Dettaglio di un libro in legno della xiloteca di San Vito di Cadore (Belluno). Foto: Teresa De Toni / Dolomiti Contemporanee
*Franco Viola, già docente di Ecologia e, dopo Lucio Susmel, direttore del Centro di Ecologia montana a San Vito di Cadore, Università di Padova
Nei locali del Centro Studi per l'Ambiente Alpino, struttura dell'Università con sede a San Vito di Cadore, è esposta una singolare raccolta di libri di legno, cioè una xiloteca, o xilario, che da sempre è oggetto di curiosità e di discussioni accademiche. Riguardo ad essa molti sono stati gli interrogativi cui si è via via tentato di dare risposta. Ad esempio: perché quei libri di legno sono collocati a San Vito? Quale ne è l'età? Quali sono le funzioni cui erano dedicati? E chi ne è stato l'artefice? Oggi, finalmente, si possono dare risposte a quasi tutti questi quesiti.
La scoperta più recente
Il 10 novembre 1842 il signor Eugenio Trevisan, di Stra, chiese all'Imperial-Regia Università di Padova che gli venisse rilasciato un certificato comprovante l'impegno profuso presso lo “Stabilimento agrario” in qualità di custode, carica ricoperta "negli ultimi otto anni". Il certificato gli fu prontamente rilasciato dal direttore dello Stabilimento agronomico, cioè dell'Orto agrario; lo vergò l'Abate Luigi Configliacchi, professore di Storia naturale generale e di Agraria, ovvero, secondo altra dicitura, di Botanica naturale e di Agronomia. Configliacchi si attenne scrupolosamente alla richiesta e non fece cenno al fatto che Trevisan precedentemente era stato anche giardiniere dell'Orto, divenendo più tardi custode, carica che lo rendeva tecnicamente vicario del direttore. Non lesinò invece nell'elencare le capacità di Trevisan nell'ambito della botanica e dell'agronomia, la finezza artistica e tecnica da lui dimostrata nel disegno, la proprietà nell'uso della lingua francese, che in quel principio dell'Ottocento aveva soppiantato il latino quale lingua corrente nel mondo scientifico e culturale dell'Occidente. Di quel certificato è però fondamentale il passaggio in cui l'Abate Configliacchi annotava: "Il mio Custode, sig. Trevisan, ha preparato per questi Gabinetti (l'Orto agrario) non pochi oggetti che li decorano, e tra quelli è da notarsi la collezione dei libri in legno rappresentanti alberi ed arbusti con tutte le loro parti". Ecco dunque finalmente scoperto l'autore della splendida xiloteca conservata a San Vito di Cadore. Il merito della scoperta va riconosciuto al Cam - Centro di ateneo per i musei, guidato da Isabella Colpo, direttore tecnico, sotto la cui guida ha operato Letizia Del Favero, cui si deve l'attenta ricognizione degli archivi storici dell'università alla ricerca di informazioni sui preziosi cimeli conservati presso le strutture dell'ateneo.
Perché la xiloteca è conservata a San Vito di Cadore?
