Con Andrea Barbieri, direttore di ricerca del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) all’ISOF (Istituto per la sintesi organica e la fotoreattività) di Bologna, in un precedente articolo abbiamo tentato di capire cosa l’Italia debba fare sul fronte delle rinnovabili, e in particolare del fotovoltaico, per raggiungere gli obiettivi energetici e climatici fissati per il 2030.
Partendo da 21 GW installati di fotovoltaico e 11 GW di eolico, “sarà necessario avere installato nel 2030 nella rete elettrica italiana circa 20 GW di eolico e 50-60 GW di fotovoltaico, oppure quasi 70 GW di solo fotovoltaico” ha spiegato Barbieri. “Sarà necessario aumentare la velocità di installazione dei nuovi impianti fotovoltaici, passando dai 0,8 GW del 2019 a circa 3-4,5 GW nel 2025 e 6,5-10 GW nel 2030, a seconda dello scenario di riferimento”.
Con Barbieri abbiamo anche discusso di altre questioni legate alla crescita del fotovoltaico, una su tutte l’occupazione di suolo.
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Quanta superficie occupa un pannello? E di quanta superficie ci sarà bisogno per raggiungere gli obiettivi fissati al 2030? È sufficiente usare i tetti degli edifici o servirà mettere pannelli anche a terra, occupando suolo?
Oggi è possibile comperare pannelli solari da circa 350 W della dimensione più o meno standard di 1,8 x 1,0 m, da cui si può calcolare la superficie corrispondente ad 1 kW di potenza installata, che risulta pari a circa 5,4 metri quadrati (mq). In realtà, in fase di installazione, è necessario lasciare spazio tra i pannelli, per garantire la corretta inclinazione ed orientamento, per evitare che si facciano ombra a vicenda, e per facilitare la circolazione dell’aria per il raffreddamento dei moduli. In questo modo la superficie di terreno occupata aumenta a circa 7 mq / kW, per installazione su tetti a falda, e a 10 mq / kW, per installazione a terra (o su superfici orizzontali).
Supponendo ad esempio di voler costruire un impianto di generazione fotovoltaico da 20 MW sul campo, sarà necessario occupare una superficie di circa 20 ettari (ha), pari a 28 campi da calcio (prendendo come riferimento le dimensioni del terreno di gioco dello stadio Olimpico di Roma). Scalando opportunamente le dimensioni, per installare 50, 60 e 70 GW di fotovoltaico serviranno rispettivamente 50.000, 60.000 e 70.000 ha, pari a 500, 600 e 700 chilometri quadrati (km2).
Queste dimensioni possono sembrare rilevanti, e lo sono, ma, se rapportate alla superficie disponibile in Italia, rappresentano una frazione trascurabile di terreno. Ad esempio, 700 km2 corrispondono allo 0.7% dei terreni agricoli (95.612 km2) o boschivi (106.337 km2). Volendo invece considerare l’installazione a tetto, come visto sopra la richiesta di superficie si ridurrebbe a 350, 430 e 500 km2, che corrispondono al 2-2.5% della superficie artificiale, edificata e non (19.809 km2), dati Eurostat 2018. Queste stime sono in completo accordo con quelle ricavate in un recente studio “The potential land requirements and related land use change emissions of solar energy” pubblicato sulla rivista Scientific Reports, del gruppo editoriale Nature. Teniamo anche conto che, sempre in Italia, abbiamo più di 74.000 km2 di terreni abbandonati o inutilizzati, senza contare la possibilità della installazione di centrali fotovoltaiche o eoliche off-shore, di fronte alle coste. Pertanto, la richiesta di nuovo suolo è assolutamente sostenibile e non rappresenta un problema tale da limitare l’installazione di nuovi impianti fotovoltaici.
Esistono alternative al consumo di nuovo suolo? Si possono rendere più efficienti i pannelli in modo che si raggiungano gli stessi obiettivi con meno superficie?
