Giorgio Parisi durante la cerimonia per il dottorato ad honorem nell'Aula Magna dell'Università di Padova. Foto: Alessandra Lazzarotto
Giorgio Parisi, fisico e premio Nobel 2021, professore emerito di Fisica teorica alla Sapienza Università di Roma e vicepresidente dell'Accademia dei Lincei, ha ricevuto ieri pomeriggio, nell’ambito delle celebrazioni per gli 800 anni dell’Università di Padova, il diploma di dottorato di ricerca ad honorem in Physics "per i suoi pioneristici contributi nella fisica teorica delle particelle elementari, nella teoria quantistica dei campi e nella fisica statistica, e in particolare per aver svelato l’interazione fra disordine e fluttuazioni nei sistemi fisici a tutte le scale possibili, risultato che gli è valso il Premio Nobel 2021 per la Fisica".
Autore di diversi libri, negli ultimi anni ha raccontato la sua ricerca e i suoi percorsi, scientifici e personali in due volumi, In un volo di storni (Rizzoli, 2021) e Gradini che non finiscono mai. Vita quotidiana di un Premio Nobel (2022, La Nave di teseo, scritto con Giorgio Paterlini). Dai racconti, le riflessioni, gli spunti che Parisi intreccia in questi due libri, siamo partiti in questa conversazione che abbiamo avuto con Giorgio Parisi prima dell’inizio della cerimonia di conferimento del dottorato ad honorem, a Palazzo del Bo.
Partirei da un tema che attraversa tutte le cose che ci racconta in tante pagine dei suoi ultimi due libri. È il tema della libertà. Lei esprime una grande libertà che ha attraversato tutta la sua carriera scientifica, e anche la sua vita personale, la libertà di scegliere, anche di potersi spostare tra argomenti diversi. Che ruolo ha giocato e quanto è importante difendere questa libertà?
In effetti non avevo mai riflettuto sul tema dal punto di vista personale. Nell’ambiente della fisica, senz’altro quello di una volta, ma anche in generale, è abbastanza comune, tranne il periodo in cui uno è borsista e in fase di formazione iniziale, di avere una grande libertà nella scelta dei temi da studiare. È questa è una cosa molto importante perché le cose più interessanti cambiano, e non solo le cose più interessanti in assoluto ma quelle dal punto di vista di una data persona. Perché durante gli studi uno accumula un bagaglio di conoscenze, una certa cassetta degli attrezzi. E può succedere che a un dato momento uno si trovi ad essere una delle persone con la cassetta degli attrezzi giusta per studiare un dato problema. Ed è dunque giusto che cambi la sua linea di ricerca. E dunque sì, è estremamente importante la libertà di ricerca.
Oltre alla libertà, leggendo i suoi libri, viene in mente anche un’altra parola, che è audacia. Lei racconta di avere, in più occasioni, aperto dei campi di studio su cui non c’era praticamente nulla, partendo da una curiosità, da una domanda. Anche dal punto di vista di chi oggi entra nel mondo della ricerca, sono questi, la libertà e l’audacia, valori che vanno tenuti? Che vanno difesi?
Sì, sono molto importanti. È chiaro che l’audacia è qualcosa che comporta un certo rischio. E uno può rischiare solo se in qualche modo si sente le spalle sicure. E proprio per questo motivo penso sia importante che le persone ricevano una posizione permanente a un’età un po’ più bassa di quanto succede ora, che credo sia attorno ai 35-40 anni. Una volta che uno è in una posizione permanente, una persona può pensare di provare a studiare un argomento o un altro, e se non funziona vuol dire che perde un anno della sua vita ma nulla di più. Se invece non ha una posizione permanente, il rischio, in caso di non riuscita, è di non essere più assunto. E dunque in questo caso l’audacia diminuisce notevolmente a meno che uno non sia molto testardo, duro.
Intervista di Elisabetta Tola e montaggio di Barbara Paknazar
Lei racconta diverse situazioni, come quella della costruzione di un super computer o quando avete avviato il lavoro sugli storni, e avete dovuto mettervi a fare riprese e immagini dai tetti, in cui servivano anche competenze molto diverse.
