SOCIETÀ
L’economia mondiale alla prova della pandemia: filiere globali, sistema da ripensare?
Foto: CHUTTERSNAP/Unsplash
Negli ultimi decenni il sistema economico globale si è sviluppato a grande velocità, rafforzando sempre più l’interconnessione e l’interdipendenza planetaria tra i diversi attori coinvolti, pubblici e privati. Oggi, infatti, ogni elemento dell’economia mondiale è legato agli altri in una imponente rete di catene di approvvigionamento internazionali che includono tutte le fasi di mercato, dalla produzione alla distribuzione e alla commercializzazione dei prodotti. Una simile struttura ha consentito una rapida crescita dei profitti, un’estensione dei mercati e un ampliamento della gamma di prodotti disponibili a costi contenuti, grazie alla diversificazione dei processi produttivi su scala mondiale: tutti gli attori, cioè, hanno potuto specializzare le proprie attività, beneficiando dell’integrazione produttiva garantita dall’internazionalizzazione delle filiere.
La crisi pandemica scoppiata nel 2020, tuttavia, ha improvvisamente mostrato – con un’ampiezza mai verificatasi in precedenza – tutti i limiti di questo sistema globalizzato e altamente interconnesso, evidenziandone le debolezze e la scarsa capacità di resilienza. Come si sottolinea in un’analisi dell’Open Markets Institute, non è certo la prima volta che il sistema economico globale attraversa periodi di crisi: gli eventi catastrofici più vari – un terremoto, un incendio, una crisi geopolitica o finanziaria, come quella del 2008, o una minaccia sanitaria, come l’epidemia di SARS del 2003 – hanno innescato, solo negli ultimi vent’anni, diversi momenti di sconvolgimento delle catene di approvvigionamento globale.
«Tutti questi eventi – si legge nella succitata analisi – sono accomunati da tre caratteristiche fondamentali:
- larga parte della capacità produttiva relativa ad alcune componenti essenziali è localizzata in una sola regione, o addirittura in un’unica fabbrica;
- una calamità naturale o un problema politico tagliano fuori quella regione o fabbrica dal più ampio sistema di produzione;
- non vi sono sostituti immediatamente disponibili».
Il problema, dunque, è nell’iperspecializzazione: laddove la produzione di merci e componenti essenziali per l’economia mondiale viene demandata a singoli attori, dalla cui capacità produttiva viene a dipendere l’intero sistema, non è più garantita la possibilità di rispondere tempestivamente a fattori di disturbo – quale, ad esempio, una pandemia. Nel corso di quest’anno, abbiamo assistito agli effetti di diversi “colli di bottiglia” del sistema di produzione globale: basti pensare alla crisi dei dispositivi di protezione individuale, di farmaci e di test che ha colpito duramente il mondo occidentale nei primi mesi della pandemia, o l’attuale carenza di microchip, componenti essenziali della maggior parte dei dispositivi elettronici, che sta mettendo a dura prova l’industria automobilistica.
Foto: Lenny Kuhne/Unsplash
In reazione allo shock economico del 2020 – i cui contraccolpi saranno probabilmente ben visibili nei prossimi anni – non tutti, oggi, sono ancora disposti a scommettere sulla collaborazione internazionale, e diversi paesi aspirano, ora, a garantirsi una certa autonomia, almeno per quanto riguarda la produzione di alcune merci essenziali. È il caso degli Stati Uniti, dove, sotto la guida del presidente Biden, sono state varate misure di nazionalizzazione in alcuni settori dell’economia, con lo scopo di ridurre la propria dipendenza dalle importazioni, e dunque dalla funzionalità delle filiere globali. Si tratta di una scelta di forte impatto, che sembra indicare un’apparente inversione di rotta rispetto alla tendenza alla globalizzazione cui si è assistito da alcuni decenni a questa parte. Secondo alcuni analisti, stiamo addirittura assistendo alle prime fasi di un processo di deglobalizzazione. Altri, al contrario, ritengono che tali tentativi non sapranno risolvere gli attuali problemi, né riusciranno a proteggere le economie nazionali da future crisi; piuttosto, sono in molti a sostenere che, per superare i limiti delle filiere globali, si debbano addirittura aumentare la globalizzazione e l’integrazione economica.
Abbiamo chiesto un’opinione a Roberto Bonfatti, docente di Economia politica all’università di Padova.
