resta assai incerto: il premier etiope potrebbe presto diventare il primo premio Nobel ad affrontare un processo alla Corte penale internazionale per crimini di guerra.