Sì, da un lato servivano competenze molto diverse. Dall’altro, prima di cominciare, non era abbastanza evidente che ci saremmo riusciti. Per esempio, ricordo che quando abbiamo iniziato a costruire il super computer APE, siamo andati con Nicola Cabibbo a fare un seminario al CERN anche per sentire un po’ cosa ci dicevano. Uno dei grandi esperti di informatica e di computer del CERN, che poi ci aveva dato una mano per scrivere una parte del programma, e aveva scritto una parte del programma anche per la macchina più veloce del mondo dell’epoca, che era il Cray, ci disse: “Voi riuscirete a costruire la macchina, ma non riuscirete a scrivere i programmi”.
E invece…
E invece li abbiamo scritti.
E li avete anche usati per un bel po’!
Sì sì. Li abbiamo usati per tantissimo tempo. Poi i programmi sono stati migliorati e così via. Ma in questo siamo stati fortunati, perché non ci saremmo riusciti se non avessimo allargato il gruppo trovando una serie di giovani, anche appena laureati, con le capacità giuste.
Qui c’è anche l’intreccio tra livello teorico e pratico, una riflessione che da anni attraversa tutta la scienza, il tenere insieme le due dimensioni. A lei piace anche molto provare a fare, a sperimentare concretamente le cose.
Sì, non è che lo faccia sempre, ma una volta ogni tanto provare a fare le cose pratiche è fondamentale. È interessante in quei casi che uno si incontra con la resistenza della materia, nel senso che noi siamo convinti di dover fare qualcosa con la materia, e lei, in maniera cocciuta, ne fa un’altra. Senza che noi riusciamo facilmente a convincerla a cambiare.
Un altro aspetto che lei ribadisce in più momenti nel corso del racconto della sua esperienza scientifica è che per aprire una strada nuova, un nuovo percorso di ricerca, ci fosse poi la necessità di mettere a punto strumenti matematici nuovi o adatti a risolvere un certo problema.
Sì, certo. La fisica si distingue moltissimo da altre discipline, per cui la matematica è una parte integrale della fisica. La prima chimica non aveva una grande matematica, anzi non ce l’aveva per niente. La fisica, senza matematica, come diceva Galileo, non si può fare perché il linguaggio della fisica sono triangoli, rette e così via. Però, se la fisica deve usare gli strumenti matematici, questi strumenti matematici devono essere adeguati alla fisica che uno vuole fare. E infatti molto spesso i fisici si sono trovati a inventarsi della nuova matematica, come ha fatto Newton che ha inventato il calcolo differenziale che gli serviva. Oppure devono utilizzare matematica all’avanguardia, come ha fatto Einstein che ha utilizzato la matematica sviluppata dagli italiani, come Ricci Curbastro, per esempio.
Ecco dunque anche il ruolo della creatività e dell’immaginazione. Un’altra parola che torna spesso. Penso a una intervista che ho fatto qualche anno fa al fisico Guido Tonelli, che rifletteva proprio sull’importanza dell’immaginazione.
Sì, l’immaginazione è fondamentale perché le soluzioni alla fine sembrano semplici, ma trovare quali siano le soluzioni semplici non è evidente. La cosa più famosa è il caso della formula del benzene, del chimico tedesco Kekulé. C’erano tutti i chimici che cercavano di capire la formula chimica del benzene. Una notte Kekulé si sognò un serpente che si mangiava la coda e questo gli fece immediatamente disegnare la formula del benzene, che è proprio a forma di anello.
Pensa, i collegamenti. Lei racconta che per molti anni ha letto libri di storia della matematica, storia della fisica. Cioè per molto tempo si è dedicato alla storia della disciplina, e dopo si è messo a farla. La storia delle discipline, forse con l’eccezione della fisica, raramente sono valorizzate. E invece sono un patrimonio importantissimo…
La storia delle discipline sono davvero un patrimonio importantissimo. E sfortunatamente in Italia siamo messi male, perché una volta c’era un certo numero di persone che studiavano la storia della fisica. Pian piano quelle persone sono andate in pensione e le facoltà e i dipartimenti le hanno sostituite con persone che non fanno storia. A Roma adesso ne è rimasto uno solo, un amico mio, pensionato, che si occupa di storia della fisica. Mentre quando sono arrivato io, quarant’anni fa, saranno stati sei o sette. Quindi è un peccato. Perché la storia è estremamente importante anche per fare capire cos’è una disciplina, raccontarne lo sviluppo storico è un modo per far capire bene cos’è una disciplina.
