L'11 marzo del 2011 è una data che è rimasta impressa nella memoria di tutti, giapponesi e non: in seguito a un terremoto a 30 km di profondità e al conseguente tsunami, vennero distrutti i generatori di emergenza che permettevano il raffreddamento di tre reattori della centrale nucleare di Fukushima. Questo portò a quattro esplosioni causate dalla fuoriuscita di idrogeno, indispensabile per diminuire la pressione interna, che avrebbe portato a conseguenze ben peggiori.
È stato il più terribile disastro nucleare dopo Chernobyl, ed era quindi inevitabile il suo impatto non solo sulla coscienza, ma anche sulla cultura giapponese e in particolare sul cinema. La risposta artistica fu quasi istantanea, data la portata dell'evento, fino ad arrivare a prodotti mainstream come Fukshima 50 di Setsurō Wakamatsu con Ken Watanabe, uscito in Giappone nel 2020. Per comprendere meglio questo impatto sul cinema locale senza limitarci ai prodotti più conosciuti, abbiamo intervistato Eugenio De Angelis, assegnista di cinema giapponese all'università Ca' Foscari di Venezia.
Servizio di Anna Cortelazzo e montaggio di Elisa Speronello
Scopriamo quindi che la risposta artistica al disastro si inquadra in un più ampio movimento di protesta nei confronti del nucleare che in Giappone si era placato giusto pochi anni prima dell'incidente. L'accaduto ha dato quindi lo spunto per riaccendere il dibattito, e il movimento popolare è stato supportato dagli artisti, che hanno dato una risposta pronta, sia in termini di documentari che di spettacoli teatrali, ma anche per quanto riguarda la danza tradizionale. Certo, rispetto al cinema delle major, è una risposta che mira a un target di nicchia, ma ha senza dubbio il pregio di aver tenuto viva una questione che poteva andare perdendosi come era successo in precedenza, e anche quello di aver consegnato alla storia un'eredità che negli anni aiuterà a ricordare, se non a comprendere e superare, l'accaduto.
I documentari in particolare sono importanti perché i documentaristi si sono mossi poche settimane dopo il disastro, si sono recati sul posto e hanno dato una testimonianza chiave: in 10 anni sono stati girati più di 200 documentari, a riprova del fatto che ci si è resi conto immediatamente che quanto successo avrebbe fatto la storia. Pur nell'estrema varietà del valore artistico delle pellicole, grazie a questi prodotti non rischiano di andare visivamente persi aspetti come le conseguenze a breve termine del disastro, la reazione dei cittadini che vivevano nei pressi della centrale e la risposta emotiva che ha continuato negli anni a tenere vivo un dibattito che forse non avrà mai una risposta definitiva, ma la cui presenza rimane fondamentale, non solo in ambito artistico, ma in tutta la discussione pubblica che ruota attorno al nucleare, in particolare in quei paesi che puntano su di esso.
Passando invece al cinema di finzione, è innegabile che i grandi disastri siano argomenti privilegiati, non solo in Giappone: pensiamo ai disaster movie americani, che hanno schemi narrativi che si ripetono all'infinito in ogni pellicola ma che riescono quasi sempre a centrare il bersaglio in termini di successo al botteghino. "Per film di questo genere - spiega De Angelis - ci vuole sempre un certo distacco storico per affrontare in maniera esplicita quei disastri: c'è sempre una sorta di pudore nei confronti delle vittime per quella che è una ferita nazionale. Per nove anni quindi nessuno ha affrontato Fukushima in maniera diretta in questo tipo di cinema, ci si è limitati a citazioni e richiami".
Il primo film dedicato integralmente all'incidente è proprio quello di Wakamatsu, che ha quindi il pregio di sdoganare la storia sugli schermi internazionali. "Essendo un film di largo consumo prodotto da una major - aggiunge però De Angelis - non affronta la questione in maniera critica".
C'è comunque un altro aspetto interessante, perché Fukushimna 50 potrebbe sembrare, e in parte lo è, una risposta agli omologhi Hollywoodiani, ma con una differenza: in quelli abbiamo di solito un unico eroe che prende in mano la situazione e la risolve, mentre qui c'è un gruppo che si sacrifica per il bene superiore: gli operai che lavorano nella centrale, infatti, a un certo punto vengono congedati dal loro capo ma, a parte un'eccezione, nessuno di loro vuole abbandonare il campo. I cinquanta dipendenti della centrale vogliono rimanere in loco anche se, di fatto, nessuno di loro può più dare il proprio contributo. "Sembra - conclude De Angelis - che il Giappone voglia autorappresentarsi con gli stessi modelli con i quali ce lo rappresentiamo noi: una nazione in cui prevale il senso di collettività rispetto al singolo individuo".