Come si fa a vendere qualcosa? La risposta è sempre la stessa, sia nel caso di oggetti materiali sia quando parliamo di informazione e divulgazione: l'ascolto del target, cioè dei destinatari del prodotto e, più in generale, delle persone a cui si vuole comunicare un messaggio, è uno dei capisaldi del marketing.
In teoria, per raggiungere un obiettivo di vendita non ci vuole molto: sarebbe sufficiente ideare un prodotto che risponde a un bisogno che i potenziali clienti sono consapevoli di avere, o che anticipi questo bisogno, andando a soddisfare quella che viene definita "domanda latente", un po' come quando Henry Ford diceva che se avesse dato retta ai suoi clienti avrebbe venduto cavalli più veloci, perché loro alle automobili proprio non ci pensavano. In seconda battuta, bisogna trovare un modo per far sapere a queste persone che il prodotto esiste, spiegare che le sue caratteristiche lo rendono risolutivo e far arrivare il messaggio a tutte quelle persone per cui il prodotto era stato pensato. Purtroppo per le aziende, anche quelle più grandi, questo meccanismo apparentemente semplice può incepparsi in vari punti. Per esempio il prodotto di partenza può essere stato creato secondo presupposti sbagliati, intuendo nel target un bisogno che non è così pregnante. Oppure un buon prodotto viene rovinato dal marketing, perché non si riesce a entrare in sintonia con il cliente ideale.
Ma come si fa a conoscere i bisogni degli ipotetici clienti? Per molto tempo si è pensato che la risposta fosse semplice: "Glielo chiediamo!". E così sono nati i focus group: si riunivano un gruppo di persone che venivano invitate a discutere di un prodotto, di un'idea o di tutto ciò che ruotava intorno all'oggetto della vendita. A volte funzionava, a volte no (nel focus group di Ford, per esempio, i membri avrebbero probabilmente discusso di come rendere i cavalli più veloci). Il problema principale era dovuto a quella che si potrebbe chiamare "legge del marketing secondo Doctor House": i clienti mentono. A volte non lo fanno neppure apposta e mentono soprattutto a sé stessi, come quando pensiamo di comprare un prodotto più sostenibile ma poi ci facciamo scoraggiare dal prezzo più alto. Questo emergeva quando, dopo il focus group, i partecipanti venivano mandati nel negozio con un budget definito e spesso la scelta effettiva non corrispondeva a quella dichiarata. C'era poi il problema che spesso durante il dibattito emergeva un leader, e gli altri tendevano ad assecondarlo, ma non al punto di farsi influenzare anche durante l'acquisto. I sondaggi soffrono più o meno delle stesse criticità, tanto più che difficilmente riescono a mettere in luce quella domanda latente di cui parlavamo, quindi possono servire solo a mettere in luce vantaggi e criticità di prodotti o servizi che qualcuno ha già ideato.
Allora come possiamo "leggere nella mente" del target per prendere decisioni basate su dati oggettivi? Una prima risposta è affidarsi al neuromarketing: nato nel 21esimo secolo, prevede l'utilizzo di test strumentali per analizzare ciò che accade nel cervello delle persone esposte a determinati stimoli (viene molto usata, per esempio, la risonanza magnetica). Ovviamente non sono molte le aziende che possono affidarsi direttamente al neuromarketing, perché i costi non sono alla portata di tutti. L'alternativa è quella del social listening, cioè l'analisi delle conversazioni che avvengono sui social network. Anche qui servono degli strumenti specifici, dei software che vanno a cercare determinate parole chiave a seconda della strategia di marketing, ma i costi sono meno proibitivi, quando non addirittura nulli. Uno dei vantaggi è che spesso, quando navighiamo sui social, siamo distratti, e a volte non riusciamo a mettere in atto quei retropensieri che ci portano a mentire quando sappiamo di essere osservati. Con le dovute cautele, quindi, il social listening è una risorsa importante, anche perché si va a lavorare su un grandissimo numero di persone.