“ Sarebbe fondamentale per l’umanità che almeno i paesi si impegnassero a non utilizzare per primi le armi atomiche
Giorgio Parisi a Palazzo Bo. Foto: Alessandra Lazzarotto
Noi ci siamo sentiti un anno fa, e la guerra in Ucraina era appena iniziata. E in quell'occasione lei ci ricordava che la scienza può svolgere un ruolo nella costruzione di un contesto di pace. Un anno fa lei si auspicava, come tutti noi, che si trattasse di un conflitto breve. E invece siamo a un anno dopo. Lei è sempre stato molto impegnato, sia nelle sue attività all’Accademia dei Lincei che in altre occasioni, nel promuovere attivamente questo ruolo della scienza nella promozione di iniziative di pace.
Io mi ricordo bene che durante la guerra fredda, 30-40 anche 50 anni fa, il fatto che gli scienziati parlassero l’uno con l’altro, che discutessero di armi nucleari, che discutessero di come si può fare qualcosa per bloccare l’escalation, perché in quel momento era importante ridurre il numero di armi nucleari che erano presenti, è stato fondamentale. Ed è stato fondamentale per tutti i discorsi e i contatti che ci sono stati anche con gli accademici russi, come Sacharov e così via. Sacharov, che prima era all’opposizione, durante il periodo di Gorbaciov ebbe invece moltissimi contatti con lui e influenzò molto il suo pensiero, spingendo verso un controllo della situazione. Adesso invece vedo una situazione più difficile di quella della guerra fredda. C’è un sentimento politico anti-russo molto maggiore di quello che ci poteva essere 40-50 anni fa. È diventato molto difficile cominciare a parlare in questa direzione. Quello di cui abbiamo bisogno, indipendentemente dalla guerra dell’Ucraina e forse a maggior ragione a causa di questa guerra, è un trattato in cui le varie potenze si impegnino per prime a non utilizzare le armi atomiche. Questo non è mai stato ottenuto anche perché ci sono delle indicazioni ufficiali della NATO, sia degli Stati Uniti che degli altri paesi NATO, per cui non è interesse di questi paesi una dichiarazione di questo tipo. Anche i russi non vogliono questo impegno. Ma sarebbe fondamentale per l’umanità. Che almeno i paesi si impegnassero a non utilizzare per primi le armi atomiche.
Ho ancora due domande. La prima è sul ruolo dei maestri. Lei cita più volte Nicola Cabibbo e molte altre persone. Persone con cui c’è un rapporto tra docente e studente o collaboratore ma anche un rapporto di amicizia. Visto che siamo in una Università, quanto è importante incontrare la persona giusta, il maestro giusto?
È importante trovare le persone giuste, perché le persone giuste da un lato ti trasmettono dei valori e dall’altro riescono a farti appassionare all’argomento. E questo è fondamentale non solo all’Università, ma in molti casi è fondamentale ai Licei. Io sfortunatamente ho avuto insegnanti pessimi, ma ero più coriaceo degli altri e fortunatamente sono sopravvissuto. Ma molti altri ragazzi e ragazze che hanno insegnanti pessimi nelle discipline scientifiche poi si guardano bene dal fare, all’università, una carriera scientifica. Quindi è estremamente importante l’insegnamento, a tutti i livelli, a partire dalla scuola d’infanzia.
Chiudo sul tema dei finanziamenti. Lei è stato uno dei promotori del cosiddetto Piano Amaldi. C’è poi stato anche il rapporto dell’ex ministra Messa. Da più parti arrivava l’invito a cogliere il momento per alzare nell’insieme il tasso di finanziamento alla ricerca. L’attuale legge di bilancio però non sembra andare in quella direzione.
È un tema estremamente importante. Quello che bisogna cercare di fare è di fare un piano quinquennale, che arrivi dopo il PNRR, anche per capire cosa succede alla ricerca. Anche perché con il PNRR vengono aumentati, giustamente, i fondi alla ricerca e verranno formate tutta una serie di persone che dovremo capire se, dopo il PNRR, andranno all’estero, facendo molto contenti altri paesi, o decidiamo di tenerle in Italia. Però è necessario un piano, la ricerca non si può pianificare da un anno all’altro. Perché il capitale più importante della ricerca è il capitale umano, e se le persone se ne vanno all’estero per 2 o 3 anni poi diventa una fatica terribile richiamarle in Italia.