Le moderne tecniche di progettazione architettonica pongono grande attenzione verso l’efficienza energetica dei nuovi edifici, i cosiddetti edifici a energia quasi zero (Nearly Zero-Energy Buildings, NZEB). In pratica, ricorrendo a soluzioni tecnologiche e progettuali, si fa in modo che i principali consumi degli edifici, domestici e non solo, imputabili a riscaldamento e raffrescamento, alla produzione di acqua calda sanitaria, e all’elettricità per illuminazione e dispositivi elettronici, siano quasi azzerati, per poi soddisfare la domanda restante tramite energia prodotta da fonte rinnovabile. Spesso la restante energia necessaria viene prodotta tramite sistemi fotovoltaici già integrati negli elementi architettonici degli edifici, come facciate, balconi, tetti, o anche finestre. Benché il fotovoltaico sia la soluzione ampiamente più sfruttata, esistono esempi di utilizzo di generatori eolici, come la turbina eolica per tetti di città sviluppata dal progetto EOLI FPS, finanziato dalla UE, nell’ambito del programma quadro H2020.
Tra l’altro già la direttiva 2010/31/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 maggio 2010 sulla prestazione energetica nell’edilizia prevedeva che tutti i nuovi edifici fossero NZEB entro la fine del 2020, ed entro la fine del 2018 se edifici pubblici.
Nonostante gli indubbi vantaggi di prevedere misure atte all’efficientamento energetico già in fase di progettazione, è possibile anche, per così dire, un retro-fitting (ovvero una riqualificazione energetica) di edifici esistenti, che vada al di là dell’installazione di pannelli fotovoltaici sul tetto o sul balcone. Ad esempio, sono in fase di studio dispositivi detti concentratori solari luminescenti che potrebbero sostituire le finestre e le vetrate degli edifici generando corrente elettrica. Un tale dispositivo è costituito essenzialmente da una lastra di materiale, solitamente polimerico, ma non solo, all’interno del quale è distribuito un composto luminescente, cioè in grado di ri-emettere, almeno in parte, la radiazione luminosa assorbita. Sui lati della lastra luminescente vengono installate delle piccole celle fotovoltaiche in grado di convertire i fotoni in elettroni, generando corrente elettrica. I concentratori solari luminescenti possono essere sia colorati e semi-trasparenti, tipo le vetrate di una chiesa, che completamente trasparenti, come i vetri di una normale finestra.
In definitiva, lo sfruttamento delle aree edificate, anche dismesse, per la produzione di energia da FER (fonti di energia rinnovabile) è praticabile, ma la strada principale da percorrere è quella dell’efficientamento degli edifici, nuovi ed esistenti.
A che grado di sviluppo siamo con queste soluzioni innovative e alternative? Di quanta ricerca c’è bisogno ancora?
Poiché l’energia – la sua raccolta, produzione, immagazzinamento e utilizzo – è un tema centrale per l’umanità, non è difficile immaginare che essa occupi un ruolo di altrettanta rilevanza per la ricerca, sia di base che applicata. Semplificando al massimo, direi che si possono individuare due filoni principali nella ricerca sulla conversione di luce solare in elettricità: lo studio di nuovi materiali da applicare a sistemi di conversione più tradizionali per incrementarne le caratteristiche, tipicamente di efficienza e durata, e la progettazione di nuovi dispositivi con architetture alternative rispetto alla cella solare fotovoltaica basata su semiconduttori.
Nel primo filone si può annoverare la ricerca sull’utilizzo di un tipo di semiconduttori, cosiddetti a bandgap diretto, in grado di garantire coefficienti di assorbimento della luce di gran lunga superiori rispetto a quelli che si possono ottenere col silicio, di cui sono fatti i comuni pannelli di oggi e che è un semiconduttore a bandgap inverso, e quindi con un basso coefficiente di assorbimento. Un alto coefficiente di assorbimento consente di utilizzare spessori di materiali molto più sottili (e quindi con un minor uso di risorse minerali), permettendo la realizzazione anche di celle fotovoltaiche flessibili. Un esempio tipico di questi materiali è il seleniuro di rame indio e gallio, noto con l’acronimo inglese CIGS (copper indium gallium selenide). L’efficienza di conversione rimane però ancora inferiore a quella di celle a base silicio cristallino e quindi va ulteriormente sviluppato perché ha un buon potenziale.
Un altro gruppo di materiali che è emerso recentemente alla ribalta della ricerca scientifica è quello delle perovskiti, un minerale a base di titanato di calcio. L’attenzione si è concentrata in modo particolare sulle perovskiti sintetiche di piombo. Celle fotovoltaiche a giunzione singola basate su questa classe di materiali hanno raggiunto in breve tempo efficienze record del 25% (un valore diverso dal fattore di capacità) paragonabili alle migliori celle basate su silicio cristallino, rendendo questa tecnologia solare quella con il più rapido incremento di prestazioni negli ultimi anni. Purtroppo la stabilità di questi dispositivi è ancora molto bassa, poche centinaia di ore in condizioni operative, fattore che ancora ne previene la commercializzazione.
