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Nel volume Sustainable Diets and Biodiversity (2010), curato dalla FAO, le diete sostenibili sono definite come «quelle diete a basso impatto ambientale che contribuiscono alla sicurezza alimentare e assicurano una vita sana per le generazioni presenti e future. Le diete sostenibili proteggono e rispettano la biodiversità e gli ecosistemi, sono culturalmente accettabili, accessibili, economicamente eque e convenienti; sono adeguate dal punto di vista nutrizionale, sicure e sane; inoltre, ottimizzano le risorse naturali e umane».
Si tratta di un modello assolutamente auspicabile, in grado di tutelare al tempo stesso la salute umana e quella ambientale, e che può contribuire alla realizzazione di molti degli obiettivi dell’Agenda 2030 – eradicazione della fame, protezione della biodiversità terrestre e marina, lotta al cambiamento climatico, equo accesso a risorse e opportunità. E tuttavia, si tratta di un modello ancora ben lontano dall’essere realistico.
Come riportato nell’ultima pubblicazione curata dal Barilla Center for Food and Nutrition, dal titolo A One-Health Approach to Food, i costi dell’attuale sistema di produzione alimentare e dei modelli di consumo più diffusi sono altissimi. Da una parte vi è l’impatto sulla salute, che si manifesta come denutrizione o malnutrizione nei paesi in via di sviluppo e come sovrappeso e obesità (e malattie non trasmissibili correlate a queste condizioni) nei paesi industrializzati; dall’altra vi è l’impatto ambientale, con un alto tasso di emissioni di gas serra attribuibile alle attività di produzione alimentare, che sono peraltro responsabili almeno del 70% del consumo globale di acqua dolce disponibile.
Proprio sull’analisi dell’impatto ambientale dei sistemi alimentari si concentra uno studio, recentemente pubblicato dalla rivista scientifica Nature Food, condotto da un gruppo di ricercatori della FAO e del Joint Research Centre della Commissione europea presso l’ISPRA: gli esperti hanno elaborato una nuova banca dati che mira a fornire una quantificazione il più possibile esaustiva delle emissioni prodotte annualmente dal settore alimentare, con una suddivisione per nazione e per settore produttivo. Il database, nominato EDGAR-FOOD, è il primo – affermano gli autori – «ad occuparsi in modo sistematico di ogni fase della catena alimentare per tutti i paesi con frequenza annuale per il periodo 1990-2015».
Il risultato di questa analisi non è dei più confortanti: nel 2015, infatti, al settore alimentare andrebbe attribuito il 34% (con un margine dal 25% al 42%) di tutte le emissioni climalteranti globali, una percentuale che corrisponde a 18 gigatonnellate (Gt) (con un margine da 14 a 22 Gt). Di queste, il 27% è stato emesso dai paesi industrializzati e il 73% dai paesi in via di sviluppo (compresa la Cina); inoltre, nel 2015 il 71% delle emissioni del sistema alimentare derivava da settori legati alla terra: l’agricoltura, in primo luogo, e lo sfruttamento del suolo e il cambiamento di destinazione del suolo ad essa correlati.
Dallo studio dei dati disponibili, è emerso come la distribuzione delle quote di emissioni non sia geograficamente omogenea: sei sole nazioni, infatti, hanno contribuito, nel 2015, per il 51% al totale delle emissioni globali legate alla produzione di cibo. Queste nazioni sono Cina, Indonesia, Stati Uniti, Brasile, Unione europea e India. La differenziazione del contributo in emissioni per settore produttivo ha consentito di evidenziare un’ulteriore disparità, che – ancora una volta – contrappone “primo” e “terzo” mondo: nei paesi industrializzati, le emissioni legate all’uso di energia (industria, rifiuti) sono ben più alte (53%) di quelle legate all’utilizzo della terra; nei paesi in via di sviluppo, al contrario, il maggiore contributo di emissioni proviene proprio dall’agricoltura e dall’uso della terra (73%).
In termini assoluti, dal 1990 al 2015 le emissioni derivanti dalle attività di produzione alimentare sono cresciute: si è passati dalle 16 Gt annue del 1990 alle 18 Gt del 2015. In termini relativi, invece, il contributo di questa industria all’emissione di gas climalteranti è globalmente diminuito (contribuiva per il 44% nel 1990, per il 34% nel 2015): questo, tuttavia, potrebbe non essere indice di una tendenza virtuosa, ma potrebbe piuttosto indicare – specificano gli autori dello studio – una modificazione delle quote di emissioni che le diverse attività producono; di certo, parte della spiegazione di questo trend di riduzione dell’impatto ambientale dei sistemi alimentari è la diminuzione delle emissioni dipendenti dall’uso dei terreni, soprattutto grazie al significativo calo delle pratiche di deforestazione. Inoltre, nello stesso periodo (1990-2015) la produzione globale di cibo è aumentata del 40%, indicando dunque, in generale, una minore intensità di emissioni da parte del settore.
