Sfruttare la luce per produrre molecole utili all’uomo, risparmiando energia e rendendo più efficienti e sostenibili i processi industriali. È questo in sintesi uno degli aspetti più importanti della ricerca appena pubblicata su Nature Synthesis dal gruppo di ricerca che comprende Luca Dell'Amico, Javier Mateos, Francesco Rigodanza, Paolo Costa, Mirco Natali, Alberto Vega-Peñaloza, Elisa Fresch, Elisabetta Collini, Marcella Bonchio e Andrea Sartorel, quasi tutti (a parte Natali dell’Università di Ferrara) del Dipartimento di Scienze Chimiche dell’Università di Padova.
Il punto di partenza è costituito dalla reazione di Paternò-Büchi, scoperta nel 1909 dal chimico siciliano Emanuele Paternò e perfezionata molti anni più tardi dallo svizzero George Büchi, nella quale tramite l’esposizione alla luce vengono formati composti organici con anelli a quattro membri di tipo ossetano. In pratica la luce riesce ad attivare molecole più semplici in modo che queste si combinino come tanti mattoncini per formare sistemi molecolari complessi di natura organica: le strutture che sono alla base della vita sulla Terra.
Servizio di Daniele Mont D'Arpizio e Barbara Paknazar
Ora l’importanza della scoperta del gruppo a trazione padovana è che per la prima volta, esponendo gli stessi reagenti iniziali a fasci di luce con lunghezze d'onda e colori diversi, si ottengono in misura consistente due composti diversi. A seconda insomma della luce utilizzata con gli stessi mattoncini è possibile costruire un ponte o un castello. “La Paternò-Büchi è stata scoperta oltre un secolo fa e riguarda la costruzione di cicli molto complessi, per i quali è necessario fornire tanta energia – spiega Luca Dell’Amico, docente di chimica organica presso l’Università di Padova –. Ovviamente dopo tanti anni le tecnologie sono cambiate e adesso scopriamo come utilizzare in maniera mirata questo fenomeno, magari per arrivare in futuro a un modo più semplice e pulito per elaborare in grande scala le grandi catene molecolari essenziali soprattutto per l’industria chimica e farmaceutica”.
Una scoperta che, nella migliore tradizione, nasce quasi per caso, ovvero dall’osservazione che una stessa soluzione di reagenti in seguito all’esposizione a fonti luminose differenti poteva assumere colori diversi: segno evidente che diverse erano anche le sostanze che si erano venute ad ottenere al loro interno. All’inizio si è pensato all’errore nella preparazione delle provette; in seguito, attraverso un percorso durato quattro anni di esperimenti e di ricerche, si è arrivati alla sicurezza di essere arrivati a una scoperta che potrebbe rivoluzionare la chimica organica.
Nello studio pubblicato su Nature Synthesis gli stessi elementi di base sono stati esposti a una luce blu, con una lunghezza d’onda dai 420 ai 450 nanometri, e a una violacea, intorno a 405 nanometri. Il risultato sono due molecole sconosciute dalle caratteristiche completamente diverse, che adesso saranno studiate alla ricerca di un possibile impiego. Si potrebbe in seguito aprire una vera e propria caccia alle nuove molecole ottenibili in base allo stesso principio con lunghezze d’onda e reagenti diversi: a volte basta infatti una differenza minima nell’architettura molecolare per avere proprietà opposte. “Perché usare la luce? È una fonte rinnovabile, sostenibile e green – spiega Paolo Costa, uno degli autori dello studio –. Con essa andiamo inoltre ad attivare meccanismi innovativi e a costruire molecole che con altri metodi sono inaccessibili”. Un approccio completamente sostenibile, che evita l’uso di reagenti tossici, di metalli e di temperature elevante. In questo caso la luce è l’ingrediente essenziale che si utilizza per fornire l’energia necessaria alla reazione: un modo nuovo e più verde di accesso a molecole bioattive complesse che evidentemente ha attirato anche l’attenzione della prestigiosa rivista scientifica britannica.
La ricerca pubblicata rientra nel filone di ricerca legato all’ERC starting grant ottenuto da Luca Dell’Amico e finanziato e finanziato dall’Unione Europea con circa due milioni di euro, incentrato a sua volta sullo studio dei meccanismi alla base della sintesi di molecole organiche mediata dalla luce, in particolare sul ruolo svolto dai fotocatalizzatori. Del resto l’Università di Padova è considerata da anni all’avanguardia nella ricerca fotochimica: già nel 2012 lo European Research Council aveva assegnato un grant da un milione e mezzo di euro ad Elisabetta Collini (tra gli autori dello studio) per le ricerche sui processi di cattura dell’energia solare che si ispiravano a ciò che avviene nelle piante attraverso la fotosintesi clorofilliana. Una speranza anche questa per un mondo sempre più affamato di energia sostenibile e pulita.