Riassumiamo le coordinate di questo dibattito: in che modo l’economia mondiale si è evoluta fino all’attuale livello di interconnessione, e quali potrebbero essere i pro e i contra di due soluzioni opposte, come la tendenza alla nazionalizzazione e il rafforzamento dell’integrazione globale?
«L’internazionalizzazione delle filiere produttive costituisce la fase più recente della globalizzazione, quel processo di crescente interdipendenza economica tra Paesi iniziato a fine ’800. Fino a pochi decenni fa, la globalizzazione consisteva nel fatto che paesi diversi si specializzassero nella produzione e nell’esportazione di prodotti finiti diversi. In decenni recenti, con lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione, è diventato profittevole spezzettare la produzione in fasi (o “compiti”), e darne molte in outsourcing all’estero.
Un aspetto specifico della globalizzazione delle filiere produttive è dato dal fatto che la produzione di certe componenti a largo utilizzo – come ad esempio i semiconduttori e i microchip, i principi attivi dei farmaci, le terre rare – si sia progressivamente concentrata in pochissimi paesi, rendendo il resto del pianeta dipendente da questi ultimi.
Per quanto il commercio sia oggi infinitamente più complesso di quanto non fosse un tempo, i principi fondamentali che ne sono alla base non sono cambiati: da una parte quello del vantaggio comparato, descritto da David Ricardo quasi due secoli fa, e dall’altra quello dei rendimenti di scala crescenti, descritto da Paul Krugman negli anni ’80 del XX secolo. In base a questi principi, aprirsi al commercio aumenta il benessere totale delle nazioni coinvolte. Il motivo è semplice: se un paese si apre al commercio, esso può specializzarsi in ciò che sa fare meglio (vantaggio comparato), portando a una maggiore varietà e alla maggiore efficienza ottenibile quando la produzione avviene su larga scala (rendimenti di scala crescenti).
Un problema delle globalizzazione delle filiere produttive è che essa può creare delle vulnerabilità: se, ad esempio, l’intera produzione mondiale di componenti essenziali come i microchip si concentra a Taiwan, qualsiasi shock (naturale, politico o economico) che colpisca questo Paese può mettere in crisi l’intero sistema globale. I sostenitori del reshoring (o rimpatrio) delle filiere produttive enfatizzano quest’ultimo aspetto, propugnando politiche nazionali che incoraggino la produzione domestica di componenti essenziali (come sussidi alla produzione, o tariffe sulle importazioni). I sostenitori dell’ulteriore globalizzazione, invece, sostengono che se la concentrazione della produzione in pochi paesi è un problema, la soluzione non consiste nel generare capacità domestica in ogni nazione (una soluzione artificiosa e insostenibile) ma nell’incoraggiare le aziende a diversificare anche in altri luoghi, ad esempio creando un sistema economico globale ancora più aperto agli investimenti. Questa seconda soluzione renderebbe il sistema economico globale ancora più interconnesso, ma al tempo stesso meno fragile».
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Un tema centrale del dibattito è, infatti, proprio la (scarsa) resilienza del sistema economico globale, la cui attuale organizzazione lo rende soggetto a deleteri “colli di bottiglia” che incidono sulla produzione di beni essenziali come i principi attivi dei prodotti farmaceutici e i semiconduttori. Uno dei principali problemi – secondo alcune voci, tra cui un’analisi firmata dal direttore di Open Markets Institute – è la tendenza di alcuni grandi fornitori a monopolizzare le catene di approvvigionamento di base. Quello della manipolazione del mercato da parte di pochi attori “forti” è un rischio reale? Come far fronte alla questione dei monopoli (o oligopoli)?
«In un mercato libero, può accadere che un’azienda acquisisca una posizione così dominante da diventare monopolista di fatto. Può accadere, appunto, ma non è necessario che accada.
Vi sono due ragioni per cui è giusto temere i monopoli. La prima è di natura economica: un monopolista tende a imporre prezzi superiori al proprio costo marginale di produzione, creando artificialmente un costo maggiore per i consumatori e per la società nel suo complesso. La seconda ragione è di natura geopolitica: se il monopolista concentra la propria produzione in un unico paese, il governo di quel paese potrebbe usare il proprio controllo su quella capacità produttiva come arma di politica estera. Un esempio del rischio geopolitico causato dalla presenza di monopoli è costituito dalla filiera produttiva dei prodotti farmaceutici: l’80% dei principi attivi dei farmaci, infatti, è prodotto in Cina e in India, e, nel marzo del 2020, quest’ultimo paese ha in effetti bloccato, anche se solo per poche settimane, l’esportazione di principi attivi farmaceutici.