Il secondo filone di ricerca, ovvero quello dei nuovi dispositivi, è rappresentato da una grande varietà di esempi, limitato soltanto dalla fantasia e dalla capacità dei ricercatori. Tra questi si possono menzionare ad esempio le celle solari organiche, le cosiddette dye sensitized solar cells (DSC), o le celle solari multigiunzione, solo per nominarne alcune. Queste ultime meritano una menzione particolare, in quanto sono i dispositivi che detengono il record di efficienza nella conversione fotoni / elettroni, avendo recentemente raggiunto il 47.1% (!) certificato NREL, il Laboratorio Nazionale per le Energie Rinnovabili del Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti d'America.
Un quadro aggiornato sull’andamento dell’efficienza record di conversione viene riassunto nel grafico sotto, pubblicato ed aggiornato periodicamente sempre dal NREL.
A questa necessaria e attesa crescita del fotovoltaico è associato anche un cambiamento nel modello di produzione dell’elettricità? Ovvero più decentralizzato e volto all’autoconsumo dell’energia prodotta? Oppure no?
La radiazione solare che raggiunge la terra è una fonte di energia ubiquitaria, anche se non uniformemente distribuita, praticamente inesauribile, almeno nel tempo di vita di una civiltà terrestre, e gratuita, nel senso che non dobbiamo pagare per la sua estrazione e trasporto. Date tutte queste caratteristiche si presta ottimamente ad una raccolta e a un uso localizzato in piena autonomia da parte dell’utilizzatore finale.
Mi sembra però che si tenda a scoraggiare questa modalità di produzione e utilizzo, se mi si passa il termine, democratico, ma si voglia piuttosto replicare un modello di produzione centralizzato, che garantisca il pieno controllo della risorsa da parte di una ristretta cerchia di produttori, che in realtà sarebbe più corretto chiamare trasformatori, così come già avviene per i combustibili fossili. Il modello di produzione e distribuzione centralizzato ha certamente dei vantaggi, anche pratici, in quanto risulta, ad esempio, più semplice il controllo dei flussi di energia che viaggiano sulla rete di distribuzione.
Le implicazioni, filosofiche e pratiche, del passaggio da una produzione e distribuzione di energia di tipo centralizzato a un modello basato sull’autoproduzione e autoconsumo sono innumerevoli e di una portata che si può tranquillamente definire rivoluzionaria. Si potrebbe infatti immaginare di replicare quanto già avvenuto per la distribuzione e condivisione dei contenuti nella rete internet attraverso un modello peer-to-peer. Cioè, invece di immettere nella rete di un distributore commerciale l’energia in eccesso autoprodotta, questa potrebbe essere ceduta direttamente ad altri consumatori, eventualmente riuniti in consorzi, anche attraverso centrali di accumulo. Credo comunque che la discussione di questi argomenti meriterebbe una discussione più approfondita.
Quanto secondo lei questa transizione deve essere lasciata al mercato e quanto deve essere guidata dalle istituzioni nazionali e sovranazionali?
Quest’ultima è la domanda da un milione di dollari! Su questo argomento si sono scontrate schiere di economisti, liberisti contro statalisti. Io posso solo rispondere come privato cittadino.
Penso che la politica debba avere un ruolo guida, non solo di salvaguardia, nelle scelte strategiche di un paese. E di queste scelte i politici se ne devono assumere le responsabilità. Voglio dire che l’attuale transizione energetica va in qualche modo guidata, mi auguro incoraggiata, ma si potrebbe anche scegliere di osteggiarla o rallentarla. Questo dipende dalla visione politica, appunto. Il mercato non sempre evolve a favore dei cittadini, certamente quasi mai dei più deboli, ma segue logiche di profitto, almeno nelle economie capitaliste occidentali. La principale preoccupazione dei governi, di tutta la classe politica, dovrebbe invece essere rivolta non solo alla tutela dell’impresa, ma soprattutto al benessere dei propri concittadini e alla salvaguardia del futuro delle nuove generazioni. Alla fine i nostri figli ci ricorderanno per quello che gli abbiamo lasciato in eredità.