SOCIETÀ

Femminicidi a processo: stereotipi e pregiudizi

La rappresentazione del femminicidio all'interno del discorso giudiziario determina anche il modo in cui questo tipo di crimine viene raccontato dai mezzi di comunicazione e influenza quindi l'opinione pubblica su temi come la violenza di genere e il rapporto tra uomo e donna. Eppure, le narrazioni giudiziarie dei femminicidi sono spesso contaminate da stereotipi e pregiudizi. Questo è quanto viene riportato nel volume Femminicidi a processo: Dati, stereotipi e narrazioni della violenza di genere, pubblicato da Meltemi editore. Si tratta del frutto di un lavoro complesso e stratificato, il cui obiettivo era quello di studiare le rappresentazioni sociali della violenza di genere nel nostro paese attraverso un'indagine empirica di 370 casi di femminicidio risalenti al periodo compreso tra il 2010 e il 2016.

Il volume indaga i diversi modi in cui vengono raccontati i femminicidi e la violenza di genere nel corso dei procedimenti giudiziari e i fattori che ne influenzano gli esiti, tra cui il sentire comune e i “saperi esperti”, ovvero la lettura della violenza da parte di psicologi, operatori nei centri di assistenza, forze dell'ordine e medici legali, il cui parere può condizionare l'andamento del processo.

L'indagine riportata in Femminicidi a processo è stata condotta da alcuni docenti e ricercatori dell'università di Palermo coordinati da Alessandra Dino, professoressa di sociologia giuridica e della devianza. La loro analisi non pretende di essere esaustiva, ma intende offrire, piuttosto, uno spaccato locale di un fenomeno in evoluzione che lascia profonde ferite anche in chi si occupa di studiarlo. Non potrebbero spiegarlo meglio le parole della professoressa Dino al termine dell'introduzione del libro.

Da parte di chi scrive, nonostante i tentativi di distanziamento imposti dalla ricerca, sono profondi il turbamento e la partecipazione al dolore delle tante donne incontrate nelle sentenze e nei racconti degli intervistati, insieme all’orrore suscitato dalla “insensatezza” di una violenza spropositata e subdola che, ancora oggi, risulta difficile estirpare”.

Alla professoressa Dino abbiamo chiesto di illustrarci gli aspetti più significativi di questa analisi e del lavoro svolto per portarla a termine, a partire proprio dai criteri secondo i quali sono state selezionate le 370 sentenze giudiziarie prese in esame, dal momento che, come viene ricordato più volte nel libro, in Italia non esiste il reato di femminicidio.

L'intervista completa ad Alessandra Dino. Montaggio di Barbara Paknazar

“La selezione delle sentenze è stata effettivamente un passaggio molto delicato”, racconta la professoressa Dino. Nella letteratura sul tema, infatti, non esiste una definizione univoca di femminicidio. In alcuni casi, si usa questa parola riprendendo il termine femicide, coniato da Jill Radford e Diana Russell, con riferimento all'uccisione delle donne in quanto donne. In altri casi, rifacendosi alla tradizione latino americana, in particolare a Marcela Lagarde, si fa riferimento alla violenza commessa nei confronti delle donne. Alcuni enti come Eures e Istat, invece, considerano il femminicidio come l'uccisione della donna all'interno di una relazione intima, commessa quindi da parte del partner.

Noi abbiamo voluto recuperare una definizione piuttosto ampia di questo termine mettendo insieme la componente di genere – quindi l'uccisione di una donna in quanto donna – motivata però da una relazione di potere e quindi da una volontà di sottomissione da parte dell'uomo.
Per questo, abbiamo selezionato, in un primo momento, tutti i casi di omicidio volontario che avessero come obiettivo le donne, escludendo quelli in cui l'uccisione era occasionale: ad esempio quella di una donna colpita durante una rapina in banca. Abbiamo voluto includere, invece, i casi di una prostituta uccisa e di una donna di mafia costretta a suicidarsi con l'acido, che secondo la nostra opinione sono da ricondurre alla dimensione del femminicidio.

