A seguito dell’emanazione del DM 11 aprile 2023, n. 161 del Ministero della Cultura, rubricato “Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali”, numerose sono state le proteste da parte di associazioni scientifiche e professionali, professionisti e utenti di archivi, biblioteche e musei. Il decreto ha suscitato non poche perplessità e apprensione non solo per il mancato coinvolgimento delle comunità di riferimento, ma soprattutto perché circa un anno fa le stesse associazioni erano state formalmente coinvolte nella redazione delle Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale, emanate dallo stesso Ministero della Cultura entro il Piano Nazionale per la Digitalizzazione (Pnd) del maggio del 2022. Le cinque linee guida del Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale indicavano e suggerivano metodologie e procedure utili per affrontare le sfide poste dall’attuazione dei processi individuati nella sezione Strategia del Pnd.
Il fatto che il nuovo DM 161 annoveri il rilascio e l’uso delle riproduzioni di beni culturali tra gli usi soggetti a concessione non appare insomma coerente con la recente produzione normativa dello stesso Ministero. Appare quindi poco comprensibile come con questo decreto si sia arrivati a delineare un quadro operativo di difficile attuazione per gli uffici del Ministero e non coerente con le direttive europee e con gli orientamenti scientifici internazionali in materia di promozione dell’accesso aperto, di riuso di fonti e dati della ricerca, di valorizzazione del patrimonio culturale. Non solo: come scrive Gian Antonio Stella sul Corriere della sera è in atto una vera propria rivolta contro le nuove norme, dato che persino la Federazione delle Consulte Universitarie di Archeologia ha parlato di attentato all’art. 9 della Costituzione e alla libertà di ricerca, accusa condivisa dall’archeologo Giuliano Volpe che scrive che “il vero nodo riguarda l’uso delle immagini, cioè un bene immateriale, di cui il ministero si considera unico proprietario. Ora la scure si abbatterà anche sulle pubblicazioni scientifiche: i ricercatori dovranno pagare canoni salati per pubblicare in un proprio articolo in una rivista scientifica o in un libro”.
In particolare con il DM 161 è stato pubblicato un tariffario che elenca i rimborsi per ciascun tipo di servizio, e non è chiaro come siano calcolati i relativi costi vivi. Il tutto in contrasto con le recenti iniziative adottate dall’Unione Europea per incentivare la digitalizzazione, l’accessibilità e la conservazione del patrimonio culturale europeo, tra cui la Raccomandazione (UE) 2021/1970 della Commissione del 10 novembre 2021, relativa alla creazione di uno spazio comune europeo di dati per il patrimonio culturale. In particolare, entro il 2030 gli Stati membri dovrebbero digitalizzare in 3D tutti i monumenti e i siti del patrimonio culturale a rischio e il 50% dei monumenti, degli edifici, dei siti culturali e del patrimonio culturale più visitati fisicamente.
Le reazioni dunque non sono macate: l’Associazione italiana biblioteche (Aib) – con i rappresentanti di società scientifiche e consulte universitarie, associazioni dei dottorandi, assegnisti di ricerca e giovani ricercatori e associazioni di professionisti e di istituti del patrimonio culturale – ha sottoscritto un documento di osservazioni inviato al Ministro della cultura Gennaro Sangiuliano allo scopo di favorire un confronto, mentre l’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (Aisa) chiede con una lettera aperta l’immediato cambiamento delle politiche ministeriali in direzione di una totale e assoluta liberalizzazione, senza pagamento di tariffe per la riproduzione e il riuso per scopi scientifici dei beni culturali del patrimonio italiano. Un principio quest’ultimo che l’Aisa auspica di fissare anche per via legislativa tramite la riforma del Codice dei beni culturali. Sembra necessario chiarire che tutt’ora, nel rispetto dell’art. 108 del Codice, le riproduzioni eseguite direttamente dall’utente (senza uso di treppiede o contatto con il bene) non devono essere oggetto di alcun rimborso spese, dato che nella fattispecie non vi è alcun servizio erogato dall’istituto se non quello di porre il bene in consultazione secondo il suo dovere istituzionale.
Fino all’11 aprile la libera circolazione delle riproduzioni dei beni culturali era consentita per tutti gli usi eccetto quelli commerciali, per i quali era richiesto un corrispettivo di riproduzione. Questa tariffa era facoltativo, quindi era la singola istituzione a decidere se applicarla oppure no. Peraltro le attuali linee guida del Pnd riconfermavano la presenza di un canone per la riproduzione delle immagini dei beni culturali a fini commerciali, già stabilito dall'articolo 108 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma con alcune aperture. In particolare, nel Pnd era previsto che non si dovesse il canone per qualsiasi tipo di pubblicazione editoriale in forma di monografia, rivista o periodico, sia in formato cartaceo che digitale.
Canone sì, canone no
La questione del canone per la riproduzione delle immagini dei beni culturali è oggetto, ormai da qualche anno, di un acceso dibattito che vede schierati due fronti. Da una parte c'è chi ritiene che il canone possa essere uno strumento prezioso per valorizzare il patrimonio culturale italiano, mentre dall’altra ci sono coloro che ritengono che la sua eliminazione anche per il riuso commerciale sia necessaria e opportuna e che il pagamento di un corrispettivo sia anacronistico. Tra questi ultimi ci sono numerosi economisti, giuristi e funzionari di musei, archivi e biblioteche; Giorgio Resta ad esempio, docente di Diritto privato comparato all’Università Roma Tre, rifacendosi anche a sentenze emesse in Francia e Germania, ritiene “assolutamente illegittimo il comportamento delle pubbliche amministrazioni che subordinano al pagamento di un canone la riproduzione, anche a scopo commerciale, di beni culturali liberamente visibili. L’immagine è da considerarsi come un’informazione, bene che non si depaupera nel consumo: più persone possono godere dell’immagine ossia dell’informazione, senza che il bene ne risulti deperito”.
