Che l’universo sia in espansione è un fatto assodato. Ma un secolo fa non era proprio così. Tutto ebbe inizio il 26 aprile 1920 quando la National Academy of Sciences organizzò a Washington un evento per pochi addetti. Oggi, lo celebriamo come “Il Grande Dibattito”.
All’epoca, i corsi di astronomia non trattavano di galassie perché l’unica conosciuta era la nostra Via Lattea. Rappresentava tutto l’universo e non c’era nemmeno bisogno di scrivere eventuali storie sul Big Bang.
Tuttavia, circa tre anni più tardi, ci fu un cambiamento radicale. Il concetto di universo diventò essenziale nell’ambito della comunità scientifica e fu elevato a un livello che non si vedeva dai tempi di Copernico.
La svolta potrebbe sembrare non molto spettacolare, perché le argomentazioni si basavano su immagini di oggetti celesti alquanto sfocate. Ma di cosa si trattava? Addensamenti di gas che fuoriuscivano dalla Via Lattea, sistemi planetari in formazione, oppure erano altre galassie come la nostra o, nella terminologia dell’epoca, altri “universi”?
La risposta si celava dietro la determinazione di due quantità: la dimensione della Via Lattea e la distanza a cui si trovavano questi oggetti poco definiti. Certo, se queste “macchie” si fossero trovate a una distanza inferiore alle dimensioni della Galassia si poteva affermare senza dubbio che erano parte di essa.
Le opinioni, però, erano contrastanti. Ora, dato che le controversie di solito fanno sempre audience, la National Academy of Sciences organizzò un dibattito che di fatto riguardava il confronto tra due astronomi: da un lato Heber Curtis dell’osservatorio Lick e dall’altro Harlow Shapley dell’osservatorio di Mt. Wilson. Insomma, era una sorta di scontro tra il nord e il sud della California.
Il punto sollevato da Shapley era che gli astronomi avessero decisamente sottostimato la dimensione della Via Lattea. Oggi sappiamo che è almeno dieci volte il valore che era stato considerato a quel tempo (circa 30 mila anni-luce). Convinto del fatto che quelle “macchie” non potevano essere più distanti di 300 mila anni-luce, Shapley affermò che fossero parti integranti della Via Lattea.
Sull’altro fronte, Curtis riteneva che quelle strutture a forma di conchiglie fossero in definitiva “universi-isola”, ossia galassie ben al di là della Via Lattea.
Ci si può domandare come mai tutto questo era diventato un problema così complicato da risolvere. Quando vediamo la foto di una galassia la riconosciamo quasi subito, ma a quel tempo era difficile per via del fatto che i telescopi erano troppo piccoli e la fotografia non era ancora molto avanzata.
Sulle lastre fotografiche si vedevano tante stelle in cui quelle strutture indefinite apparivano ogni tanto e nella maggior parte dei casi erano molto piccole. Non era immediato concludere che tutte quelle stelle fossero migliaia di volte più vicine di quelle “macchie”.
Il punto stava nel determinare le distanze astronomiche. Ma misurare la distanza di oggetti che si trovano a più di alcune centinaia di anni-luce non era certamente così semplice. I “righelli” che ci hanno tramandato i greci non vanno bene se si applicano al nostro sistema stellare locale, per non parlare della misura degli angoli la cui precisione sarebbe impossibile da ottenere.
Bisognava utilizzare qualcosa d’altro. Così Curtis e Shapley utilizzarono un metodo che si basava sulla misura angolare di quelle strutture per poi ricavare una stima della loro distanza.
La sera del 26 aprile, i due contendenti trascorsero poco più di un’ora a dibattere sul tema della scala delle distanze. Non ci fu un “vincitore” ufficiale anche perché non si era in grado di definire quelle strutture nemmeno dalle migliori osservazioni astronomiche disponibili all’epoca.
