SOCIETÀ

L'Earth Day compie 50 anni, ma c'è poco da festeggiare

Il 22 aprile si celebra L’Earth Day (Giornata della Terra). Quest’anno è il suo 50° compleanno. Infatti è dal 22 aprile del 1970 che è nata questa giornata la quale ha radici più profonde, piantate prima (1962) dal senatore americano Gaylord Nelson – supportato da Robert Kennedy - sull’onda delle giovanili proteste contro la guerra in Vietnam. Poi ramificate decisamente nel 1969 in seguito al disastro provocato dalla fuoriuscita di petrolio dal pozzo della Union Oil al largo di Santa Barbara, in California. E, finalmente, l’anno dopo quando venti milioni di americani parteciparono alle proteste contro il degrado ambientale organizzate da college e università. Era il 22 aprile e da allora quel giorno divenne l’Earth Day, la Giornata della Terra.

Il 1970 è un anno importante nella recente storia della sensibilità verso i problemi della qualità ambientale in seguito alla crescente presa di coscienza di inquinamento di aria, acqua, suolo a causa dello sconsiderato uso, consumo e abuso di risorse che si “scoprì” essere esauribili e non utilizzabili all’infinito. Lo rese noto a chi non se ne era ancora reso conto il primo dei rapporti del MIT (Massachusetts Institute of Technology) al Club di Roma che, tradotto in italiano,  fu il “famoso” I limiti dello sviluppo

Il 1970, dicevo, fu un anno importante perché cominciò a montare non tanto e non solo la protesta, ma la consapevolezza di vivere in un pianeta la cui crescita non si poteva considerare espandibile all’infinito ritenendo di operare su quella che si considerava “una Terra traboccante all’infinito di ricchezze naturali” secondo la definizione di Henry Morgenthau, Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, nel 1944, in apertura della Conferenza di Bretton Woods. 

Sulla scorta di questa acquisita consapevolezza e della spinta ad intervenire per il futuro oltre che per il presente, le Nazioni Unite organizzarono una serie di Conferenze internazionali sui problemi uomo-ambiente-sviluppo economico. 

Una serie di Conferenze, tuttavia svoltesi in un clima di generale decrescente “entusiasmo” ben diverso da quello che aveva alimentato il “movimento” nato nelle università californiane e “sbarcato” in Europa e anche in Italia. 

Conferenze, dicevo. In genere con questo termine si usa parlare di un evento nel quale una persona (il conferenziere) parla ad altre che lo ascoltano su un tema solitamente preordinato. Ma se cerchiamo su un vocabolario apprendiamo che:

Conferenza: “Colloquio cui intervengono più persone generalmente come rappresentanti di enti o di Stati, per effettuare uno scambio di vedute, fornire ed assumere informazioni di comune utilità, risolvere vertenze”. 

È questo lo strumento che, in epoca contemporanea, gli organismi internazionali utilizzano per discutere su tematiche di rilievo internazionale. Il Congresso di Vienna (1815) ne è un possibile esempio, tanto per non andare troppo lontano nel tempo; anche Yalta (1945) illustra bene il concetto. I risultati di quegli incontri e il modo in cui sono stati raggiunti sono sufficientemente noti e significativi. Quegli incontri avevano per tema la “normalizzazione” dell’Europa e del resto del pianeta dopo gli sconvolgimenti di Napoleone e della seconda guerra mondiale. 

Dopo che in questa guerra fu dimostrato, con il sacrificio di Hiroshima e Nagasaki, che una terza guerra sarebbe stata verosimilmente anche l’ultima e la definitiva, si decise di anticipare i tempi e di mettere un punto alle guerre (quelle mondiali, si intende). 

Liberata a lungo da queste preoccupazioni l’umanità ha, poi, cominciato a guardarsi intorno con diversa attenzione, ad altri “emergenti” problemi. Non tutta l’umanità, ma la minoranza più ricca: quella che produce, consuma, inquina e genera rifiuti in quantità enormemente superiore al resto del pianeta. Questa nuova attenzione si é concentrata soprattutto sui problemi che derivano all’ambiente proprio dal modo di produrre, consumare, inquinare.

Come ricordavo, il 22 aprile dal 1970 fu denominato Giornata della Terra. Molto prima l’Italia aveva inventato la “festa degli alberi” - a parziale riparazione della “festa agli alberi” che aveva caratterizzato la ricostruzione post-bellica - con grande partecipazione di scolaresche ed emissione di francobolli commemorativi. Poi, con motivazioni e intenti diversi, ma anche con differenti livelli di serietà, sono seguiti le conferenze e gli “anni di...”.

