Negli ultimi anni, molte persone si sono rese conto di dover diminuire il loro impatto ambientale: prendono meno la macchina, cercano di controllare la filiera del cibo che mangiano, viaggiano in treno piuttosto che in aereo. Troppo spesso, però, nelle nostre azioni quotidiane dimentichiamo un altro aspetto, che riguarda quello che indossiamo.
Non è facile reperire dati precisi sull'impatto dell'industria della moda, tanto più che gran parte della produzione si concentra in paesi che non muoiono dalla voglia di condividerli. Anche guardando le stime più al ribasso, però, ci si rende conto che il sistema moda non è più sostenibile.
L’impatto della moda sul clima e sui consumi d’acqua
Per quanto riguarda le emissioni, per esempio, secondo le Nazioni Unite questa industria è responsabile dell'immissione nell'atmosfera di quasi 5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica ogni anno: ciò che indossiamo contribuirebbe a produrre tra l'8% e il 10% di tutte le emissioni del mondo, cioè più di tutti i voli internazionali e delle spedizioni marittime. Altre stime più prudenti parlano di una forbice tra il 2% e l'8%: la situazione è comunque critica, anche perché quella delle emissioni non è l'unica minaccia a clima e ambiente da parte dell'industria della moda che, tanto per la cronaca, vale 2.500 miliardi di dollari.
Un altro fattore critico è il consumo d'acqua. Se è vero che il cotone ha più possibilità di riciclo e riuso rispetto al poliestere, il suo processo di produzione non è altrettanto sostenibile: per dare la dimensione del problema, per produrre un paio di jeans sono necessari quasi 10.000 litri d'acqua e questo vuol dire che per ogni paio di jeans che compriamo consumiamo la stessa acqua che berremmo in 10 anni. Secondo una statistica pubblicata dall'UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente) e dalla Ellen MacArthur Foundation, ogni anno l'industria della moda utilizza 93 miliardi di metri cubi di acqua, che potrebbero soddisfare cinque milioni di persone (altre stime parlando di valori compresi tra 20.000 ai 200.000 miliardi di litri d’acqua: questa forbice così ampia costituisce un problema quando si tratta di pensare ad azioni migliorative).
“ Ogni anno l'industria della moda utilizza 93 miliardi di metri cubi di acqua
Lo spreco d'acqua ha già causato danni visibili ed è legato a doppio filo al cambiamento climatico: pensiamo al lago d'Aral, che è stato uno dei quattro laghi più grandi del mondo e che ora è quasi completamente prosciugato. Naturalmente non va data tutta la responsabilità all'industria della moda, visto che la prima causa di questa situazione è l'innalzamento delle temperature, ma quest’industria ha certamente un ruolo. Il fenomeno è cominciato negli anni Sessanta, quando due degli affluenti del lago, Amu Darya e Syr Darya, sono stati deviati per fornire acqua alle piantagioni di cotone. Questo ha comportato a sua volta un profondo cambiamento climatico nella zona: a parte inverni più freddi ed estati più calde, sono diminuite le precipitazioni e questo ha portato alla maggiore diffusione nell'atmosfera di polveri tossiche. Eh sì, perché per aumentare le coltivazioni di cotone sono stati usati diserbanti, fertilizzanti e pesticidi che si sono depositati sul fondo del lago (che non ha emissari, quindi non è collegato al mare) e che sono un pericolo per la salute di tutti gli abitanti dell'area. Non parliamo poi della perdita di biodiversità, ben rappresentata dagli scheletri delle navi da pesca abbandonate per la mancanza di pesci e arenate sulla sabbia che una volta era ricoperta d'acqua.
