Il primo ministro israeliano. Foto: Reuters
Un silenzio che fa clamore: il presidente degli Stati Uniti, a quasi un mese dal suo insediamento alla Casa Bianca, non ha ancora telefonato al primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. Finora Biden ha chiamato i leader di Russia e Cina, Francia e Germania, Inghilterra, Australia e India, Giappone, Corea del Sud, Canada e Messico, oltre al segretario generale della Nato. Ma non Israele, storico alleato e indispensabile base per il controllo del Medio Oriente. Questione di forma, sia chiaro: la sostanza dell’alleanza è intatta. E di priorità. Eppure questo stallo (così ostentato, al limite dell’offensivo) qualcosa lascia intendere: rimarca una distanza, o quantomeno una “non perfetta corrispondenza” tra il neoeletto presidente e l’inossidabile leader israeliano, che tanto platealmente si era speso a favore della rielezione di Donald Trump, col quale invece la sintonia era assoluta (nel senso che Trump lo assecondava pressoché su tutto: dallo spostamento della capitale a Gerusalemme alla presentazione, esattamente un anno fa, del “piano di pace” per il Medio Oriente). E a poco, evidentemente, era servito il videomessaggio che Netanyahu si era affrettato a inviare a Biden il 21 gennaio scorso, il giorno successivo al suo insediamento, mostrando un entusiasmo chiaramente di facciata: “Mi aspetto di lavorare con lei per rafforzare ulteriormente l’alleanza tra Usa e Israele e continuare ad allargare la pace fra Israele e il mondo arabo e confrontarci con le sfide comuni prima delle quali la minaccia posta dall’Iran”. Nessuna risposta. Da allora silenzio.
Che Netanyahu sia un personaggio controverso e divisivo non è una novità: rincorso dai procedimenti giudiziari, capace di far cadere governi (a marzo si terranno le quarte elezioni in due anni) pur di non cedere un millimetro del suo scettro che continua a detenere ininterrottamente da dodici anni, dopo una prima esperienza dal 1996 al 1999 (è il premier più longevo d’Israele). Uno che pretende di essere sempre al centro della scena, di governarla a seconda del suo personale tornaconto, non certo abituato a essere lasciato in sala d’attesa come l’ultimo dei questuanti. La Casa Bianca, sollecitata, fa sapere che Biden “parlerà presto” con Netanyahu. “Non c’è una data o un orario specifico”, ha risposto il portavoce della Casa Bianca Jen Psaki alla domanda di un giornalista, che chiedeva se il ritardo di una semplice chiamata di cortesia non avesse in realtà l’obiettivo di mancare di rispetto al leader israeliano. «Il primo ministro Netanyahu è qualcuno che il presidente Biden conosce da tempo», (da quando era vice di Obama). «Non vede l’ora di avere la conversazione», ha concluso Psaki. Il premier israeliano a sua volta minimizza: «La nostra alleanza è forte». Ma l’attesa sta creando più di qualche nervosismo nell’entourage di King Bibi, al punto che alcuni giorni fa l’ex ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Danny Danon, fedelissimo di Netanyahu, si è fatto scappare un tweet nel quale “rimproverava” Biden per non aver fatto ancora quella telefonata: «Potrebbe essere ora il momento di chiamare il leader di Israele, il più stretto alleato degli Stati Uniti?», aveva scritto, polemico, Dannon, aggiungendo anche un numero di telefono (risultato poi non più attivo) della segreteria del premier (che non possiede un telefono cellulare). Una mossa molto criticata, al punto che Dannon si è dovuto scusare pubblicamente (senza però rimuovere il tweet).
@POTUS Joe Biden, you have called world leaders from#Canada#Mexico#UK#India#France#Germany#Japan#Australia#SouthKorea#Russia
— Ambassador Danny Danon | דני דנון (@dannydanon) February 10, 2021
Might it now be time to call the leader of #Israel, the closest ally of the #US?
The PM's number is: 972-2-6705555 pic.twitter.com/OYgPvVga6F
La linea imposta da Joe Biden
I prossimi giorni saranno decisivi per comprendere come Biden intenderà riposizionare gli Stati Uniti su alcune questioni fondamentali per l’equilibrio non soltanto dei rapporti con Gerusalemme, ma dell’intero Medio Oriente: se (come annunciato) rientrare nell’accordo sul nucleare iraniano, dal quale Trump si era ritirato, imponendo durissime sanzioni e innescando la reazione aspra di Teheran; se ricucire (e sarà così) i rapporti diplomatici con i palestinesi; e infine se si opporrà alla costruzione di nuovi insediamenti israeliani su terre occupate in Cisgiordania. Una tripla partita che potrebbe portare a una sconfessione della politica aggressiva fin qui attuata da Netanyahu. Mentre appare certo che Biden non si opporrà alla prosecuzione dei cosiddetti “Abraham Accords”, gli accordi di pace negoziati dagli Stati Uniti tra Israele e numerosi stati arabi a maggioranza musulmana. Questo per dire che la questione della telefonata sarà comunque risolta in tempi brevi: ma le distanze tra i due leader potrebbero restare intatte. E l’ostentata “freddezza” di Biden di certo non giova alla causa di Netanyahu, che come spesso accade si trova in questi giorni al centro della scena su un doppio fronte: quello giudiziario e quello politico-elettorale.