La prima criticità è un classico esempio di fallimento di mercato: in tal caso, ai fini di ottenere l’efficienza, è necessario l’intervento pubblico. In pratica, tocca alle Autorità Antitrust nazionali vigilare affinché le aziende in posizione dominante non diventino dei veri e propri monopolisti. La seconda criticità può invece essere risolta attraverso la collaborazione tra governi nazionali e aziende private. A questo proposito, è fondamentale comprendere che sono le aziende stesse a temere le conseguenze dei monopoli politici, e ad avere l’interesse a prendere provvedimenti perché questi non si realizzino, ad esempio varando piani di diversificazione. Poiché tali manovre di diversificazione possono essere molto costose per le aziende, e poiché comportano al tempo stesso benefici per i consumatori, i governi dei paesi ospitanti possono offrire degli incentivi alle aziende coinvolte: è però fondamentale che tali incentivi siano adeguatamente motivati sulla base di un calcolo economico di costi e benefici, privati e pubblici».
“ Uno dei grandi lasciti del XX secolo è un sistema economico globale basato sulle regole e sul multilateralismo. Dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per tutelarlo Prof. Roberto Bonfatti
C’è chi sostiene la necessità di rafforzare istituzioni multilaterali per “salvare” il modello del mercato unico globale, e chi invece sostiene politiche protezionistiche, che mirino ad una maggiore autosufficienza dei singoli Stati, almeno rispetto ad alcuni beni essenziali. Quale delle due tendenze è auspicabile che prevalga, e quali scenari, invece, potrebbero realisticamente verificarsi nel prossimo futuro?
«Credo che, nei prossimi anni, molte azioni di governo saranno vòlte a tentare di rimpatriare le parti considerate più a rischio delle filiere globali. Tali azioni sono nello spirito dei tempi, dato il malessere diffuso verso le disuguaglianze favorite dalla globalizzazione, e date le preoccupazioni occidentali per l’emergere della Cina; inoltre, come accennato, possono avere qualche giustificazione economica, se vòlte a contrastare situazioni di monopolio economico o politico.
È fondamentale, tuttavia, che tali interventi avvengano non in ordine sparso, bensì in un quadro ben definito di regole internazionali. Il mondo ha già conosciuto un’epoca – gli anni ’30 del XX secolo – in cui i governi hanno cercato di risollevarsi da una crisi economica chiudendosi al commercio internazionale, e mirando all’autonomia produttiva. Il risultato è stato un impoverimento generale, e un incremento delle tensioni internazionali che hanno portato alla Seconda Guerra Mondiale. Uno dei grandi lasciti del XX secolo è un sistema economico globale basato sulle regole e sul multilateralismo. Dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per tutelarlo.
Uno dei principali problemi attuali è che l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), l’istituzione incaricata di regolamentare il commercio internazionale, sembra ormai inadeguata ai tempi in cui viviamo. Lo è di fatto, come dimostrato dal fallimento degli ultimi round di liberalizzazione multilaterale, e dal fatto che i Paesi si affidino sempre più ad accordi commerciali bilaterali, o tra sotto-insieme di paesi (si veda ad esempio il recente accordo tra UE e Canada, o tra UE e Giappone). Lo è anche di diritto, in quanto non è del tutto chiaro se il suo mandato (che risale al 1993, anno della fondazione) includa la capacità di regolamentare fenomeni come la sicurezza degli investimenti diretti all’estero, e il rimpatrio di parti delle filiere internazionali.
Per decenni, l’OMC (e il suo predecessore, il GATT) è stata un baluardo per la difesa del sistema economico globale basato sulle regole e il multilateralismo, ad esempio intervenendo nelle dispute commerciali tra paesi e contribuendo a risolverle. È fondamentale che le sue funzioni vengano potenziate, così che sia in grado di garantire che le filiere globali rimangano aperte, a tutti e per tutti. L’Accordo sulla Facilitazione del Commercio del 2017, vòlto a ridurre i costi di transito al confine per le merci, è già un passo avanti nella direzione di rendere le filiere globali più capaci di reagire a una crisi. Attualmente, L’OMC sta considerando un nuovo accordo multilaterale che crei e disciplini un sistema di regole per facilitare gli investimenti diretti all’estero. È potenziando iniziative di questo genere che si può arrivare a una situazione in cui tutti i paesi possano sfruttare i vantaggi delle filiere globali, senza per questo sentirsi esposti ad eccessivi rischi geopolitici».