La facoltà di Agraria del nostro ateneo venne istituita nel 1946 e nel 1953 si avviò l'attività didattica. Le radici dell'insegnamento agrario sono però antiche. La prima cattedra di Agraria, la prima d'Europa, fu infatti istituita nel 1761. L'insegnamento venne attribuito a Pietro Arduino, già giardiniere e custode dell'Orto dei semplici. Egli si prodigò per l'attivazione di un Orto agrario, da lui concepito come vero e proprio laboratorio didattico e sperimentale, necessario al raggiungimento degli obiettivi didattici che gli erano stati imposti dallo Studio padovano e dalla Serenissima Repubblica che ne sosteneva economicamente l'insegnamento. La cattedra di Pietro Arduino passò, nel 1805, al figlio Luigi, cui venne attribuito anche il compito di formare esperti di scienze boschive, ricercati dall'Arsenale di San Marco. Un secolo dopo l'istituzione, l'insegnamento degli Arduino, passato nel 1829 all'Abate Luigi Configliacchi, cambiò nome in Economia rurale, collegata allo Studio matematico. Nel 1876 l'Orto agrario e la cattedra vennero assegnati alla Scuola di applicazione per gli ingegneri. Presso la neonata facoltà di Agraria, nei primi anni Sessanta, venne attivato anche un insegnamento forestale, la Selvicoltura, con una cattedra cui venne chiamato Lucio Susmel. Presto venne anche attivato l'omonimo istituto, che via via si fece carico degli insegnamenti di un nuovo corso di laurea in Scienze forestali, avviato sul modello di quello già attivo a Firenze. Susmel era cultore della storia forestale veneziana. Nei primi anni Cinquanta egli aveva condotto, col sostegno di alcune amministrazioni cadorine, importanti ricerche sulle foreste dolomitiche, quelle stesse che per alcuni secoli erano state gestite con le regole fissate dai provveditori alle legne e ai boschi della Serenissima. Prima ancora d'essere chiamato come docente a Padova, Susmel aveva fondato a San Vito di Cadore un Centro studi di Economia montana, titolo che riecheggiava quello dell'insegnamento degli Arduino, poi confluito nella Scuola per ingegneri. Quel centro poi divenne di Selvicoltura e infine di Ecologia, così come ancora oggi è intitolato. Fondato l'Istituto di selvicoltura, vi furono subito trasferiti alcuni "cimeli", tra cui i libri di legno, conservati a memoria dell'antica Scuola agraria e forestale degli Arduino. Fino ad allora erano collocati presso l'Istituto di costruzioni marittime, diretto erede della Scuola d'applicazione per ingegneri, con sede negli edifici del vecchio Orto agrario. Susmel li volle sistemare a San Vito, ritenendo che le attività del Centro di economia montana fossero quelle più aderenti allo spirito dell'insegnamento agrario e forestale voluto e sostenuto dalla Repubblica marciana nei suoi ultimi cinquant'anni di vita.
Conservazione dei libri in legno della xiloteca. Foto: Teresa De Toni / Dolomiti Contemporanee
La xiloteca
Quei cimeli furono subito studiati da Germano Gambi, professore di Botanica forestale nel corso di studi forestali appena fondato. Scrisse allora Gambi riferendosi ad un documento di metà Ottocento, purtroppo non più ritrovato, in cui si raccontava della ventilata chiusura dell'Orto agrario: ...l'estensore [...] si interrogava su quali sorti avrebbero avuto (in caso di chiusura dell'Orto) le belle piantagioni, le collezioni di modelli di macchine e di strumenti rurali, di sementi agricole ed orticole, di graminacee disseccate, di legni grezzi e lavorati, di libri di legno... Ecco dunque citata, a metà dell'Ottocento, la collezione dei libri di legno; Gambi purtroppo non indicò la data in cui venne stesa la relazione sul possibile destino dell'Orto. Va però anche segnalato che in una Guida di Padova e del suo Territorio, pubblicata nel 1842, l'Orto agrario diretto da Configliacchi veniva annoverato tra le meraviglie cittadine; tra gli oggetti che vi si potevano ammirare non erano però citati i libri di legno. Nella guida veniva ricordata “la ricca serie di modelli di macchine e di strumenti rurali eseguiti molto accuratamente dall'egregio meccanico della società agronomica di Vienna, sig. Ab. Hander, serie che sempre vassi accrescendo per cura del direttore dello stabilimento sig. Prof. Ab. Luigi Configliacchi". Nel 1854, al momento di lasciare l'insegnamento, l'Abate Configliacchi descrisse le belle cose contenute nell'Orto. Tra l'altro egli indicò: " ... a questi sussidi (didattici) si accompagnano i «libri di legno», fatti proprio a forma di libro e contenenti le parti più significative delle specie arboree (fusto, foglia, fiore, frutto) ...". Una più precisa descrizione dei libri di legno si legge nell'inventario dell'Orto agrario firmato, nel 1870, da Giacomo Zanella, allora rettore dello Studio. Scriveva l'estensore dell'inventario: “Libri col dorso fatto di corteccia spesso coperta dai vari licheni ai singoli vegetabili (sic) infesti, e coi lati di legno levigato, contenenti le varie parti di tutte le piante arboree nello stato naturale e alcuni prodotti che si ottengono colla sega e pialla, quindi segatura e legno a strisce, o colla combustione come cenere e carbone, in numero di 100”.