In un'epoca in cui l'accesso aperto è sempre più sostenuto dalla comunità culturale internazionale, alcune istituzioni si sono già mosse per abbracciare questi principi: il Museo Egizio di Torino e il Rijksmuseum di Amsterdam hanno già deciso di liberalizzare l'utilizzo delle proprie immagini e risorse iconografiche, permettendo così a studiosi, ricercatori e appassionati di accedere liberamente alle loro collezioni digitali. Una scelta che ha portato anche a una semplificazione del processo di ricerca e accesso ai materiali, riducendo il tempo e lo sforzo necessario per rispondere alle richieste degli utenti e quindi provocando – paradossalmente –un risparmio economico. Anche lo Smithsonian Institution ha deciso di aderire all'accesso aperto, aprendo i propri archivi digitali e rimuovendo il copyright da milioni di immagini: una scelta motivata dal desiderio di ispirare le persone a costruire nuove conoscenze per comprendere il nostro mondo, sia passato che presente.
Andare verso l’abolizione di restrizioni che oggi appaiono anacronistiche è da anni un obiettivo perseguito da ricercatori, operatori e funzionari di musei, archivi e biblioteche: non solo per liberare la cultura a tutto tondo ma anche al fine di creare biblioteche digitali che valorizzino il patrimonio culturale del nostro Paese. Tanto più che, come riconosceva proprio il Pnd, la circolazione e il riuso delle riproduzioni digitali tendono ad assumere connotazioni culturali, poiché sottendono il modo di intendere i rapporti tra società, patrimonio, istituti di tutela, imprese e utenti e la funzione stessa di musei, archivi e biblioteche. Secondo Wikimedia Italia, che gestisce progetti come Wikipedia Italia e Wikimedia Monuments, l'intero articolo 108 del Codice dei beni culturali e del paesaggio dovrebbe essere abrogato e sostituito con l'approccio dell'accesso aperto; i dati pubblici dovrebbero essere considerati un patrimonio utile non solo alle singole istituzioni culturali ma all'intero Paese, poiché possono supportare servizi, business e prodotti.
Coloro che d’altra parte sostengono la necessità di imporre canoni ritengono che questo possa essere una fonte di introiti per le migliaia di istituzioni in Italia e che la previsione di un corrispettivo possa incentivare l'investimento nel settore della cultura e del patrimonio storico-artistico. Tra i favorevoli alle tariffazioni Antonio Leo Tarasco e Francesco Gilioli, rispettivamente capo ufficio legislativo e capo di gabinetto del Ministero della Cultura nonché presidente e vice-presidente della Società Italiana per l'Ingegneria Culturale (Sic), che si dicono a favore di una gestione imprenditoriale dell’archivio pubblico digitalizzato sul modello della Réunion des musées nationaux, un modello di stabilimento pubblico a carattere industriale e commerciale fondato nel 1895 sotto la guida dei francesi Raymond Poincaré e Georges Leygues con lo scopo di acquistare opere d'arte per collezioni nazionali. Tarasco ne ha spiegato le ragioni in un’audizione al Senato nell’ottobre 2021, in sede della conversione della direttiva UE 2019/790 sul diritto d'autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale.
In quella sede è stato portato l'esempio della vendita di una copia digitale, certificata tramite blockchain, del Tondo Doni degli Uffizi: un’operazione che ha portato nelle casse dello Stato 70 mila euro. Tuttavia, secondo alcuni questo ragionamento non regge quando si cerca di stabilire un collegamento tra la monetizzazione di iniziative commerciali come la vendita di Nft (non-fungible token o “certificati di proprietà” su opere digitali) e la previsione di un corrispettivo per l'uso delle immagini a fini commerciali. La Sic sostiene che gli Nft non ledono gli interessi del riuso commerciale, ma se il ministero e le istituzioni culturali ritengono che la vendita degli Nft sia una risorsa utile, ciò non dovrebbe comunque interferire con gli altri riusi commerciali non di tipo Nft.
Un altro punto debole della posizione a favore della tariffazione per usi commerciali è che vengono spesso citati i grandi esempi come quello degli Uffizi, mentre vengono molto meno considerati i casi delle migliaia di piccole istituzioni, per le quali l’applicazione di un canone genera soprattutto ostacoli e che quindi preferiscono non applicarlo. Spesso infatti gli introiti generati sono inferiori ai costi di gestione: per questo molti musei stanno rendendo disponibili liberamente i loro contenuti. Lo stesso Pnd riconosceva questa problematica, sottolineando l'importanza di una valutazione costi-benefici rispetto al modello da adottare e prevedendo che l'entità del corrispettivo non potesse mai essere aumentata per coprire un eventuale sbilanciamento. In pratica, invece di prevedere delle eccezioni al pagamento del canone per il riuso commerciale delle immagini dei beni culturali, sarebbe stato opportuno stabilire un piano che stabilisse quando un corrispettivo è ritenuto necessario, come situazione eccezionale rispetto al più generale libero accesso. Il contrario di quanto stabilito dall’ultimo provvedimento.