È importante che l'uso di questo termine si diffonda perché configura un fenomeno che ha una caratterizzazione diversa da quella dell'omicidio. Da un punto di vista quantitativo, non c'è stato un aumento del numero di donne uccise. Il problema è piuttosto relativo al modo in cui le donne vengono assassinate e da chi. I modi sono caratterizzati da una grande efferatezza: si riscontrano dei veri e propri ammazzamenti di donne che vengono prima strangolate e poi accoltellate, oppure colpite molte volte anche dopo la morte. In questi casi è chiaro che da parte dell'assassino c'è stata una volontà di distruzione, con il tentativo di annullare anche l'identità femminile della vittima, colpendole il viso e gli arti. Un dato interessante, quindi, riguarda proprio la specificità di questi omicidi. Un altro dato interessante è che nella maggior parte dei casi, queste uccisioni sono commesse all'interno di relazioni sentimentali o familiari”.

Nel libro, infatti, viene riportata una distinzione molto importante: quella che classifica il femminicidio in base al rapporto che c'era tra la vittima e l'assassino. Come riporta l'analisi quantitativa dei dati raccolti dalle 370 sentenze, “distinti in base alla relazione vittima-autore ci sono femminicidi dentro relazioni sentimentali, femminicidi dentro relazioni familiari, e femminicidi dentro relazioni amicali, di conoscenza e infine fra estranei. Bene, circa sette femminicidi su dieci sono opera di persone legate intimamente o familiarmente alla vittima”.

Studiare le rappresentazioni sociali del femmincidio nel discorso giudiziario è fondamentale perché, come afferma la professoressa Dino, “le sentenze sono una fonte anche per i mezzi di comunicazione e quindi veicolano un determinato tipo di immagine della donna e della violenza agita all'interno del rapporto di coppia, oltre che del rapporto tra i generi, che poi finisce per orientare la pubblica opinione. E purtroppo ci siamo accorti che non mancano gli stereotipi in questo senso”.

Centrale è il potere della parola che, nel nominare, descrive e fa essere realtà parallele sulle quali, se non ci si intende sui termini usati, è difficile intendersi sulle politiche di intervento Femminicidi a processo, Alessandra Dino, Meltemi 2021

Dall'analisi riportata in Femminicidi a processo emerge che nelle narrazioni giudiziarie dei casi di femminicidio si trovano spesso delle contaminazioni da parte non solo dei “saperi esperti”, ma anche del “sentire comune”, nel momento in cui vengono riportate, ad esempio, le motivazioni dell'assassino, ma anche la descrizione della vittima.

Il lavoro si concentra molto sull'analisi delle motivazioni degli assassini, rinvenibili negli atti giudiziari, e che sono determinanti per la comminazione della pena. Dall'analisi sia quantitativa che qualitativa delle sentenze pronunciate, viene a galla un dato significativo: che i delitti compiuti per ragioni economiche, punitive o strumentali sono solitamente puniti più duramente rispetto a quelli commessi per ragioni sentimentali. Prima tra tutte: la gelosia.

Il sentire comune influenza la formulazione della sentenza e anche la costruzione della motivazione del giudice perché, in primo luogo, anche il magistrato è un soggetto che vive all'interno di un contesto sociale che contribuisce a formare la sua cultura”, spiega la professoressa Dino. “Contestualmente, però, dobbiamo ricordare che il giudice si avvale anche di una serie di “saperi esperti”, come le perizie psichiatriche, tecniche e medico-legali. La sentenza, quindi, viene necessariamente presentata, anche da un punto di vista della narrazione, attraverso un testo fluido e contaminato.

Resta il fatto che uno degli elementi che contribuisce alla definizione della sentenza è il libero convincimento del magistrato, che decide anche in base alle sue opinioni personali. Ecco perché, purtroppo, i pregiudizi possono avere un peso nel verdetto.
Con il nostro lavoro abbiamo potuto constatare che molto spesso, nei casi in cui il giudice individua alla base dell'assassinio una motivazione di tipo sentimentale, e laddove ritenga che questa ragione sia legata alla gelosia, si assiste purtroppo a una riduzione anche piuttosto drastica della pena che veniva comminata, proprio perché si fa leva, nella narrazione, sul fatto che il sentire comune e l'opinione pubblica non considerino la gelosia come un'aggravante per futili motivi”.