Come siamo arrivati a questo punto
Il problema è che l'impatto sull'ambiente e sul clima non riguarda soltanto la fase di produzione dei capi di abbigliamento e del loro trasporto, che sempre più spesso avviene via aria, a causa della riduzione del time-to-market (tempo intercorso tra la progettazione del capo e la consegna) e del lead-time (tempo intercorso tra la ricezione dell'ordine e la consegna nel punto vendita). Rispetto al trasporto via mare e via terra, il confronto è impietoso: parliamo di 0.7 kg di emissioni di CO2 per tonnellata di prodotto contro i 158 kg per tonnellata del trasporto aereo. La fase di produzione e distribuzione è solo la punta dell'iceberg, visto che in realtà l'80% della carbon footprint degli abiti è generato dal post vendita, quindi da tutte le nostre operazioni quotidiane come il lavaggio e la stiratura.
Ma come si è arrivati a questo punto? Tra gli anni Novanta e i Duemila, la concezione della moda è cambiata radicalmente. Senza scomodare i tempi in cui la maggior parte delle persone si faceva confezionare pochissimi vestiti di qualità dalla sarta di fiducia, non si sarebbe potuta prevedere la deriva consumistica nemmeno nei primi anni del prêt-à-porter, quando cioè si è smesso di puntare sugli abiti su misura per comprare nei negozi capi prodotti in serie. All'inizio, venivano create due collezioni, primavera/estate e autunno/inverno, spesso affiancate da capi evergreen. Se è vero che questo nuovo paradigma ha avuto un impatto positivo sulle finanze dei consumatori finali, l'introduzione del prêt-à-porter ha portato alla nascita di quella mentalità che ha aperto la strada al fastfashion.
“ I resi spesso non vengono rimessi in circolo ma mandati direttamente al macero, perché la collezione dopo poco tempo non è più vendibile
E così tra il 2000 e il 2015 la produzione globale di abbigliamento è raddoppiata (oggi acquistiamo in media il 60% in più di capi di abbigliamento rispetto al 2000), e con il boom dei social network si è fatta avanti l'idea che ogni giorno fosse necessario sfoggiare un outfit diverso per fotografarlo. Uno dei problemi di questo approccio è che l'algoritmo delle piattaforme richiede sempre nuovi contenuti, ma a un certo punto lo spazio per i vestiti finisce. Alcuni influencer pensano così di risolvere il problema alla radice, procedendo al reso gratuito subito dopo essersi fotografati con i capi addosso (ci sono e-commerce che di recente hanno tolto questa possibilità. Molti di loro hanno addotto motivazioni ambientali, ma è probabile che ci sia anche un ritorno economico per loro). Del resto i resi implicano un trasporto e quindi ulteriori emissioni, senza contare che spesso non vengono rimessi in circolo ma mandati direttamente al macero, perché la collezione dopo poco tempo non è più vendibile, e questo accade anche con i prodotti di lusso, perché i brand non vogliono svalutare i loro pezzi vendendoli a un prezzo inferiore. Altri indossano i capi per un po' e poi se ne liberano, sia perché la moda è capricciosa e cambia velocemente, sia perché i capi economici sono di bassa qualità e tendono a rovinarsi.
Lo sfruttamento e le reazioni troppo timide
Governi e istituzioni hanno chiaro il problema, ma quando si tratta di mettere in campo dei correttivi l'impressione è che non sempre siano lungimiranti. L'Europa per esempio si è attivata per creare una normativa per abbattere l'impatto ambientale del sistema moda, ma le modalità di attuazione e controllo sono ancora un'incognita. Uno dei problemi di questa industria è la mancanza di tracciabilità: Maxine Bédat, avvocata e fondatrice del New Standard Institute, una no profit che collabora con scienziati e cittadini per rendere questa industria più sostenibile, ha scritto Il lato oscuro della moda edito da Post Editori, un libro-inchiesta che segue un paio di jeans a partire dai campi di cotone del Texas fino ai nostri armadi. Mentre si documentava per questo lavoro, Bédat si è accorta che gli stessi produttori non avevano idea dei giri immensi che i capi affrontavano prima di trasformarsi in prodotto finito pronto sugli scaffali del brand (o, più spesso, su Amazon).