Santiago del Cile 1972, Stoccolma 1972, Rio de Janeiro 1992, Bucarest 1974, Città del Messico 1984, Il Cairo 1994,Johannesburg 2002, le varie Conferenze delle parti (Cop che sono state 25 dal 1995) sui mutamenti climatici, sono le date delle principali Conferenze internazionali organizzate dalle Nazioni Unite sui problemi dell’ambiente, dello sviluppo e della crescita demografica. Avvenimenti molto enfatizzati dalla stampa, dalla propaganda, dalle polemiche e da quant’altro ruota da 50 anni intorno ai temi dell’ambiente, della popolazione, delle risorse e dello sviluppo.

Ma sono anche le date di altrettante sostanziali delusioni per chi si aspettava, in buona fede, che da questi incontri potesse scaturire qualcosa capace di modificare i rapporti tra Nord e Sud del pianeta. 

Nulla o poco é successo, allora come oggi, e nulla succederà riguardo a questi temi vitali per la sopravvivenza dell’umanità, sino a quando il Nord non deciderà di mettere in discussione il modello di sviluppo e di consumi in base al quale ha realizzato la sua ricchezza e la sua forza politica e militare.

In questo contesto di - almeno personale - delusione si può inserire il 50° anniversario di cui sto parlando. Il rapporto al club di Roma sui “dilemmi dell’umanità” che prima ricordavo costituì una importante svolta al modo di affrontare il problema. Un modo che, secondo il presidente del Club di Roma Aurelio Peccei, era quello di “accendere un grande dibattito sui Dilemmi dell’Umanità, e di catalizzare in energie innovatrici la diffusa sensazione che, coll’avvento dell’era tecnologica, qualcosa di fondamentale deve essere modificato nelle nostre istituzioni e nei nostri comportamenti”.

I ricercatori del MIT, dunque, in modo autorevole cominciarono a porre il problema dei “limiti” alla crescita ipotizzando -per rimandare il più lontano possibile “l’incontrollabile declino del livello di popolazione e del sistema industriale” - una società sostanzialmente stazionaria che riducesse al minimo i consumi di risorse e il suo tasso di sviluppo realizzando quella che venne definita “crescita zero”.  

Si comprende subito, anche 50 anni dopo la pubblicazione di quel primo rapporto, che il contenuto e le implicazioni della prima diagnosi sui dilemmi dell’umanità e della terapia indicata per sanarli fossero tali da suscitare ampio interesse e da alimentare un dibattito che, infatti, subito si andò sviluppando intorno al tema proposto e con accenti anche violenti sino ad arrivare a definire “imposture” le analisi fatte proprie dal Club di Roma. Ciò perché non si poteva non sottolineare anche il contenuto sottilmente discriminatorio della proposta che, coerente con la visione predominante dello sviluppo, presentava molti punti deboli nei confronti di chi non riconosceva la validità di quella visione e si proponeva di puntare su una crescita di tipo diverso. 

Soprattutto si rilevò che i popoli della Terra non si trovavano (nel 1970 ancor meno di oggi) in uguali condizioni politiche e sociali e avevano raggiunto livelli di consumo e di sviluppo molto diversificati, per cui non era possibile ipotizzare una “crescita zero” per la società nel suo complesso, a meno di non voler perpetuare i grandi e drammatici dualismi esistenti tra i paesi sviluppati e la vasta gamma dei paesi genericamente indicati come sottosviluppati. 

Lo stesso Club di Roma, che peraltro aveva inteso proprio portare materiali per un dibattito, attraverso i numerosi altri rapporti che seguirono, ha progressivamente modificato il tiro.

Sta di fatto che da quella data si cominciò a criminalizzare il concetto di sviluppo, a distinguere tra crescita e sviluppo, ad usare il termine con un certo “pudore” cercando di “attutirne” l’impatto eventualmente negativo sull’ambiente addolcendolo con gli aggettivi di compatibile e, in ultimo, “sostenibile” (Rapporto Brundtland, 1987). 

Ma oggi, prendendo spunto dal 50° della Giornata della Terra che cosa è eventualmente cambiato? E che cosa ne è di quei dilemmi dal punto di vista quantitativo e da quello qualitativo? Soprattutto, che ne é nell’ambito del rapporto uomo/ambiente/qualità della vita?

E, ricordando che stiamo parlando del 22 aprile, a che servono queste giornate e quelle Conferenze? 

Servono e sono certamente utili a ricordare che esiste un problema e che, per alcuni aspetti, (quello climatico specialmente) si va ingigantendo. Quindi servono a mantenere desta l‘attenzione.

Ma tutto questo non si può esaurire in una giornata, in una delle tante “giornate di …” di cui è pieno il calendario. 

Questa della Terra è la cinquantesima di 18.250 che sono le giornate trascorse dal 1970 ad oggi (trascurando di ricordare i giorni in più degli anni bisestili). Non basta. Non basta un giorno per ricordare un pianeta afflitto da problemi sociali, economici, ambientali.

Non bastano ventiquattro ore durante le quali in questo 2020 non si potrà nemmeno scendere in piazza per manifestare la preoccupazione e per sollecitare con forza interventi riparatori.

Non basta. Se, poi, domani è un altro giorno.

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