Il baricentro si sposta ancora una volta sulla definizione, sulla battaglia simbolica il cui esito è tutt’altro che privo di conseguenze e la cui cogenza si imprime in profondità nei corpi di tutti, in primo luogo in quello delle donne vittime di violenza Femminicidi a processo, Alessandra Dino, Meltemi 2021

Tra gli aspetti più significativi emersi da questo lavoro, secondo la professoressa Dino, troviamo sicuramente “la permanenza dello stereotipo di genere che considera la donna in una situazione di minorità rispetto all'uomo. Nonostante la proclamazione dell'uguaglianza tra i sessi, nel comminare la pena assistiamo a molte situazioni in cui questa uguaglianza non viene rispettata.

Un altro dato che ci ha stupiti è lo scarso interesse, che emerge dalle sentenze, nei confronti della vittima; tant'è vero che solo nel 34% dei casi da noi esaminati veniva riportata la sua età. Questo evidenzia che nella narrazione giudiziaria viene prestata pochissima attenzione alla storia e al vissuto della persona che è stata uccisa”.

“D'altro canto, rispetto ad alcuni pregiudizi che possono essersi notevolmente ridimensionati, uno che è in particolar modo interessante è quello relativo alla correlazione tra il femminicidio e la patologia mentale”, continua la professoressa Dino. “Dall'analisi dei dati dal punto di vista quantitativo, è risultato che meno dell'8% dei soggetti che compiono il femminicidio sono affetti da gravi patologie mentali. Un altro dato interessante è che la violenza di genere colpisce a tutti i livelli della stratificazione sociale e a tutte le età. Nell'ultimo periodo, infatti, sono aumentate le violenze a carico di donne che hanno più di 64 anni. Invece i media raccontano prevalentemente di uccisioni di donne molto giovani”.

L'ultimo capitolo del libro è dedicato a un'analisi condotta all'interno di una piccola onlus che opera sul territorio palermitano. “I dati raccolti evidenziano che la violenza psicologica sia quella maggiormente praticata e che le donne che ricorrono a questo centro antiviolenza per chiedere assistenza contro il proprio compagno violento abitano per lo più nelle zone residenziali del centro”, specifica la professoressa Dino.

Se il discorso pubblico sul femminicidio e la violenza di genere è così denso di stereotipi, non possiamo fare altro che chiederci come agire per estirpare i pregiudizi e le contaminazioni da parte del sentire comune.

“Questi grossi pregiudizi culturali hanno radici anche nella dimensione misogina del nostro codice penale”, riflette la professoressa Dino. “Ricordiamoci che solo fino al 1981 esisteva ancora l'attenuante per il delitto d'onore, e che fino alla fine degli anni Sessanta era punibile solo l'adulterio femminile e non quello maschile. Ci sono quindi alcuni pregiudizi che purtroppo sono radicati perché sono stati legittimati per lungo tempo anche a livello normativo. Non è facile quindi estirparli dal contesto culturale di riferimento, essendo passato relativamente poco tempo da quando sono state corrette queste storture legislative.

È necessario, perciò, lavorare su vari livelli: non solo in rete, ma anche attraverso attività di formazione che facciano emergere il pregiudizio e permettano di individuare la violenza. Talvolta, infatti, sono le donne stesse che non sono consapevoli di essere vittime di violenza: ad esempio, quella sessuale è difficilissima non solo da denunciare ma anche da individuare da parte delle donne all'interno del matrimonio.
Oltre a un'attività di formazione a tutti i livelli, che dovrebbe coinvolgere le scuole, l'università, le forze dell'ordine, la magistratura e le associazioni del terzo settore, serve anche molto lavoro a livello normativo e di legislazione economica. Molte donne, dopo aver denunciato, spesso non hanno altra scelta se non quella di tornare dal marito violento, perché non hanno un lavoro, una casa dove andare, o un rifugio. Non si può chiedere alle donne di denunciare e non dare loro delle possibilità concrete di inserimento lavorativo o di una vita autonoma.

Si tratta quindi di un problema complesso da affrontare a vari livelli e che richiama come sfondo la discriminazione del cosiddetto “tetto di cristallo”, per cui assistiamo ancora a una presenza numericamente molto esigua delle donne a livello di rappresentanza e nelle posizioni più alte della gerarchia di potere in qualsiasi professione, anche in quella universitaria. È senza dubbio un gap che necessita di molto lavoro per essere colmato”.

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