A cosa servivano i libri di legno?
Degli originari cento volumi restano oggi soltanto cinquantasei esemplari. Sul dorso di ciascuno una etichetta di carta indica un numero progressivo, da 1 a 100, e il nome della specie, in notazione sia Linneana, sia volgare. Nella maggior parte i libri sono ricavati da alberi forestali d'Italia, pochi altri sono di interesse agrario, compresa la vite; solo alcuni hanno importanza ornamentale. Mirabile è l'attenzione con cui il costruttore dei libri ha curato il mantenimento dell'aspetto della corteccia e di quello del legno, perfettamente leggibile nella venatura in tutte le sezioni: trasversale, radiale e tangenziale. È come se il libro fosse stato estratto direttamente dal fusto dell'albero: un tassello regolarmente parallelepipedo, esempio delle tavole o delle travi ricavabili dalla segagione dei fusti. Ne viene il convincimento che l'artefice seguisse un preciso progetto didattico: nell'Orto si potevano studiare gli alberi che vi erano coltivati, ed in assenza di quelli, lo studente avrebbe potuto maneggiare e osservare campioni di altri alberi importanti. Su analoghe collezioni di libri di legno hanno scritto molti studiosi di tecnologia e di questioni forestali. Carlo Urbinati, ad esempio, ricorda che “le collezioni legnose realizzate a forma di libri erano molto diffuse in Europa nel XVIII e XIX secolo; le più note tra esse sono attribuite al monaco benedettino Candid Huber (1747-1813), e a ad altri due artigiani tedeschi di quel periodo, come A.C. von Schlümbach e C. von Hinterlang. ... Restano di quell'epoca oltre trenta collezioni, le più numerose conservate in Germania (13), in Austria (7) e in Olanda (3)”. Si sa che a Milano esiste una seconda raccolta di libri che in qualche modo ricorda quella padovana. È una collezione immensa, composta da circa 550 volumi, costruita intorno al 1830 per volontà dell'Arciduca Ranieri, viceré del Regno Lombardo-Veneto. I Librini di Ranieri, come son detti i volumi conservati al Museo civico di Storia naturale di Milano, sono molto deteriorati e da tempo la collezione non è più esposta al pubblico (Banfi, 1987). Sono veri capolavori d'ebanisteria, perfettamente identici per fattura ed etichettati in marocchino con scritte a stampa in oro. Le specie sono ordinate secondo la tassonomia in uso a quel tempo. Nel caso dei nostri libri la numerazione non segue alcun apparente criterio. Il primo, l'acero campestre, era tra le specie più diffuse nella campagna veneta, essendo impiegata come tutore della vite, come integratore alimentare per gli animali da stalla e come sostegno all'apicoltura grazie alla abbondante fioritura. Era un albero di certo presente nell'Orto, in cui si insegnavano viticoltura, zootecnica e apicoltura. Anche le dimensioni dei volumi denunciano una fabbricazione piuttosto rustica. In media essi misurano 19,2 cm d'altezza, 12,5 di larghezza e 3,4 cm di spessore, ma differiscono l'uno dall'altro anche di 0,5 cm. Non si tratta dunque del lavoro commissionato da un esigente collezionista; sembra piuttosto che l'autore dei volumi abbia cercato di ottenere il meglio recuperando i legni che in quel momento aveva a disposizione. Del resto, ai fini dell'insegnamento "tecnologico" dei legni quelle piccole differenze dimensionali sono certamente ininfluenti. I libri sono teche, al cui interno è conservato quanto può servire alla classificazione della specie e a comprenderne le possibili utilità in marineria, in carpenteria, falegnameria o nel quotidiano uso domestico. Vi si trovano una pianticella con le radici, le foglie e i fiori, i frutti e i semi, la segatura e la cenere, ma anche un pezzetto di carbone ed un piccolo campione di trave, o di tavola. Il contenuto della teca è elencato in un foglio di carta azzurrina elegantemente scritto con inchiostro di colore nero. Anche da questo traspare un intento fondamentalmente didattico.
