Secondo le stime delle Nazioni Unite era stato un neonato fra domenica 30 e lunedì 31 ottobre 2011 a divenire il settemiliardesimo umano vivente al mondo. Prima eravamo qualcuno meno, poi e anche ora molti di più. Mentre inizio a scrivere siamo 7 miliardi 811 milioni 280 mila abitanti umani del pianeta Terra, in intensa accelerazione, nonostante la pandemia Covid-19. Eppure, forse abbiamo già iniziato a aumentare con una velocità minore, la curva della crescita è certamente meno impetuosa rispetto al recente passato. Il grande avvenimento che forse definirà il XXI secolo si verificherà tra circa tre decenni e sarà proprio l’inversione della rotta moderna e contemporanea: un calo implacabile, generazione dopo generazione, della popolazione umana, il declino demografico dunque. Oggi il fenomeno è ancora diacronico. I Paesi in cui la popolazione sta diminuendo sono già più di venti; nel 2050 saranno oltre trentacinque, i più grandi, i più ricchi. Presto anche i più grandi Paesi in via di sviluppo, i cui tassi di fecondità sono già in discesa, inizieranno a ridursi. È probabile che lo stesso sfrenato baby boom africano finisca ben prima di quanto non prevedano demografi dell’ONU. Due giornalisti canadesi hanno per mesi viaggiato in diverse città nei cinque continenti, parlato con professori e funzionari di Stato, discusso nei campus universitari e nelle baraccopoli, raccolto dati statistici nazionali e internazionali, studiato e comparato le politiche capaci di aumentare il numero di figli per coppia, traendo infine una conclusione che considera sbagliata l’opinione della incontrollata duratura travolgente crescita demografica. Il libro è uscito ad agosto 2020 in Italia: Darrell Bricker e John Ibbitson, Pianeta vuoto. Siamo troppi o troppo pochi? (traduzione di Silvia Manzio), Add Torino, 2020 (orig. 2019), pag. 310 euro 18.
Darrell Bricker (1961) e John Ibbitson (1955) sono due studiosi e commentatori politici fieri dell’approccio canadese alla quantità e qualità della vita dei propri concittadini. Nel recente interessante volume a quattro mani si pongono l’obiettivo di sfatare pregiudizievoli miti che circondano la crescita della popolazione (alimentati da alcuni statistici, demografi e politici un po’ ovunque sul pianeta). No, non continueremo a produrre esseri umani fino a che il mondo cigolerà sotto il peso di più di undici miliardi di persone; più probabilmente raggiungeremo un picco di poco oltre nove miliardi e poi inizieremo a calare. No, i tassi di fecondità dei Paesi in via di sviluppo non sono astronomici; molti sono già pari o inferiori alla soglia di sostituzione. No, l’Africa non è un continente condannato alla povertà cronica con una popolazione in costante crescita ma senza le risorse per sostenerla; è un continente dinamico, con economia in continua evoluzione e tassi di fecondità in rapido calo. No, gli afroamericani e i latinoamericani non sommergeranno l’America Bianca (né gli arabi l’Europa) con i loro vertiginosi tassi di fecondità; di fatto la fecondità dei gruppi etnici tendono a uniformarsi a quella del paese d’immigrazione. La realtà attuale è che in tanti paesi europei e occidentali il numero di abitanti non cresce, anzi declina; già oggi percepiamo poco e assistiamo inermi al calo demografico (appena appena attenuato da immigrazioni sempre più avversate e complicate); nessuno riflette bene e politicamente sugli effetti dello spopolamento assoluto, ancor più evidente all’esterno delle grandi città, rispetto al quale non si potrà che abbracciare, prima o poi, sia l’immigrazione che il multiculturalismo.
Abbiamo qui spesso ricordato che le migrazioni nell’ambito della biosfera costituiscono un’opportunità. In genere, nel medio e lungo periodo generano un aumento della biodiversità. In ogni caso sono un carattere costitutivo della vita. Abbiamo sottolineato come non esiste purtroppo ancora un atlante mondiale storico e geografico del costitutivo fenomeno migratorio di Homo sapiens, impresa che dovrebbe riguardare più istituzioni scientifiche internazionali. Appare comunque evidente che cambi di residenza e mescolanze hanno reso da decine di migliaia di anni ogni gruppo, popolo, civiltà, Stato composto da tutti meticci, uomini e donne: genetica e biologia evoluzionistica, paleoantropologia e antropologia portano sempre nuove prove. Non ci sono individui e comunità autoctoni, come non ci sono paesaggi, musiche, lingue, religioni pure e immutabili. In ogni tempo e luogo una parte di noi ha migrato, una piccola parte sta migrando, una parte continuerà a migrare, in modo diverso e con minore o maggiore libertà di migrare oppure necessità di fuggire. E, migrando, abbiamo riempito il mondo, ogni continente e ogni ecosistema, di vite umane meticce. Lo stesso declino demografico è stato già qui evocato e molti studiosi ne hanno evidenziato i caratteri, sia sul piano nazionale (che in prospettiva sul piano globale). Le opinioni espresse dagli scrittori canadesi non sono, dunque, una vera e propria assoluta novità e vanno meditate con attenzione, facendo interloquire la demografia con altre scienze sociali e biologiche.
