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Uno dei sentimenti più diffusi quando si parla di crisi ambientale è l’impotenza. Come individui e privati cittadini, sentiamo di non avere alcuna possibilità di cambiare davvero la situazione, e spesso percepiamo che il contesto nel quale ci muoviamo non sia così attento alla questione, che non ci sia un senso di urgenza diffuso.
Eppure, per quanto comune, non è detto che questa percezione sia corretta: a suggerirlo è una ricerca pubblicata su Nature Climate Change da un gruppo di economisti tedeschi e olandesi, che riportano i risultati di un’estesa indagine a cui hanno preso parte quasi 130.000 persone da 125 paesi del mondo. Agli intervistati è stato chiesto se e in che misura fossero in favore dell’adozione di misure per la lotta alla crisi climatica.
Leggendo le notizie di attualità, sembra che nel mondo il consenso per la transizione ecologica stia rapidamente scemando. Ogni qualvolta i governi provino a introdurre misure per accelerare la decarbonizzazione o per sostenere mitigazione e adattamento, da più parti si levano proteste. È stato il caso della famosa protesta francese dei gilet jaunes, nel 2018, ed è avvenuto, più di recente, con la larga protesta degli agricoltori in tutta Europa contro le norme sui pesticidi, sul ripristino della natura, sulla Politica Agricola Comune. Queste manifestazioni di dissenso sono in una certa misura diffuse e fanno rumore, certo; ma davvero interpretano il sentimento generale? Davvero, insomma, la maggioranza della popolazione mondiale è contraria – o tutt’al più indifferente – a un maggiore impegno politico ed economico per limitare i danni e tutelare le persone e la natura dai rischi della crisi ambientale in cui siamo immersi?
La risposta, dati alla mano, è: no. Le domande che hanno guidato la ricerca sono semplici ma cruciale: in che misura le persone sono disposte a contribuire al bene comune? E come viene percepita la volontà degli altri di contribuire al bene comune? Le risposte sono tanto inaspettate (almeno per chi scrive) quanto confortanti: delle 129.902 persone – selezionate casualmente per avere una equa rappresentazione di generi, età e classi sociali – che hanno risposto al sondaggio, ben il 69% ha dichiarato di essere disposto a devolvere mensilmente l’1% del proprio reddito familiare per la lotta al cambiamento climatico, mentre il 6% ha dichiarato che sarebbe disposto a contribuire con una cifra più bassa e il 26% si è dichiarato contrario a questa ipotetica misura.
La grande maggioranza degli intervistati (86%) ha inoltre dichiarato di credere che i propri concittadini dovrebbero impegnarsi per combattere la crisi climatica. Infine, l’89% dei rispondenti ritiene che il proprio governo nazionale dovrebbe fare di più per combattere la crisi climatica.
Chi ha già subìto la crisi climatica è più cooperativo
Al di là delle percentuali complessive – che spesso racchiudono grandi differenze nazionali e regionali – è istruttivo guardare alla distribuzione geografica di queste risposte. I ricercatori hanno infatti stabilito una correlazione inversa tra la diffusione della volontà di contribuire attivamente alla lotta alla crisi climatica (devoluzione di una minima percentuale del proprio reddito) in un paese e il PIL pro capite: nei paesi più ricchi, le persone disponibili a compiere questo sacrificio sono il 62%, percentuale che sale al 78% nei paesi più poveri. Questo dato è significativo quando si parla di cambiamento climatico per un motivo lineare: laddove c’è più ricchezza, c’è anche maggiore resilienza, e dunque i paesi più poveri sono anche i più vulnerabili agli effetti negativi della crisi ambientale.
Vi è anche un altro motivo che spiega questa correlazione inversa: oggi, i paesi più ricchi sono anche quelli che dipendono in misura maggiore dalle fonti fossili, e dunque contribuiscono di più al progredire della crisi climatica. In questi paesi, dunque, impegnarsi davvero per contrastare il cambiamento del clima significherebbe modificare in modo spesso radicale le abitudini quotidiane, con la concreta possibilità di un calo degli agi e della qualità della vita. Come sintetizzano i ricercatori, le scienze comportamentali mostrano che «gli individui sono meno disposti a contribuire [al bene comune, n.d.r.] se percepiscono i costi dell’adattamento come troppo alti, cioè quando il necessario cambiamento nello stile di vita è percepito come troppo drastico».
Parallelamente, lo studio evidenzia una correlazione positiva tra la volontà di contribuire alla lotta al cambiamento climatico e le temperature medie annuali del paese di residenza. Ancora una volta, questo mette in luce come chi ha subìto sulla propria pelle gli effetti della crisi climatica (ad esempio, sotto forma di ondate di calore, siccità o alluvioni) sia molto più disposto a fare sacrifici personali pur di limitare i danni peggiori della crisi in futuro.
Io voglio contribuire, ma gli altri?
Sulla base delle risposte ricevute, gli autori dello studio mettono in luce un aspetto fondamentale che determina l’efficacia di un impegno cooperativo comune in una società: la forza delle credenze. In tutti i 125 paesi censiti, si è riprodotta una medesima tendenza: la maggior parte delle persone tende a sottostimare in larga misura la volontà cooperativa dei propri concittadini. Anche in questo caso, vi sono differenze significative tra i vari paesi: la discrasia tra realtà e percezione è significativamente più alta nei paesi che registrano temperature medie annuali più alte, e più bassa nei paesi con il PIL più alto. Questo gap di percezione è definito dai ricercatori “ignoranza pluralistica”, uno stato che si verifica «quando le persone percepiscono sistematicamente in modo errato le credenze o gli atteggiamenti altrui». Questa condizione può alimentare un diffuso sentimento di pessimismo rispetto alla diffusione fra i propri concittadini della volontà di agire, rappresentando potenzialmente un serio ostacolo all’azione per il clima.
Ma questo effetto a cascata si può evitare: poiché è stato dimostrato che una riduzione anche minima (1%) nel gap di percezione può aumentare dello 0,43% la probabilità che un individuo voglia contribuire, si potrebbero elaborare interventi molto efficaci di natura politica e comunicativa per contrastare attivamente queste percezioni e nutrire il senso di comune urgenza e volontà di agire in prima persona per il bene comune.
Sembra, dunque, che il compito di scienziati, comunicatori e politici debba essere ripensato. Non si tratta più di ‘convincere’ le persone che il cambiamento climatico esiste e che è un problema comune da affrontare: questo sembra un dato ormai assodato per gran parte della popolazione mondiale. Non si tratta neanche di persuadere le persone del fatto che l’impegno individuale conta: anche su questo sembra che vi sia consapevolezza diffusa. Quel che bisogna fare, e bisogna farlo con urgenza, è rompere la “bolla” di pessimismo e isolamento nella quale molti di noi sono immersi, e creare una rete di comunicazione che permetta di percepirsi parte di una comunità d’intenti tra cittadini e con le istituzioni.