Donald Trump e Benjamin Netanyahu durante un incontro ufficiale alla Casa Bianca. Foto: Reuters
La partita dei processi
La scorsa settimana Netanyahu si è presentato in tribunale, dopo una serie di rinvii dovuti alla pandemia, per rispondere alle accuse di frode, corruzione e violazione della fiducia (in quanto reati che sarebbero stati commessi mentre era primo ministro) in tre distinti procedimenti (qui una ricostruzione dettagliata pubblicata pochi giorni fa dal New York Times). Accuse sempre negate con fermezza dal leader del Likud (mai un primo ministro in carica era stato processato in Israele), che da sempre la definisce una “deliberata caccia alle streghe”. Convinzioni ripetute davanti alla Corte, prima di abbandonare l’aula e lasciare ai suoi avvocati le questioni procedurali. Fuori i manifestanti erano centinaia: slogan, cartelli e richiesta di dimissioni immediate. Il premier li ha esortati a evitare assembramenti.
Da segnalare poi l’intervento, durissimo, dell’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert, anche lui indagato per corruzione nel 2008 (poi condannato a un anno di reclusione, con la condizionale) e soppiantato dallo stesso Netanyahu nelle successive elezioni del 2009. Olmert ha scritto su Jesuralem Post: «Non è mia intenzione esprimere un'opinione, sollevare ipotesi o raccomandare conclusioni in merito alle accuse mosse contro Netanyahu. L’attuale primo ministro, che all'epoca delle accuse a me rivolte era il leader dell'opposizione, chiese che mi dimettessi immediatamente dalla mia posizione, poiché, secondo lui, un primo ministro indagato non può svolgere adeguatamente il suo ruolo. Bibi Netanyahu è un criminale, un truffatore senza inibizioni. È disposto a fare qualsiasi cosa per evitare di essere giudicato. Non c'è niente a cui non si aggrapperà per salvarsi. Abbiamo imparato nel corso degli anni che non c'è valore che Netanyahu non sia disposto a schiacciare e distorcere se soddisfa i suoi bisogni. Meriterebbe di restare in prigione per molti anni, non per le accuse per le quali è incriminato e per le quali deciderà il tribunale, ma per quello che ha fatto al Paese per cercare di evitare queste accuse».
A marzo si vota: tutti a destra
Intanto il 21 marzo Israele tornerà al voto. Non ha funzionato (com’era ampiamente prevedibile) il “patto della staffetta” tra Netanyahu e Benny Ganz, leader del partito Blu e Bianco, che aveva spaccato il suo partito pur di raggiungere un accordo di governo con il leader del Likud, che però aveva preteso per se stesso il primo tratto da premier. Una crisi, l’ultima, formalmente aperta perché la Knesset (il parlamento israeliano) non era riuscita ad approvare la nuova legge di bilancio entro i termini previsti. In realtà una crisi pilotata dallo stesso Netanyahu che mai avrebbe tenuto fede alla parola data e ceduto il suo ruolo, preferendo giocarsi questa ennesima partita gestendo da premier l’emergenza degli affari correnti.
E i sondaggi continuano a dargli ragione. Al centro della scena politica, estremamente frammentata, estremamente spostata a destra, c’è sempre lui e soltanto lui. Il Likud dovrebbe raggiungere tra i 28 e i 31 seggi, seguito da Yesh Atid (partito laico di centrodestra, fondato dal giornalista Yair Lapid) con 18 seggi, New Hope (13-14 seggi, guidato da un ex leader dell’ala più radicale del Likud, Gideon Sa’ar ), Yamina (alleanza di estrema destra) con un range di 11-13 seggi, oltre alla Joint List, il raggruppamento delle liste arabe, che potrebbero raggiungere tra gli 8 e i 9 seggi. Poi Shas (ebrei ultraortodossi, 8 seggi), UTJ (Giudaismo Unito nella Torah, 7), Yisrael Beytenu (destra nazionalista, 6-7 seggi). In coda ciò che resta della sinistra, con il Partito Laburista (5-7) che si affida alla nuova leaderMerav Michaeli. Blue and White potrebbe conquistare non più di 4-5 seggi, appena sopra la soglia di sbarramento, fissata al 3,25% (il 2 marzo scorso aveva ottenuto il 26,5 per cento dei voti: i voltafaccia si pagano). Numeri comunque inequivocabili: il prossimo 21 marzo la destra non avrà alcuna difficoltà nel raggiungere la maggioranza alla Knesset. Bisognerà soltanto vedere se i vari partiti troveranno un accordo, sapendo bene che la principale condizione posta dal Likud sarà sempre la stessa: il ruolo da premier non è negoziabile. Nonostante i processi, le accuse, le evidenze, nonostante una gestione criticatissima della pandemia (soltanto il 24% degli israeliani è d’accordo con l’azione del governo), Israele sembra condannata a vivere una nuova stagione dell’interminabile saga di Bibi Netanyahu.