Foto: Teresa De Toni / Dolomiti Contemporanee
Quando furono costruiti i libri?
Gambi ha tentato una risposta a questa domanda. Secondo lui, che forse s'è rivolto ad un grafologo, la scrittura sul foglio descrittivo del contenuto della teca e quella sull'etichetta sono testimoni di uno stile proprio degli anni tra fine Settecento e inizio del secolo successivo, l'epoca cioè in cui l'Orto agrario era gestito dagli Arduino e poi da Configliacchi. Non aiuta molto nemmeno la certificazione rilasciata da Configliacchi, che non dichiara che i libri siano stati costruiti da Trevisan negli otto anni di servizio reso come custode dell'orto. Non si può escludere che Eugenio Trevisan si sia cimentato in questo lavoro in anni precedenti il 1834, quando cioè, con ogni probabilità, egli era impiegato nell'orto come semplice giardiniere. Vale a dire: ora conosciamo l'autore dei libri, ma non sappiamo con precisione quando egli li fece.
Chi era Eugenio Trevisan?
L'Abate certifica tuttavia che il custode dell'Orto ricevette numerosi encomi da quanti visitarono lo Stabilimento agrario in occasione della IV riunione del Congresso degli scienziati d'Italia tenutosi nel settembre di quell'anno a Padova. I libri furono bene osservati e suscitarono l'ammirazione degli scienziati. Negli atti di quello stesso congresso si legge che Trevisan partecipò attivamente alle sedute, assieme allo stesso Configliacchi. Era dunque considerato uno studioso di botanica e si fregiava del titolo di membro effettivo della Imperial Regia Società agronomica di Vienna. Nell'Almanacco civile della città di Padova e della sua provincia, edito nel 1836, Trevisan compare come giardiniere dell'Orto agrario e come socio effettivo della I.R. Accademia agronomica di Vienna, come socio corrispondente dell'Accademia stiriaca di Gratz e di quella agraria di Gorizia. Dopo il 1842, forse anche grazie all'attestato rilasciato dal direttore dell'Orto, Eugenio Trevisan venne chiamato dall'Amministrazione austro-ungarica ad operare presso il Regio Palazzo di Venezia. Di questa nuova funzione resta traccia nella Guida commerciale di Venezia dell'anno 1846, nella quale Trevisan figura come giardiniere-custode presso il Palazzo Reale. Col ruolo di custode dei Palazzi Reali figura anche nel registro ufficiale del Regno Lombardo-Veneto, nell'edizione del 1847. Insomma, Trevisan cambiò sede di lavoro, mantenendo però la prestigiosa qualifica di custode, con ogni probabilità destinato alla cura degli spazi verdi demaniali nella città di Venezia.
L'Abate Configliacchi
Va invece ricordato che Configliacchi, come sostiene Pier Giovanni Zanetti, non brillò certo per l'interesse rivolto alle discipline agrarie. Si dedicò invece molto a studi di medicina ed è noto per aver ideato la prima struttura destinata al sostegno degli ipovedenti. Di lui docente delle materie agronomiche si ricordano soprattutto gli incarichi attribuiti ad eminenti ebanisti, come l'Abate Honder, cui chiese la fabbricazione delle centinaia di modelli di macchine e di strumenti agricoli, quelli ancora oggi conservati presso la struttura didattica di Agripolis. Mai il professor Configliacchi, prima della lettera di encomio destinata a Trevisan, aveva fatto cenno alla xiloteca come se egli non si attribuisse il merito d'essere stato l'ideatore dello xilario, che pur era ritenuto ottimo strumento didattico per le scienze boschive. Resta dunque un dubbio: lo xilario fu iniziativa didattica dello stesso Eugenio Trevisan, oppure a lui venne da altri attribuito l'incarico? Ad esempio da Luigi Arduino? Ma forse questa è una questione di ben poco conto.
Foto: Teresa De Toni / Dolomiti Contemporanee