Accanto alle emissioni derivanti dallo sfruttamento e dalla modificazione della destinazione d’uso dei suoli, che costituiscono circa un terzo del totale, spiccano per intensità di emissioni tutte le attività energivore della catena di produzione alimentare, in primo luogo i diversi stadi di produzione e trasformazione successivi a quello propriamente agricolo: questi, infatti, costituiscono il 39% delle emissioni annuali di gas serra imputabili al settore alimentare.
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Alcuni fra gli autori dello studio – Monica Crippa, Efisio Solazzo, Adrian Leip –, commentando i risultati della loro ricerca, affermano: «La quota di emissioni di gas serra legate all’uso di energia e alla lavorazione industriale è in aumento. Il sistema alimentare dovrà quindi investire in tecnologie di efficientamento energetico e di decarbonizzazione per ridurre le emissioni di gas serra; saranno altrettanto necessarie, inoltre, le tecnologie di mitigazione terrestre all’interno e all’esterno del circuito agricolo».
«Azioni di mitigazione, mediante la riduzione delle emissioni causate dalla deforestazione e all’interno del circuito agricolo, sono già al centro di molte politiche ambientali, come ad esempio quelle dell'Unione Europea», proseguono i ricercatori. «Ma i nostri dati mostrano anche una crescente importanza delle emissioni derivanti dall'uso di energia, principalmente legate ai processi post-agricoli: tale evidenza mostra ancora una volta l’intricato legame fra la terra e i sistemi energetici. Ciò significa che ogni misura di sviluppo e mitigazione deve essere esaminata alla luce del suo effetto globale lungo la catena alimentare; ovviamente, le emissioni di gas serra sono solo uno – per quanto importante – dei molti aspetti da considerare.
Le soluzioni per ridurre le emissioni di gas serra causate dai sistemi alimentari dovranno includere sia strumenti che riducano le emissioni nella catena di fornitura, sia misure che aiutino il consumatore a ottenere diete più sane e sostenibili. È importante disporre di pacchetti politici coordinati e coerenti e garantire che “nessuno venga lasciato indietro”. La nostra speranza è che EDGAR-FOOD sia utile per identificare quali siano le azioni più efficaci per ridurre le emissioni di gas serra del sistema alimentare».
Un ruolo sempre meno marginale è occupato, oltre al settore agricolo e a quello produttivo, dai settori della distribuzione e degli imballaggi. «I nostri dati – è riportato nello studio – mostrano un sistema alimentare globale caratterizzato da un incremento di cibi pronti e trasformati, e, ovunque, una crescente globalizzazione delle catene di approvvigionamento alimentari, mentre, al tempo stesso, persistono profonde differenze nella distribuzione e nella disponibilità del cibo». A fronte del crescente impatto della produzione di imballaggi e del settore dei trasporti (all’interno del quale, il trasporto locale su gomma (81%) e su rotaia (15%) generano più emissioni dei trasporti per nave (3,6%) o per via aerea (0,4%)), come suggeriscono gli autori, «le politiche urbane e l’implementazione della logistica nel settore del cibo potrebbero migliorare significativamente l’efficienza energetica dei sistemi alimentari».Nonostante la crescente richiesta di energia, correlata ai processi di meccanizzazione agricola nei paesi in via di sviluppo e al ricorso sempre più ampio a processi di lavorazione industriale, a tutt’oggi i comparti energivori del sistema di produzione alimentare non sono la principale fonte di emissioni del settore: nonostante le amplissime differenze tra i diversi paesi, infatti, a pesare molto sull’impatto ambientale del sistema alimentare è ancora l’uso della terra; si tratta, tuttavia, di una realtà in rapido cambiamento, poiché le emissioni del settore alimentare sono sempre più determinate dall’utilizzo di energia. L’efficientamento energetico sarà dunque cruciale, ma, avvertono gli esperti nello studio, non basterà a ridurre in maniera drastica le emissioni del settore: per via della crescente richiesta di cibo da parte di una popolazione mondiale tuttora in forte crescita, «la stessa produzione di cibo continuerà ad essere una fonte primaria di emissioni, che richiederà adeguate politiche di mitigazione».
«La quota di emissioni di gas serra legate all'uso di energia e alla lavorazione industriale è in aumento – spiegano i ricercatori a Il Bo Live –, ed è quindi imprescindibile l’investimento in tecnologie che aumentino l’efficienza energetica e e in tecnologie di decarbonizzazione. Ovviamente, il sistema alimentare globale deve evolvere verso la sostenibilità. Ciò sarà essenziale per raggiungere alcuni degli obiettivi individuati nell’Agenda 2030 dell’ONU: per ridurre insicurezza alimentare e malnutrizione prevalente in molti paesi, per limitare la perdita di biodiversità, e per affrontare le problematiche legate all’inquinamento di aria e acque. Alcune iniziative sembrano andare in questa direzione: ad esempio, la Commissione Europea ha lanciato, lo scorso anno, la Farm to Fork Strategy; a livello mondiale, il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres ha indetto un Food Systems Summit, che si terrà in Settembre (un Pre-summit sarà organizzato dall’Italia nel mese di luglio), con l’obiettivo di individuare e mettere in atto soluzioni reali».