Di recente, però, è uscito il rapporto The state of social listening in 2022 di Social Media Today che raccoglie l'esperienza di 650 professionisti della comunicazione aziendale. È emerso che quasi tutti (l'82%) ritengono il social listening fondamentale per creare una strategia di marketing, ma che molti di loro (lo ammette meno del 50%, ma altre risposte fanno pensare che siano molti di più) non sanno bene di cosa si tratta. Alcuni, per esempio, utilizzano solo Google per raccogliere dati e, anche se Google Analytics non fosse stato nel frattempo vietato in Italia dal Garante della privacy, non sarebbe comunque sufficiente: è necessaria una piattaforma dedicata per il monitoraggio dei social (o anche più di una, perché alcune sono specializzate nell'analisi di un social specifico e non di tutti gli altri).
Sarebbe un errore pensare che l'ascolto del target, in qualsiasi forma si scelga di farlo, sia utile solo alle aziende in senso stretto. Anche nel caso della divulgazione e del giornalismo è utile avere una strategia che tenga conto della domanda e non è un caso se nei progetti di ricerca europei viene richiesta sempre più spesso una strategia per i social network, che permettono di raggiungere un numero di persone impensabile solo 15 anni fa.
Questo non significa, semplicisticamente, adattare i contenuti alle richieste dirette del pubblico, ma è innegabile che sia necessaria una strategia più elaborata se la testata o l'ente vogliono portare all'attenzione dei lettori argomenti importanti che però non hanno ancora catalizzato l'attenzione delle masse.
Teniamo presente che stiamo vivendo nell'era della subscription economy: dopo anni in cui i giornali online sono andati avanti guadagnando dai link sponsorizzati all'interno degli articoli, ora la maggior parte si sostiene grazie agli abbonamenti digitali (come fanno le piattaforme di streaming, del resto). Va da sé che devono dare al loro pubblico di riferimento dei motivi per abbonarsi, e questo non può essere fatto senza l'ascolto del target.
Un esempio virtuoso, in questo senso, è quello del Financial Times, che ha superato il milione di abbonati digitali. Non li ha ottenuti per caso, ma sono stati assunti degli esperti con il compito di prendere delle decisioni basate sui dati, in questo caso quelli di navigazione del sito. Molti giornali online ragionano solo sul dato del numero dei click (con derive sgradevoli come quegli articoli di scarso valore costruiti su un titolo ingannevole che ha il solo scopo di ottenere visite) mentre bisognerebbe analizzare anche il tempo passato effettivamente sulla pagina, e sugli altri click che seguono la prima lettura.
Si è scoperto così che c'erano articoli molto performanti, sia per numero di click che per tempo di lettura e click successivi, articoli che vedevano un alto numero di click ma anche un grande tasso di abbandono (in questo caso probabilmente il titolo non corrispondeva al contenuto, oppure quest'ultimo era poco leggibile), articoli con pochi click e alto tasso di abbandono (l'unico vero insuccesso) e per finire articoli con pochi click ma con un altissimo tasso di coinvolgimento: gli utenti rimanevano sulla pagina a lungo e questo indicava un interesse molto forte. In quest'ultimo caso, il contenuto si rivolgeva quindi a una nicchia più ristretta, ma non per questo inutile: non solo andava a rimpinguare la lista degli abbonati, ma probabilmente avrebbe parlato bene del giornale che comprendeva i suoi interessi ad altri potenziali lettori. Ecco la ricetta per arrivare a un milione di abbonati: all'apparenza è semplice, ma serve la volontà di avere qualcuno che si occupi dell'analisi dei dati e che li sappia interpretare correttamente.
Insomma, trovare un modo per intercettare i desideri del target, espressi o inespressi, è il modo migliore per avere successo, online e offline. Il passo avanti sarà insegnare alle aziende l'arte dell'ascolto, perché a volte c'è un divario tecnico da colmare, ma nei casi peggiori ci si trova di fronte a un totale disinteresse nei confronti del destinatario della comunicazione o alla volontà di imbrogliarli per un vantaggio solo momentaneo.