A questo proposito, ci sarebbe da aprire un altro capitolo per parlare dell’impatto che tutto questo ha sulla forza lavoro, spesso costituita da manodopera sfruttata in paesi nei quali i controlli latitano, e quando vengono fatti dall’azienda madre, che appalta a terzi la produzione parziale degli abiti, vengono fatti male (Bédat cita gli audit in cui viene chiesto al lavoratore se ha mangiato a pranzo, e questi, invariabilmente, risponde di sì, anche quando si può notare a colpo d’occhio che le mense aziendali, quando ci sono, sono vuote. Per ottenere risposte non influenzate dalla paura di perdere il lavoro, basterebbe chiedere cosa l’operaio ha mangiato nello specifico, ma troppo spesso ci si accontenta della prima risposta).
Le condizioni disumane a cui sono costretti i lavoratori dipendono dal peccato originale che determina anche buona parte dell’impatto ambientale del sistema moda: l’imperativo categorico è quello della rapidità, perché il consumatore è abituato a trovare sullo scaffale un determinato prodotto appena visto sul profilo social di un influencer, anche se abita dall’altra parte dell’oceano. In passato i tempi non erano così stretti, perché il momento in cui si veniva a conoscenza di un prodotto era quando usciva la sua pubblicità sui giornali e in tv, e in questo caso le aziende avevano il potere di cadenzare le uscite senza dover correre troppo. Ora questo non è più possibile, e senza una normativa sulla tracciabilità del prodotto finito, ma anche dei singoli componenti, le aziende avranno sempre altre priorità, salvo poi dissociarsi vanamente quando vengono a sapere che i terzisti da cui si riforniscono sfruttano la manodopera o non smaltiscono gli scarti di produzione in modo corretto (al netto delle sostanze chimiche usate per la produzione, ogni anno mezzo milione di tonnellate di microfibre di plastica finiscono nell'oceano: è come se fossero 50 miliardi di bottiglie. Alcune microplastiche, comunque, provengono anche dalle nostre lavatrici, se utilizziamo capi di poliestere o di altri materiali derivanti dal petrolio).
Ma noi cosa possiamo fare?
E poi c’è il problema dello smaltimento, perché quando pensiamo di mettere in ordine l'armadio e di dare i nostri vestiti a qualcuno che ne ha più bisogno stiamo invece iniziando il processo che li spedirà dritti dritti in discariche a cielo aperto in Africa. Ogni anno in Ghana vengono riversate 130.000 tonnellate di oggetti di stoffa, e nell'immenso mercato di Katamaranto arrivano 15 milioni di capi a settimana. Gli imprenditori locali li comprano a peso per poterli rivendere ai cittadini, che però non apprezzano gli stessi tessuti usati nel mondo occidentale (per esempio non utilizzano quelli sintetici, scarsamente traspiranti), e quindi il 40% di questi capi si trasforma in rifiuto entro una settimana. Poi vengono bruciati nelle discariche a cielo aperto, o direttamente in alcune aree del mercato, in roghi che troppo spesso vanno fuori controllo e diffondono nell'aria CO2 e sostanze chimiche tossiche.
È un quadro impietoso, che suggerisce che probabilmente non saranno le normative o i materiali innovativi a salvarci (anche se è lecito sperare e tentare), e nemmeno il vintage e il preloved, che vanno di moda ma hanno comunque un impatto in termini di trasporto e smaltimento, soprattutto se lo scopo è sempre quello di riempire gli armadi di capi nuovi. Perché per prima cosa dobbiamo cambiare la nostra mentalità, comprare meno e comprare meglio, investendo in capi di qualità destinati a durare, che sicuramente sul momento costeranno più dei corrispondenti del fastfashion, ma che saranno più convenienti se calcoliamo il “cost per wear”, cioè quanto ci costa indossare una volta quel capo: un vestito creato per durare verrà indossato molto di più, e quindi il suo prezzo verrà ammortizzato nel tempo.
Sicuramente la responsabilità della situazione non è solo dei consumatori, e sarà necessario affiancare una maggiore consapevolezza a nuove leggi e alla modifica del processo di produzione. E però fuor di dubbio che dobbiamo riconsiderare la leggerezza con cui intasiamo i nostri armadi, evitando di farci sedurre dalle pubblicità che ci vengono propinate attraverso i social e gli altri media.