Lo stesso Empty Planet del titolo del volume di Bricker e Ibbitson è enfatico e polemico, concentrato sul “minare” opinioni consolidate; come altre affermazioni e aggettivazioni vanno prese per riflettere e approfondire meglio questioni su cui spesso abbiamo in testa schemi e convinzioni errate. Fra l’altro, il “troppo” o “troppo poco” è questione biologica ed ecologica delicata, dipende molto dal contesto dei singoli ecosistemi e dell’ecosistema planetario. I primi due capitoli servono a contestualizzare evoluzione e pensiero, quanto avvenne nel passato remoto e nella cultura diffusa, pur in modo sintetico e talora superficiale. Il primo narra la “breve storia della popolazione” di Homo sapiens, soprattutto per evidenziare come abbiamo rischiato più volte prima di non esistere, poi di estinguerci o di non preservare il sapere perduto, salvandoci (da eruzioni e terremoti, cambiamenti climatici e pandemie, in passato più mortifere della Covid-19) solo con sapienti movimenti lenti e indispensabili migrazioni continue, spesso guerreggiando troppo e urbanizzandoci sempre più (“la principale causa del calo nella fecondità è l’urbanizzazione”). Il secondo capitolo spiega l’emersione culturale del mito dell’esplosione demografica, da Thomas Robert Malthus (1766 - 1834) ai suoi “figli”, aggiornando e storicizzando le varie fasi del Modello di transizione demografica elaborato e discusso nell’ultimo secolo (dal 1929). I successivi capitoli esaminano i diversi contesti geografici oggi e in prospettiva: Europa (che invecchia impetuosamente), Asia, Africa, Brasile, Stati Uniti, Giappone, Canada e altre aree, intervallando questioni specifiche (i bambini e le nascite, spinte e trazioni delle immigrazioni, l’estinzione culturale delle lingue e dei popoli). Il taglio è demografico e inevitabilmente ridotta l’attenzione verso altri aspetti (climate change, geopolitica del potere, commerci e mercati, oppressioni vecchie e nuove).
I due autori assegnano un ruolo decisivo, per quanto contingente, alle migrazioni, o meglio alle immigrazioni; “una soluzione al problema del declino demografico è quello di importare popolazione che sostituisca quella che viene a mancare”. Ciò dovrebbe riguardare innanzitutto i Paesi con un tasso di natalità sotto la soglia di sostituzione (la maggior parte di quelli europei). Gli autori si riferiscono esplicitamente alle indispensabili migrazioni non forzate: “in un contesto più ampio i movimenti dei rifugiati sono insignificanti”, riguardano poche aree, hanno un numero assoluto abbastanza stabile, sono percentualmente scarsi. “Ormai le migrazioni non dipendono quasi più dalle crisi umanitarie, ma dalla determinazione delle persone che cercano di sfruttare le opportunità economiche che un altro Paese può offrire loro e alle loro famiglie”. Immigrazioni nei paesi in calo demografico andrebbero, pertanto, sollecitate e favorite, anche se comportano problemi oltre che promesse: segregazione, rigetto, competizione fra i gruppi etnici, tensioni sociali, paura o addirittura panico. La maggior parte degli abitanti preferisce restare che emigrare, nel caso migrare vicino e non lontano, nel caso tornare se possibile. Ovviamente è opportuno ribadire che l’immigrazione ha molti altri aspetti positivi oltre a quello demografico e che “l’immigrazione non è comunque una soluzione definitiva al problema dell’invecchiamento e del declino della popolazione”: i migranti non sono tutti giovani, contribuiscono alla fuga dalle campagne verso le città, adottano rapidamente il modello di fecondità del paese che li ha accolti, riequilibrano i cittadini abitanti in singoli paesi ma non bloccano il processo globale che in un trentennio dovrebbe portarci al picco di popolazione mondiale e all’inizio del calo. Il declino demografico ci sarà eppure non dovrà per forza coincidere con il declino sociale, Bricker e Ibbitson chiudono così il volume, sollecitando un opportuno confronto interdisciplinare.
Ora che finisco di scrivere, rileggere e revisionare definitivamente il testo (molte ore dopo l’inizio) siamo 7 miliardi 811 milioni 340 mila abitanti umani del pianeta Terra, ancora in accelerato aumento. Il sito che registra i dati ha dei contatori aggiornati di continuo (numero abitanti proprio nel momento in cui si legge in frenetico aumento, nascite per anno, nascite oggi, morti per anno, morti oggi, crescita netta della popolazione per anno, crescita oggi). Osserviamoli con stupore e senza fretta. Le dinamiche che collegano i cambiamenti climatici (col riscaldamento) alle migrazioni animali e vegetali (sempre più verso nord), gli ecosistemi alla demografia, le altre specie ai sapiens, i vivi ai morti, l’essere umani all’essere italiani, gli stanziali ai migranti, i fuggitivi ai migranti, gli emigranti agli immigrati, i meticci di qui dai meticci di là sono evoluzione biologica e vita reale, statistiche e tendenze ci aiutano a farcene una ragione (in più).