Abdulrazak Gurnah. Foto: Reuters
Un altro che in Italia non c'è. Il libro più recente di Abdulrazak Gurnah è, se non sbaglio, un Garzanti vecchio di 15 anni.
— Andrea Tarabbia (@andreatarabbia) October 7, 2021
Continuiamo pure a parlare di Murakami e Ernaux. Dio che provincia che siamo. #NobelPrizeLiterature
Così twitta Andrea Tarabbia (scrittore vincitore del Premio Campiello nel 2019) qualche minuto dopo l'annuncio del Premio Nobel alla Letteratura 2021, che quest'anno va allo scrittore e saggista Abdulrazak Gurnah, zanzibarino, naturalizzato inglese. Gurnah è il quinto africano a essere insignito del riconoscimento massimo, dopo Wole Soyinka (Nigeria, 1986), Naguib Mahfouz (Egitto, 1988), Nadine Gordimer (Sudafrica, 1991) e John Maxwell Coetzee (Sudafrica, 2003) e riceve il Nobel con una motivazione fortemente sociale: " Per la sua intransigente e compassionevole penetrazione degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato nel golfo tra culture e continenti". Ecco quindi perché succede, a volte, quando viene annunciato un Nobel, che vengano disattese le aspettative di quel pubblico di lettori che vorrebbero insigniti autori molto noti - e letti - come Murakami, McEwan, Atwood, Marías ecc. dati ogni anno come favoriti e ci si trovi a tratti spaesati, di fronte alla scelta dell'Accademia di Stoccolma. Perché si dimentica l'importanza degli aspetti sociali nell'assegnazione del Nobel. Poco importa che Tarabbia dica un'inesattezza: dei dieci romanzi di Gurnah (cui si aggiungono anche due raccolte di racconti e due saggi) sono tre, e non uno, a essere stati tradotti e pubblicati in Italia, tutti da Garzanti - Paradiso (Paradise, 1994), selezionato per il Booker Prize e per il Whitbread Prize, Il disertore (Desertion, 2005), e Sulla riva del mare (By the Sea, 2001), selezionato per il Booker Prize - ma l'impressione che Tarabbia riporta è corretta. Di certi mondi letterari, in Italia, si parla poco. Abbiamo incontrato a questo proposito Annalisa Oboe, docente di letteratura inglese e studi post coloniali all'Università di Padova, che Abdulrazak Gurnah lo conosce personalmente e con il quale condivide gli interessi di studio.
Perché, secondo lei, vince Abdulrazak Gurnah con questa motivazione?
Non è mai abbastanza chiaro in Europa e in Italia, come i fenomeni delle migrazioni globali che abbiamo cominciato a vedere avvenire dagli anni Novanta in poi, derivino da una lunga storia coloniale che parte agli albori della modernità, prima con la tratta degli schiavi poi con gli imperi coloniali a partire dal Seicento. Anche noi in Italia ne abbiamo avuto uno, di cui abbiamo cancellato il ricordo, perciò il lavoro che si sta facendo in Italia per portare i discorsi di cui io mi occupo in ambito anglofono nella nostra realtà sono volti a riaprire gli archivi del passato coloniale per far capire come effettivamente ci siano delle state delle dinamiche storiche, economiche e di potere che non sono mai state analizzate e che sono al cuore della definizione di chi noi siamo e di com’è la nostra nazione. Le migrazioni attuali sono parte di una storia di rapporti tra il nord e il sud del mondo la cui esistenza deve essere in qualche modo, se non digerita, almeno affrontata. Gournah si occupa di questo, e se ne occupa in un modo assolutamente originale, scrivendo romanzi, saggi e insegnando letteratura inglese e studi postcoloniali, esattamente come me, alla University of Kent a Canterbury, dove vive da quando è ragazzo. Si è infatti trasferito in Inghilterra a 18 anni, quand’è fuggito con la sua famiglia dalle persecuzioni contro gli africani di origine araba durante la rivoluzione che ha portato alla costituizione della Tanzania postcoloniale, perciò il tema della migrazione ha segnato la sua vita in maniera determinante. Il destino di chi richiede asilo e poi ottiene uno stato di rifugiato, quindi di cittadino, è stato nel suo caso un percorso vincente ma Gurnah sa benissimo che non è così per tutti: ecco perché ha molto lavorato come scrittore e come studioso attorno alla figura di chi non ha casa, di chi vive portato dagli eventi, dalla storia, dagli incontri più o meno fortuiti con gli altri o con l'altro.