Ad ogni modo, ben presto si ebbero nuovi dati. Nell’ottobre 1923, Edwin Hubble utilizzò il telescopio Hooker di Mt. Wilson per realizzare una serie di foto ad alta risoluzione della “nebulosa” di Andromeda. In un momento fortuito, egli trovò alcune stelle variabili, le Cefeidi, la cui luminosità varia periodicamente.
Ecco trovata la via. Henrietta Levitt, una delle poche donne che a quel tempo lavoravano nell’astronomia, aveva studiato quella classe di stelle variabili e aveva dimostrato che le pulsazioni periodiche di luce erano correlate con la loro luminosità intrinseca. Hubble ricavò per Andromeda una distanza di 860 mila anni-luce, un numero più basso di quello che sappiamo ora, ma era tale da superare quei “limiti” della Via Lattea così come riteneva Shapley o altri.
Il lavoro di Hubble fu rivoluzionario. Andromeda era, di fatto, un’altra galassia, un altro “universo”. E così dovevano essere tutte quelle altre “macchie” poco definite. L’universo visibile si estendeva per centinaia di migliaia di volte rispetto all’oggetto più distante della Via Lattea, mentre lo spazio tra questi “universi-isola” era in espansione.
Il “grande dibattito” del nuovo millennio si è spostato sulla determinazione della costante di Hubble (H0), un parametro cosmologico di fondamentale importanza perché caratterizza il ritmo dell’espansione dello spazio all’epoca attuale, definisce la dimensione osservabile dell’orizzonte cosmico e il suo valore inverso ci fornisce una stima dell’età dell’universo.
Nel 1929, Hubble ottenne erroneamente un valore di 500 Km/sec/Mpc, una stima che andava in contraddizione con l’età della Terra. Poi, a partire dagli anni Settanta, iniziò una diatriba tra Allan Sandage, che sosteneva un valore intorno a 50 Km/sec/Mpc, e alcuni suoi rivali, convinti che H0 fosse più vicino a 100 Km/sec/Mpc.
Il dibattito “50-100” tenne banco fino agli inizi degli anni Ottanta quando Wendy Freedman iniziò un programma di ricerca, denominato Hubble Key Project, che aveva l’obiettivo di migliorare la scala delle distanze cosmologiche, basando il sistema di calibrazione non solo sulle Cefeidi ma anche sulle supernovae-Ia.
I risultati, pubblicati nel 2001, diedero un valore di 72 Km/sec/Mpc. Era la prima misura di H0derivata con una accuratezza del 10% che spaccava in due la controversia nel dibattito 50-100.
Ma nel corso degli anni, si è giunti a una vera e propria “tensione”, o ancor peggio “crisi”, perché le stime della costante di Hubble ricavate dalla radiazione cosmica di fondo differiscono da quelle ottenute dall’universo locale.
Come risolvere la controversia? Per Adam Riess, uno dei tre co-vincitori assieme a Brian Schmidt e Saul Perlmutter del Nobel per la Fisica nel 2011 attribuito per la scoperta dell’espansione accelerata dell’universo, occorre introdurre una nuova fisica per spiegare le discrepanze.
C’è, però, chi sostiene che l’espansione cosmica non sarebbe del tutto uniforme a causa di un diverso moto collettivo degli ammassi di galassie osservato in direzioni diverse oppure perché gli effetti dell’energia oscura potrebbero differire in regioni diverse dello spazio, falsificando in qualche modo le stime del valore di H0.
Infine, c’è un’altra possibilità, controversa, che forse si potrebbe celebrare in un futuro non molto lontano. La suggestione di vivere in uno dei tanti infiniti, paralleli universi che non possiamo vedere nonostante la loro ipotetica esistenza. Dunque, il Big Bang non sarebbe stato un evento unico ma ce ne sarebbero stati tanti che avrebbero dato origine a un gigantesco multiverso.
Il comunicato stampa del Grande Dibattito era titolato “Quanti universi esistono?” Oggi, quella domanda che può sembrare assurda è diventata pertinente. Se proveremo l’esistenza degli universi paralleli, come fatto dimostrabile, allora saremo testimoni di un’altra grande espansione dei nostri orizzonti cosmici.