Com’è la scrittura di Gurnah?
Dei suoi romanzi si ricordano molto le atmosfere e le tessiture quasi incantatorie. Per esempio Paradiso è un romanzo ambientato immediatamente prima e dopo la Prima guerra mondiale in un momento in cui in Africa orientale arrivano i tedeschi e ne occupano il territorio. Gurnah però non ci dice che - prima - l’Africa vivesse in un paradiso idillaco, viceversa seleziona la storia di un ragazzo che viene venduto da suo padre a un mercante per saldare un debito,e questi fa di lui uno schiavo ma gli permette anche di viaggiare attraverso tutta l'Africa Orientale. L’atmosfera in cui il protagonista si trova immerso è, da un lato, molto avventurosa ed eccitante, ma, dall’altro, lo tiene profondamente legato a delle logiche di asservimento e di subalternità, anche sessuale. Si tratta di una visione da Mille e una notte però in chiave post-esotica. Tutto il romanzo è la ricostruzione di un mondo scomparso, in cui a un certo punto irrompe l’occupazione straniera, però quest’ultima viene vista come parte della storia perché costituisce uno dei modi in cui da sempre le culture si incontrano, si scontrano e acquisiscono potere.
Perché proprio a lui il Nobel?
Come lui ci sono tantissimi altri autori bravi che scrivono bene e che stanno a cavallo tra culture. Penso che nell’Accademia ci sia stato un interesse geopolitico verso il territorio africano. Se guardiamo quali altri autori hanno vinto il Nobel, ci accorgiamo che c’è una copertura quasi completa dell’Africa: Soyinka per l’Africa Occidentale, Mahfouz per l’Africa del Nord, due Sudafricani (Gordimer e Coetzee), Doris Lessing in Zimbawe. Mancava proprio l’Africa Orientale. Candidati al Nobel da tanti anni ci sono altri scrittori, oltre a Gurnah, provenienti da quella regione, come Ngugi wa Thiong'o, che è adesso molto anziano ma è stato una grandissima presenza nella letteratura del Kenya e globale. Perché Gurnah e non Ngugi? Forse perché Gurnah sta parlando al presente, sta parlando di e a generazioni di rifugiati. Dice pressappoco così: “Sono problemi da affrontare in modo più gentile” e questa frase lo rappresenta molto, anche per il suo temperamento. Dobbiamo prenderci cura di un mondo che sta diventando sempre più un mondo di rifugiati, dobbiamo fare i conti con l'onda lunga degli spostamenti delle persone sul globo, e non dalla caduta del muro di Berlino ma da molto prima: dalle guerre mondiali, dal colonialismo. Gurnah mette insieme questi racconti in un modo tutto personale. La sua scrittura non è una scrittura facile, ma quando riesci a prenderne il ritmo, che prima chiamavo incantatorio, e che è anche a tratti enigmatico, alla fine ti rimane un quadro di relazioni che si moltiplicano: da una parte i suoi sono racconti violenti di imposizione e di sopruso e dall'altra, invece, sono produzioni di immaginari talmente ibridi che si fa fatica a capire da dove vengano, ma costituiscono un palinsesto di tracce: quelle della cultura indopersiana, della cultura araba, della cultura swaili, della cultura zanzibarina, della cultura Black British in Inghilterra. Gurnah è il prodotto di tutto questo, e lo restituisce però con una specifica cifra personale: non c'è nessuno gli somigli in termini di scrittura. Non che io conosca almeno.